di Henry Corbin (1903-1978)
Offrendo le due parole latine mundus imaginalis come titolo di questa discussione, intendo provare a definire un ordine di realtà che corrisponda a un certo tipo di percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire un punto di riferimento tecnico preciso, con cui confrontare i più o meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali.
Ma farò subito un’ammissione. La scelta di queste due parole mi si impose qualche tempo fa, poiché non mi era possibile, per quello che traducevo o dicevo, essere soddisfatto dal termine ‘immaginario’. Non si tratta in nessun modo di una critica verso chi adopera per necessità questa parola, se cerchiamo insieme di giungere ad una sua positiva rivalutazione. A prescindere dai nostri sforzi, però, non possiamo evitare che il termine ‘immaginario’, nell’uso corrente e non deliberato, sia l’equivalente di non-reale, qualcosa che indica ciò che rimane estraneo all’essere e all’esistente – in breve, utopistico. Perciò ero assolutamente obbligato a trovare un altro termine se non volevo confondere i lettori occidentali.
Se indichiamo solitamente l’immaginario come irreale, utopistico, questo deve essere sintomo di qualche cosa. Di contro a questo sintomo, possiamo esaminare brevemente insieme l’ordine di realtà che io ho designato come ‘mundus imaginalis’ e cosa i teosofi islamici indicano come ‘ottavo clima’; esamineremo poi l’organo che percepisce questa realtà, precisamente, la coscienza immaginativa, l’Immaginazione cognitiva; e infine presenteremo alcuni esempi, tra i tanti altri ovviamente, che tratteggino la topografia di questi intramondi, così come sono stati osservati da coloro che realmente sono stati lì.
Ho appena nominato l’utopia. E’ strano, ma anche un esempio decisivo, che i nostri autori usino un termine persiano che sembra esserne l’esatto calco linguistico: Na-kojd-Abad, la “Terra di Nessundove”. Eppure si tratta di qualcosa di totalmente differente da un’utopia.
Leggiamo quindi i bellissimi racconti persiani – insieme fiabe visionarie e temi di iniziazione – di Sohravardi, il giovane Shaykh che, nel dodicesimo secolo fu il “restauratore della teosofia dell’antica Persia” nell’Iran islamico. All’inizio di ogni storia, il visionario si trova alla presenza di una figura soprannaturale di straordinaria bellezza, a cui il visionario chiede chi sia e da dove venga. Questi racconti narrano essenzialmente l’esperienza dello gnostico, vissuta come la personale vicenda dello Straniero, il prigioniero che aspira a ritornare a casa.
Al principio della storia che Sohravardi intitola “L’Angelo Rosso” il prigioniero, sfuggito alla sorveglianza dei suoi aguzzini, ovvero temporaneamente lasciato il mondo dell’esperienza sensoriale, si trova nel deserto alla presenza di un essere al quale domanda, poiché vede in lui il fascino dell’adolescente: “Oh giovane! da dove vieni?” e riceve la risposta “Cosa dici? Io sono il primo nato tra i figli del Creatore [in termini gnostici il Protoktistos, il Primo-Creato] e tu mi chiami giovane?”. Questa è l’origine del colore rosso dei suoi abiti: l’apparire di un essere di pura Luce il cui splendore è ridotto, dal mondo sensoriale, nel rosso del crepuscolo. “Provengo da oltre il monte di Qaf… Là eri in origine, e lì ritornerai quando infine ti libererai dai tuoi legami”
La montagna di Qaf è la montagna cosmica costituita, di vetta in vetta, di valle in valle, dalle Sfere celesti che sono racchiuse una nell’altra. Qual è, dunque, la strada che porta al di fuori di essa? Quanto è lunga? “Non importa quanto a lungo camminerai” è detto “arriverai di nuovo al punto di partenza” come la mina del compasso che ritorna allo stesso punto. Ciò implica abbandonare se stessi al fine di conquistare se stessi? Non esattamente. Tra i due, c’è un evento che cambia tutto; il sé stessi che si trova là è quello al di là del monte di Qaf, un sé superiore, un sé “in seconda persona”. Sarà necessario, come Khezr (o Khadir il profeta misterioso, l’eterno viandante) bagnarsi alla Sorgente della Vita. “Colui che ha trovato il significato della Vera Realtà è arrivato alla Sorgente. Quando emerge dalla Sorgente, ha conquistato l’Attitudine che lo rende come un balsamo, di cui se verserai una sola goccia nel cavo della mano, tenendola rivolta al sole, ed essa passerà sul dorso della mano. Se sei Khezr, passerai anche senza difficoltà attraverso la montagna di Qaf.
Altri due racconti mistici danno un nome a ciò che “al di là delle montagna di Qaf, è il nome che segna la trasformazione dalla montagna cosmica alla montagna psicocosmica, la transizione del cosmo fisico in ciò che costituisce il primo livello dell’universo spirituale. Nel racconto intitolato ‘Il frullo delle ali di Gabriele’ appare nuovamente la figura che Avicenna chiama Hayy ibn Yaqzan (“il Vivente, figlio del Guardiano”) e che, in questo caso, è detta l’Arcangelo Rosso. La domanda d’obbligo viene perciò rivolta e la risposta è la seguente: “Provengo da Na-koja-Abad”. Infine nel racconto intitolato “Vademecum del Fedele d’Amore” (Mu’nis al-’oshshaq), in cui è rappresentata una triade cosmogonia le cui dramatis personae sono, rispettivamente, Bellezza, Amore e Tristezza, la Tristezza appare a Ya’qab piangendo per Giuseppe nella terra di Canaan. Alla domanda: “Quale orizzonte hai attraversato per giungere qui?” viene data la stessa risposta: “Io vengo da Na-koja-Abad”
Na-koja-Abad è uno strano termine. Non si trova in alcun dizionario di persiano e fu coniato, per quanto ne so, dallo stesso Sohravardi, attingendo dal più puro retaggio linguistico persiano. Letteralmente, come ho detto, significa la città, la regione o il territorio (abad) di Nessun-dove (Na-koja). Siamo perciò di fronte ad un termine che, a prima vista, ci appare come l’esatto equivalente del termine ou-topia che, a sua volta, non si trova nei dizionari di greco classico, e fu coniato da Thomas More come nome astratto per designare l’assenza di localizzazione, di qualsiasi sito nello spazio esperibile e verificabile mediante i nostri sensi. Etimologicamente e letteralmente si potrebbe tradurre esattamente Na-koja-Abad con outopia, utopia, eppure rispetto al concetto, all’intenzione e al vero significato io ritengo che sarebbe una traduzione scorretta. Mi sembra, perciò, che sia di fondamentale importanza tentare, almeno, di determinare perché si tratterebbe di una cattiva traduzione.
Si tratta di una precisazione indispensabile, se vogliamo comprendere il significato e le reali implicazioni delle molteplici informazioni sulla topografia esplorata nello stato di visione, lo stato intermedio tra la veglia e il sonno – informazioni che per esempio, tra gli spiritualisti dell’Islam Sciita, riguardano la “terra dell’Imam nascosto”. Precisazione che, portando la nostra attenzione a differenziare una intera regione dell’anima, e quindi un’intera cultura spirituale, ci porta a chiedere: quali condizioni rendono possibile ciò che chiamiamo solitamente utopia e, di conseguenza, l’uomo utopico? Come e perché fa la sua apparizione? Mi domando, infatti, se forme equivalenti si trovino e dove, tra le forme tradizionali del pensiero islamico. Non credo, ad esempio, che quando Farabi, nel decimo secolo, descrive la “Città Perfetta”, o il filosofo Andaluso Ibn Bajja (Avempace), nel dodicesimo secolo, riprende lo stesso tema ne “La Regola del Solitario” – non credo che nessuno di loro contemplasse ciò che oggi chiamiamo un’utopia sociale o politica. Leggerli in questo senso sarebbe, io temo, distoglierli dai propri presupposti e prospettive allo scopo di imporre i nostri, le nostre dimensioni; soprattutto, temo implicherebbe cadere nella confusione tra Città Spirituale e Città immaginaria.
La parola Na-koja-Abad non indica qualcosa di inesistente, privo di dimensione spaziale. La parola persiana abad significa di sicuro una città, una terra coltivata e popolata, dunque qualcosa che possiede un’estensione. Quello che intende Sohravardi con l’essere “al di là del monte Qaf” è quello che per lui e per l’intera tradizione teosofica dell’Islam rappresenta l’insieme delle tre città mistiche di Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya. Come indicazione topografica, si afferma precisamente che questa regione inizia “sulla superficie convessa” della Nona Sfera, la Sfera delle Sfere, ovvero la Sfera che include l’intero cosmo. Questo significa che ha inizio nell’esatto momento in cui ci si eleva oltre la Sfera suprema, che definisce tutte le possibili direzioni sul nostro mondo, la “Sfera” cui si riferiscono i punti cardinali del cielo. E’ evidente che quando si è superato il vincolo spaziale, la domanda “dove?” (ubi, koja) perde di significato, quantomeno rispetto alla domanda di orientamento nello spazio sensoriale. Ecco dunque il nome Na-koja-Abad: un luogo al di fuori dello spazio, non “luogo” non contenuto in un luogo, in un topos che permetta di rispondere con un gesto della mano alla domanda “dove?”. Ma quando diciamo “Partire da dove” cosa intendiamo?
Di sicuro non si tratta di un cambiamento della posizione nello spazio, del trasferimento da un luogo a un altro, poiché ciò implica dei luoghi contenuti in un unico spazio omogeneo. Come suggerito dal finale della novella di Sohravardi, con il simbolo della goccia di balsamo esposta al sole sul cavo della mano, si tratta di entrare, passando all’interno e, passando all’interno, ritrovarsi, paradossalmente al di fuori, o nel linguaggio dell’autore, “sulla superficie convessa” della Nona sfera – in altre parole, “al di là del Monte Qaf”. La relazione di cui si parla è essenzialmente quella tra l’esterno, il visibile, l’essoterico (in arabo, zhair), e l’interno, l’invisibile, l’esoterico (in arabo, batin), ovvero il mondo naturale e il mondo spirituale. Partire dal ‘dove’, dall’ubi, è abbandonare l’apparenza esterna o naturale che racchiude le realtà interiori o nascoste, come la mandorla è nascosta nel guscio. Questo passaggio avviene affinché lo Straniero, lo gnostico, ritorni a ‘casa’ – o quantomeno si diriga verso quel ritorno.
Accade però qualcosa di strano: una volta compita la transizione, la realtà che prima era nascosta o interna si rivela d’ora in avanti essere l’involucro, che circonda e contiene ciò che prima era esterno e visibile, poiché con l’interiorizzazione si abbandonata quella realtà esteriore. D’ora in avanti è la realtà spirituale ad avvolgere, circondare e contenere la realtà cosiddetta materiale. Ecco perché la realtà spirituale non è in un ‘dove’. Il ‘dove’ si trova al suo interno. Oppure, meglio, è essa stessa il ‘dove’ di tutte le cose; non può trovarsi perciò in un luogo, non può ricadere sotto la domanda ‘dove?’ – l’ubi riferibile ad un luogo nello spazio sensoriale. Il suo luogo (il suo abad) in relazione a questo è il Na-koja (nessun-dove), perché l’ubi che le appartiene nello spazio sensoriale è l’ubiquo (ovunque). Se abbiamo compreso questo, abbiamo compreso l’essenziale per seguire la topografia delle esperienze visionarie, distinguere i loro significati (cioè direzione e significato, simultaneamente) e un altro aspetto fondamentale, cioè ciò che distingue la percezione spirituale degli individui spirituali (Sohravardi e molti altri) da tutto quello che il vocabolario moderno sussume sotto il senso peggiorativo di creazione, immaginazione, fino a follia utopistica.
Dobbiamo incominciare a distruggere, con tutte le nostre forze, anche a costo di combattere ogni giorno, quello che si chiama il “riflesso agnostico” dell’uomo occidentale, perché ha permesso il divorzio tra pensiero ed essere. Molte recenti teorie traggono origine da questo riflesso, grazie al quale speriamo di sfuggire all’altra realtà – prima che certune esperienze ed evidenze ci portino in essa – e di sfuggirla nel caso in cui segretamente siamo stati soggiogati dalla sua attrazione, per mezzo delle più ingenue spiegazioni, tranne una: quella che permetterebbe di attribuirle un significato vero alla sua esistenza. Perché ci restituisca questo significato dobbiamo, in ogni caso, avere a disposizione una cosmologia che superi le più stupefacenti informazioni a disposizione delle scienze moderne sull’universo fisico, abbandonandole ad un livello inferiore. Poiché, fintanto che si tratta di questo genere di informazioni, rimaniamo vincolati a “Questo lato del monte Qaf”. Il tratto distintivo della cosmologia tradizionale dei teosofi dell’Islam, per esempio, è che essa si dipana laddove i mondi e gli intramondi “al di là del monte Qaf”, cioè al di là dell’universo fisico, sono collocati su livelli intelligibili di esistenza solo in ragione di un atto d’essere conforme con la propria presenza in quei mondi e, per reciprocità, è per l’armonia con il proprio atto d’essere che quei mondi sono presenti. Quale dimensione, quindi, deve avere questo atto d’essere per essere, o per divenire nel corso delle sue nascite future, il luogo di questi mondi che si trovano fuori dal nostro spazio naturale? E prima di tutto, cosa sono questi mondi?
Posso fare riferimento a pochi testi. Un certo numero di essi si possono trovare tradotti e raccolti nel libro che ho intitolato “Corpo spirituale e terra celeste”. Nel “Libro delle Conversazioni” Sohravardi scrive: “Quando hai imparato dai trattati degli antichi saggi che esiste un mondo dotato di dimensioni e di estensione, diverso dal pleroma delle Intelligenze (cioè, al di sotto di quello delle pure Intelligenze angeliche), e diverso dal mondo governato dagli Spiriti delle Sfere (cioè, un mondo che, pur avendo dimensioni ed estensione, è diverso dal mondo dei fenomeni sensoriali, e superiore ad esso, che include l’universo siderale, i pianeti e le “stelle fisse”), un mondo in cui vi sono innumerevoli città, città tra le quali il Profeta citò Jabalqa e Jabarsa, non precipitarti a definirlo una menzogna, poiché i pellegrini dello spirito possono contemplare quel mondo e trovarvi tutto ciò che si può desiderare”.
Queste poche righe ci mostrano uno schema su cui tutti i nostri filosofi concordano, uno schema che si compone di tre universi, ovvero, di tre categorie di universi. Vi è il nostro mondo fisico sensoriale, che include sia il mondo terreno (governato dalle anime umane) e il mondo siderale (governato dalle Anime delle Sfere); questo è il mondo sensoriale, il mondo dei fenomeni (molk). Vi è il mondo soprasensibile governato dall’Anima o dalle Anime Angeliche, Malakut, in cui si trovano le città mistiche nominate e che incomincia “sulla superficie convessa della Nona Sfera”. Vi è l’universo delle pure Intelligenze Arcangeliche. A questi tre universi corrispondono i tre organi della conoscenza: i sensi, l’immaginazione e l’intelletto, triade a cui corrisponde la triade antropologica: corpo, anima, spirito - triade che regola la triplice evoluzione dell’uomo, da questo mondo alla resurrezione negli altri mondi.
Osserviamo subito che non si riduce il dilemma di pensiero ed estensione all’interno di uno schema cosmologico e gnoseologico limitato al mondo materiale e della comprensione astratta. Nel mezzo dei due si trova un mondo intermedio, che i nostri autori chiamano ‘alam al-mithal, il mondo dell’Immagine, mundus imaginalis: un mondo ontologicamente reale come il mondo dei sensi e dell’intelletto, un mondo che richiede una specifica facoltà percettiva, facoltà che è una funzione cognitiva, un valore noetico, pienamente reale come le facoltà della percezione sensoria o dell’intuizione intellettiva. Tale facoltà è il potere immaginativo, quello che dobbiamo evitare di confondere con l’immaginazione che i moderni identificano con la “fantasia” e che, secondo questo parere, produce semplice “immaginario”. A questo punto siamo contemporaneamente al cuore della nostra ricerca e del nostro problema di terminologia.
Cos’è il mondo intermedio? E quello di cui abbiamo parlato poco fa, chiamandolo “ottavo clima” [nota: Corbin usa “clima” nell’accezione antica. Dizionario De Mauro, Clima: ciascuna delle sette zone in cui i geografi antichi dividevano l’emisfero boreale: il sole illuminò ciascun clima del nostro emisperio (Boccaccio) | regione, paese: fia ne l’Ausonio clima | collocata nel numer de le Dive (Ariosto)]. Per i nostri filosofi, infatti, il mondo dell’estensione percepibile include i setti climi della loro geografia tradizionale. Ma esiste anche un altro clima, rappresentato da quel mondo che, pur possedendo estensione e dimensioni, forme e colori, essi non sono percepibili ai sensi, a differenza di quanto accade nei corpi fisici. No, queste dimensioni, forme e colori sono oggetto della percezione immaginativa o dei “sensi psico-spirituali”; e quel mondo, pienamente oggettivo e reale, dove ogni oggetto del mondo sensoriale ha un analogo, non percepibile dai sensi, è il mondo detto ottavo clima. Il termine è abbastanza eloquente di per sé, indicando un clima che si trova al di fuori dei climi, un luogo fuori dallo spazio, fuori dal dove (Na-koja-Abad!).
Il termine arabo con cui si indica, tecnicamente, ‘alam a mithal, si può tradurre probabilmente anche con mundus archetypus, evitando ogni ambiguità. Infatti questa è la stessa parola che viene usata in arabo per indicare le Idee platoniche (che Sohravardi interpreterà nei termini del’angelologia zoroastriana). Comunque quando il termine è riferito alle Idee platoniche è quasi sempre accompagnato con la precisazione mothol (plurale di mithal) aflatuniya nuraniya, “gli archetipi platonici della luce”. Quando la parola si riferisce all’ottavo clima invece indica, tecnicamente, le Immagini Archetipe di cose individuali e singolari; in questo caso si riferisce alla regione orientale dell’ottevao clima, la città di Jabalqa, dove queste immagini preesistono e si ordinano prima di essere nel mondo sensoriale. Il termine indica anche la regione occidentale, la città di Jabarsa, il mondo o intermondo in cui si trovano le Anime dopo aver trascorso il loro passaggio nel mondo terrestre naturale e il mondo in cui si trovano le forme di tutte le opere compiute, le forme dei nostri pensieri e desideri, dei presentimenti e dei comportamenti. Questa composizione costituisce l’ ‘alam al-mithal, il mundus imaginalis.
Tecnicamente, inoltre, i nostri filosofi lo designarono come il mondo delle “Immagini sospese” (mothol mo’allaqa). Sohravardi e la sua scuola intesero questo un modo proprio delle realtà di questo mondo intermedio, che noi designiamo come Imaginalia. La precisa natura di tale stato ontologico proviene dalla visione e dall’esperienza spirituale, cui Sohravardi ci chiede di basarci completamente, proprio come in astronomia sulle osservazioni di Ipparco o Tolomeo. Si deve riconoscere che le forme e le conformazioni del mundus imaginalis non sussistono allo stesso modo delle realtà empiriche del mondo fisico; altrimenti chiunque potrebbe percepirle. Si deve notare che non possono sussistere nel mondo puramente intelligibile, poiché possiedono estensione e dimensione, una materialità “immateriale”, certamente, in relazione a quella del mondo sensoriale, ma, di fatto, una propria “corporeità” e spazialità (si può pensare qui all’espressione usata da Henry More, un platonico di Cambridge, spissitudo spiritualis, espressione che si ritrova esattamente nell’opera di of Sadra Shirazi, platonico persiano). Per la stessa ragione, si deve escludere che esse abbiano solo il nostro pensiero come substrato, perché sarebbero allora irreali, nulla; d’altra parte, non possiamo discernerle, classificarle in gerarchie, o formulare giudizi su di esse. L’esistenza di questo mondo intermedio, mundus imaginalis, appare dunque metafisicamente necessaria; le funzioni cognitive dell’Immaginazione sono ordinate su di esso; si tratta di un mondo il cui livello ontologico è al di sopra di quello del mondo sensibile e al di sotto di quello intelligibile; è più immateriale del primo e meno immateriale dell’ultimo. In esso vi è sempre stato qualcosa di fondamentale importanza per tutti i nostri pensatori teosofi. Da questo dipende, secondo loro, la validità della testimonianza visionaria che percepisce e relaziona gli “eventi del Cielo” e la validità dei sogni, dei riti simbolici, dei luoghi creati nella meditazione intensa, la realtà delle visioni immaginative, delle cosmogonie e delle teogonie, e quindi, soprattutto, la verità del senso spirituale percepito dell’istruzione spirituale della rivelazione profetica.
In breve, quello è il mondo dei “corpi sottili” idea che si dimostra indispensabile per dimostrare il collegamento tra il puro spirito e il corpo materiale. Ciò si riferisce alla designazione dell’essere “in sospeso”, cioè quel modo d’essere di tale Immagine o Forma, in quanto sua propria “materia”, è indipendente da ogni sostrato per cui si troverebbe nell’immanenza come un accidente. Questo significa che non può sussistere alla stessa maniere in cui, ad esempio, il colore nero sussiste grazie agli oggetti neri cui è immanente. Il confronto cui i nostri autori sono ricorsi regolarmente è il modo dell’apparenza e della sussistenza delle Immagini “in sospeso” nello specchio. La sostanza materiale dello specchio, metallica o minerale, non è la sostanza dell’immagine, sostanza di cui l’immagine è un accidente. E’ semplicemente il “luogo dell’apparenza”. Questo porta ad una teoria generale dei luoghi epifanici e delle loro forme (mazhar, plurale mazahir) caratteristica della Teosofia Orientale di Sohravardi.
L’Immaginazione attiva è lo specchio eccellente, il luogo epifanico delle Immagini del mondo archetipale; per questo motivo la teoria del mundus imaginalis è legata alla teoria della conoscenza immaginativa e della funzione immaginativa - funzione propriamente centrale e mediatrice, grazie alla posizione mediana e mediatrice del mundus imaginalis. E’ la funzione che permette a tutti gli universi di simbolizzarsi l’uno con l’altro (ovvero esistere in relazione simbolica l’uno con l’altro) e che ci porta a riconocere, sperimentalmente, che le stesse realtà sostanziali assumono forme in relazione a ciascun universo (per esempio, Jabalqa e Jabarsa corrispondono nel mondo sottile agli Elementi del mondo fisico, mentre Hurqalya corrisponde nel mondo sottile al Cielo). E’ la funzione cognitiva dell’Immaginazione che permette di stabilire una rigorosa conoscenza analogica, superando il dilemma del razionalismo, che lascia soltanto la scelta tra i due termini di un dualismo banale: “materia” o “spirito”, un dilemma che la “socializzazione” della coscienza risolve sostituendolo con una scelta non meno fatale: “storia” o “mito”.
Questo genere di dilemma non ha mai tratto in inganno coloro che sono familiari con l’”ottavo clima”, il regno dei “corpi sottili”, soglia del Malakut o mondo dell’Anima. Sappiamo che quando essi dicono che il mondo di Hurqalya inizia “sulla superficie convessa della Sfera suprema” vogliono indicare simbolicamente che quel mondo si trova sul confine in cui si verifica l’inversione della relazione di interiorità espressa dalle preposizioni “in” e “all’interno di”. I corpi spirituali o le entità spirituali non sono più in un mondo, nemmeno nel loro mondo, nel modo in cui un corpo occupa lo spazio, o è contenuto in un altro corpo. Il loro mondo è in essi. Perciò la Teologia attribuita ad Aristotele, la versione araba delle Enneadi di Plotino, che fu annotata da Avvicenna e che tutti i nostri filosofi hanno letto e meditato, spiega che ciascuna entità spirituale si trova nella “totalità della sua sfera Celeste”; ciascuna sussiste, certamente, indipendentemente dalle altre, ma tutte sono simultanee e ciascuna è all’interno di ogni altra. Sarebbe completamente falso descrivere l’altro mondo come un paradiso informale e indifferenziato. Vi è, ovviamente, molteplicità, ma le relazioni nello spazio spirituale differiscono dalle relazioni dello spazio compreso sotto la volta stellata, come il fatto di essere in un corpo differisce dall’essere “nella totalità della propria sfera Celeste”. Ecco perché si può dire: “al di là di questo mondo vi è un cielo, una terra, un oceano, animali, piante e uomini celesti; ma ogni essere là è celestiale; quelle entità spirituali corrispondono a questi esseri umani, ma non vi si trova nulla di terrestre.”
La formulazione più esatta di tutto questo, nella tradizione teosofica occidentale, si trova probabilmente in Swedenborg. Non si può che restare sorpresi della concordanza o convergenza tra le affermazioni del grande visionario svedese e quelle di Sohravardi, Ibn ‘Arabi, o Sadra Shirazi. Swedenborg dice che “tutte le cose in Paradiso appaiono, come nel mondo, avere luogo e dimensione, ma gli angeli non hanno alcuna nozione di luogo e dimensione”. Questo perché “tutti i cambiamenti di spazio nel mondo spirituale sono effetti di variazioni di stato interiori, cioè ogni cambiamento di luogo è in realtà un cambiamento di stato… Si trovano vicini gli uni agli altri quelli che sono simili in stato e sono distanti quelli che sono in stati differenti; e gli spazi del cielo sono semplicemente condizioni esteriori corrispondenti a stati interiori. Per la stessa ragione i cieli sono distinti gli uni dagli altri… Quando qualcuno si sposta da un luogo all’altro… arriva velocemente dove desidera ardentemente andare, e con minore rapidità dove non lo desidera, poiché la via si allunga e si accorcia a seconda del desiderio. Questo ho visto di frequente con mia sorpresa. Tutto ciò esprime come le distanze, e quindi lo spazio, siano pienamente in accordo con gli stati interiori degli angeli; dunque, non vi è idea di spazio nei loro pensieri, sebbene lo spazio esista in loro quanto nel mondo.” [Emmanuel Swedenborg “Heaven and its Wonders and Hell”]
Una tale descrizione è del tutto appropriata al Na-koja-Abad e alle sue misteriose città. In breve, ne segue che esiste un luogo spirituale e un luogo corporeo. Il trasferimento dall’uno all’altro non si svolge affatto in accordo con le leggi del nostro spazio fisico omogeneo. In relazione al luogo corporeo, il luogo spirituale è un Non-dove, e per colui che raggiunga il Na-koja-Abad tutto avviene all’inverso di quanto accade nei fatti della coscienza ordinaria, che rimane orientata all’interno del nostro spazio. Perciò da qui in avanti è il dove, il luogo, a trovarsi dentro l’anima; è la sostanza corporea a risiedere nella sostanza spirituale; è l’anima a racchiudere e trasportare i corpo. Ecco perché non è possibile stabilire dove si situa il luogo dello spirito; non è situato, piuttosto è situante. E’ l’ubi e l’ubiquo. Certamente ci possono essere corrispondenze topografiche tra il mondo sensoriale e il mundus imaginalis, con legami simbolici reciproci. Comunque non vi è passaggio dall’uno all’altro senza una frattura.
Molte testimonianze ce lo dimostrano. Ad un certo momento, si ha una rottura nelle coordinate geografiche che si possono rintracciare sulle nostre mappe. Ma il “viaggiatore” non è conscio del momento esatto; non potrà realizzarlo chiaramente, se non dopo. Se fosse cosciente di quanto gli accade, potrebbe decidere di mutare il suo cammino, o potrebbe indicarlo ad altri. Invece potrà solo riferire dove è stato; non può mostrare la via a nessun altro.
II. L’IMMAGINAZIONE SPIRITUALE
Ora toccheremo un punto decisivo cui tutto il precedente discorso ci ha preparati, precisamente della facoltà che permette l’ingresso nel mundus imaginalis, la migrazione all’ “ottavo clima”. Qual è la facoltà per la quale avviene la migrazione – migrazione che segna il ritorno ab extra ad intra (dall’esterno all’interno), l’inversione topologica (intussuscezione)? Non si tratta dei sensi e nemmeno delle membra dell’organismo fisico, né del puro intelletto, ma del potere intermedio la cui funzione sembra essere di mediatore preminente: l’Immaginazione attiva. Cerchiamo di essere molto chiari nel parlare di questo. Si tratta della facoltà che permette la trasformazione degli stati spirituali interiori in stati esteriori, in visioni-eventi che simbolizzano quegli stati interni. Per mezzo di questa trasmutazione si completano tutte le forme di evoluzione nello spazio spirituale, ovvero, questa trasmutazione è ciò che spazializza lo spazio, che causa lo spazio, la prossimità la distanza e la lontananza che vi si riscontreranno.
Primo postulato è che l’immaginazione è una pura facoltà spirituale, indipendente dall’organismo fisico e, di conseguenza, capace di sussistere dopo la sua scomparsa. Sadra Shirazi, tra gli altri, si è espresso ripetutamente su questo punto con particolare intensità. Egli afferma che così come l’anima è indipendente dal corpo fisico materiale nel percepire le cose intelligibili, secondo il suo potere intellettuale, l’anima è egualmente indipendente riguardo il suo potere immaginativo e alle operazioni immaginative. Inoltre, quando l’anima è separata da questo mondo, poiché continua ad avere la propria immaginazione attiva al suo servizio, può percepire da sé, per mezzo della sua essenza e di tale facoltà, le cose concrete la cui parvenza, così come realizzata nella sua coscienza e immaginazione, costituisce eo ipso la vera forma dell’esistenza concreta di tali cose (in altre parole, la coscienza e i suoi oggetti sono ontologicamente inseparabili). Tutti questi poteri sono riuniti e concentrati in una singola facoltà, l’Immaginazione attiva. Siccome non è più distratta dai cinque sensi corporei, e non è più sollecitata dalle preoccupazioni del corpo fisico, che è preda delle vicissitudini del mondo esteriore, la percezione immaginativa può finalmente dimostrare la sua essenziale superiorità sulle percezioni sensoriali.
“Tutte le facoltà dell’anima” scrive sadra Shirazi, “sono diventate una singola facoltà, il potere di configurare e rappresentare (taswir e tamthil); la sua immaginazione è diventata come una percezione sensoriale del soprasensibile; la sua visione immaginativa è anch’essa come la vista sensoriale. Similmente, i sensi dell’udito, dell’olfatto e del tatto e del gusto – tutti nella forma di sensi immaginativi – funzionano come facoltà sensoriali, ma regolate al soprasensibile.
Se esteriormente le facoltà sensoriali sono cinque, ciascuna con un proprio organo corrispondente nel corpo, internamente, invece, costituiscono tutte insieme una sola sinestesia (hiss moshtarik). “L’Immaginazione è perciò il currus subtilis (in Greco okhema, veicolo, o [in Proclo, Giamblico, etc.] corpo spirituale) dell’anima, per cui abbiamo una intera fisiologia del “corpo sottile” e quindi del “corpo della resurrezione”, che Sadra Shirazi discute in questo contesto. Per questa ragione rimprovera anche Avicenna per avere identificato gli atti della percezione immaginativa postuma con quanto accade in questa vita durante il sonno, poiché qui, e anche durante il sonno, il potere immaginativo è disturbato dalle operazioni organiche che riguardano il corpo. Occorre molto di più per raggiungere la massima perfezione di attività, libertà e purezza. Altrimenti, il semplice sonno sarebbe un risveglio nell’altro mondo. Non è a questo che allude il detto attribuito da alcuni al Profeta o talvolta al Primo Imam degli Sciiti: “Gli uomini dormono. Solo quando muoiono si risvegliano”.
Un secondo postulato è che l’Immaginazione è una facoltà cognitiva, evidenza che si deve riconoscere. La percezione immaginativa e la coscienza immaginativa possiedono una propria funzione noetica (cognitiva) e un proprio valore in relazione al mondo che gli è proprio – un mondo, abbiamo detto, che è l’ ‘alam al-mithal, mundus imaginalis, il mondo delle città mistiche quali Hurqalya, in cui il tempo è reversibile e lo spazio è una funzione del desiderio, perché è solo l’aspetto esterno dello stato interiore.
L’Immaginazione è dunque saldamente in equilibrio tra due altre funzioni cognitive: il suo mondo simbolizza quello cui le due altre facoltà (conoscenza sensoriale e intellettiva) rispettivamente registrano. Vi è di conseguenza una forma di controllo che impedisce all’Immaginazione di vagare e disperdersi, e che le permette di assumere le sue piene funzioni: ad esempio, produrre l’accadimento degli eventi narrati nei racconti visionari di Sohravardi e altri analoghi, perché ogni approccio all’ottavo clima si compie mediante il cammino immaginativo. Si può dire che questa è la ragione della straordinaria solennità dei poemi mistico-epici scritti in Persiano (da ‘Attar a jami e a Nur ‘Ali1-Shah), che costantemente amplificano i medesimi archetipi in nuove forme simboliche. Al fine di riportare l’Immaginazione a vagare e disperdersi, e quindi ad abbandonare le sue funzioni, che sono quelle di percepire o generare i simboli diretti al senso interno, è necessario che il mundus imaginalis, il dominio di Malakut, il mondo dell’Anima - scompaia. Probabilmente si deve datare l’inizio di questa decadenza, in Occidente, al tempo in cui l’Averroismo rigettò la cosmologia Avvicenniana, con le sue gerarchie angeliche intermedie dell’ Animae o Angeli caelestes. Gli Angeli caelestes (una gerarchia inferiore a quella degli Angeli intellectuales) avevano il privilegio del potere immaginativo allo stato puro. Quando l’universo dell’Anima scomparve, fu la funzione immaginativa a essere sbilanciata e svalutata. E’ facile comprendere, quindi, il consiglio dato successivamente da Paracelso di guardarsi da ogni confusione tra l’ Imaginatio vera, come la chiamavano gli alchimisti, e la fantasia “pietra angolare del folle”.
Per questa ragione non possiamo evitare ancora il problema della terminologia. Come mai non abbiamo in lingua francese (o inglese) un termine comune e soddisfacente per esprimere l’idea dell’‘alam al-mithal? Ho proposto il latino mundus imaginalis per questa ragione, perchè dobbiamo evitare ogni confusione tra ciò che qui è l’oggetto della percezione immaginativa o immaginante, e ciò che di solito si chiama immaginario. E’ così perché l’attitudine corrente è di contrapporre il reale all’immaginario, come irreale, utopico e di confondere il simbolo con l’allegoria, confondere l’esegesi del senso spirituale con un’interpretazione allegorica. Ora, ogni interpretazione allegorica è innocua; l’allegoria è una copertura, o piuttosto un mascherare qualcosa che è già noto o conoscibile in altro modo, mentre l’apparizione di un’Immagine che abbia la qualità di simbolo è un fenomeno primario (Urphanomen), incondizionato e irriducibile, l’apparizione di qualcosa che non può manifestarsi altrimenti nel mondo.
Né i racconti di Sohravardi, né i racconti della tradizione Sciita, che narrano il raggiungimento della “Terra dell’Imam Nascosto” sono immaginari, irreali o allegorici, precisamente perché l’ottavo clima o la “Terra di Nessun-dove” non è ciò che comunemente chiamiamo utopia. Si tratta certamente di una mondo che rimane al di là della verifica empirica delle nostre scienze. Eppure, chiunque può trovarne l’accesso e l’indicazione. E’ un mondo soprasensibile, in quanto non percepibile tranne dalla percezione immaginativa, e poiché gli eventi che vi accadono possono essere sperimentati solo dalla coscienza immaginativa o immaginante. Dobbiamo essere sicuri di aver compreso, ancora una volta, che non si tratta di ciò che il linguaggio del nostro tempo chiama un’immaginazione, una di una visione che è Imaginatio vera. A questa Imaginatio vera dobbiamo attribuire pieno valore noetico o cognitivo. Se non siamo più capaci di parlare dell’immaginario, eccetto che come “fantasia”, se non possiamo utilizzarlo o tollerarlo che così, abbiamo probabilmente dimenticato le regole e le norme e l’”ordine assiale” che sono responsabili della funzione cognitiva o immaginativa.
Il mondo in cui i nostri testimoni sono penetrati – e incontreremo due o tre di questi testimoni nella sezione finale di questo studio – è un mondo perfettamente reale, persino più evidente e coerente, nella sua realtà, del mondo reale empirico percepito dai sensi. I testimoni erano perfettamente coscienti di essere stati “altrove”; non erano schizofrenici. Si tratta di un mondo nascosto dall’azione dei sensi, che dobbiamo trovare sotto l’apparente certezza oggettiva delle percezioni. Ecco perché non possiamo positivamente definirlo immaginario, nel senso corrente di irreale, inesistente. Così come la parola latina origo ci ha dato la derivata “originale”, io credo che la parola imago ci possa offrire, oltre ad immaginario, per regolare derivazione, il termine immaginale. Avremo quindi il mondo immaginale a fungere da intermediario tra il mondo sensoriale e il mondo intelligibile. Quando incontriamo il termine arabo jism mithali a designare il “corpo sottile” che penetra l’”ottavo clima” o il “corpo di resurrezione” possiamo di tradurlo in corpo immaginale, non certo come corpo immaginario. Forse incontreremo, così, minori difficoltà a collocare le figure che non appartengono al “mito” e nemmeno alla “storia”, e forse avremo con noi una sorta di lasciapassare sulla via del “continente perduto”.
Al fine di incoraggiarci in questo cammino, dobbiamo domandare a noi stessi: cosa costituisce il nostro reale, cosa è reale per noi, e se lo lasciassimo, troveremmo qualcosa in più del semplice immaginario, dell’utopia? E che cos’è il reale per i nostri filosofi tradizionali d’Oriente, che potevano accedere all’ “ottavo clima”, il Na-koja-Abad, lasciando lo spazio sensorio senza lasciare la realtà, o meglio, arrivando esattamente alla realtà? Tutto questo presuppone una gradazione dell’essere con molti più livelli della nostra. Dunque non cadiamo in errore. Non basta ammettere che i nostri predecessori, in Occidente, avevano un concetto dell’Immaginazione troppo razionalistico e troppo intellettualizzato. Se non possediamo una cosmologia il cui schema includa, come quello dei nostri filosofi tradizionali, la pluralità degli universi in ordine ascensionale, la nostra Immaginazione rimarrà sbilanciata, e il suo ricorrente ritorno alla volontà di potere sarà una infinita causa di orrori. Dovremo cercare costantemente una nuova disciplina per l’Immaginazione, e avremo grandi difficoltà a trovarla finché vedremo in essa un modo di prendere le distanze da ciò che chiamiamo reale, o di esercitare una influenza sulla realtà. Ora, il reale ci appare arbitrariamente limitato, se lo paragoniamo alla realtà che i teosofi tradizionali hanno visto, e questa limitazione degrada la realtà di per sé. Inoltre, la parola fantasia compare sovente come scusa: fantasia letteraria, ad esempio, o se preferiamo, nello stile e nel gusto di oggi, fantasia sociale.
Ma è impossibile evitare di domandarsi se il mundus imaginalis, nel vero significato del termine, sia necessariamente perduto e lasci spazio unicamente all’immaginario, se non sia stato qualcosa come la secolarizzazione dell’Immaginale nell’immaginario a far trionfare il fantastico, l’orribile, il mostruoso, il macabro, il miserabile e l’assurdo. Dall’altra parte, l’arte e l’immaginazione della cultura islamica nelle forme tradizionali sono caratterizzate dallo ieratico e dal profondo, da solennità, stilizzazione e significato. Non le nostre utopie, non la nostra fantascienza, non il sinistro “omega point”- niente di questo genere accade lasciando questo mondo o giungendo in Na-koja-Abad. Coloro che conobbero l’”ottavo clima” non hanno inventato utopie, né il pensiero ultimo dello Sciismo è una fantasia politica o sociale, ma un’escatologia, poiché si tratta della speranza della reale Presenza, qui e ora, in un altro mondo, e la testimonianza di quell’altro mondo.
III. TOPOGRAFIE DELL’ “OTTAVO CLIMA”
Dobbiamo esaminare ora la teoria generale dei testimoni dell’altro mondo. Dobbiamo domandare a quei mistici che, nell’Islam, ripeterono l’esperienza visionaria dell’assunzione al cielo del Profeta Maometto (mi’raj), che presenta diverse analogie con quella, narrata in un antico libro gnostico, delle visioni celesti del profeta Isaia. Qui, l’attività della percezione immaginativa assume l’aspetto di ierognosi, alta conoscenza sacra. Per completare la nostra discussione, mi limiterò a descrivere alcuni tipici aspetti raccolti dalla letteratura Sciita, perchè il mondo in cui essa ci premetterà di entrare sembra , a prima vista, ancora il nostro mondo, mentre in realtà gli eventi si verificano nell’ottavo clima. Non nell’immaginario, ma nel mondo immaginale, il mondo le cui coordinate non possono essere ricavante dalle nostre mappe, dove il Dodicesimo Imam, l’ “Imam Nascosto” vive una vita segreta, circondato dai suoi compagni, anch’essi velati dallo stesso mistero dell’Imam. Un tipico racconto di questo genere è la storia del viaggio all’ “Isola Verde situata nel Mare Bianco”.
E’ impossibile descrivere qui, persino a grandi linee, cosa costituisca l’essenza dell’Islam Sciita in relazione a quello che si definisce giustamente ortodossia Sunnita. E’ necessario che si conosca, anche in termini vaghi, il tema predominante dell’orizzonte dei teosofi mistici Sciiti, e precisamente “l’Eterna Realtà Profetica” (Haqiqat mohammadiya), designata come “Logos Musulmano” o “Luce Musulmana” e composta da quattordici entità di luce: il Profeta, sua figlia Fatima, e i dodici Imam. Questo è il pleroma dei “Quattordici Perfetti” per mezzo dei quali si compie la continuazione del mistero della teofania eterna, da mondo a mondo. Lo Sciismo ha dato dunque alla profetologia islamica la sua fondazione metafisica e ha dato, contemporaneamente, l’imamologia come complemento assolutamente necessario. Questo significa che il senso della Rivelazione Divina non è limitato alla lettera, all’essoterico che fa da contesto e contenitore, e che fu enunciata dal Profeta; il senso vero è quello nascosto all’interno, l’esoterico, simbolizzato dalla superficie e che spetta agli Imam rivelare ai loro seguaci. Ecco perché la teosofia Sciita possiede eminentemente il senso dei simboli.
Inoltre, il gruppo ristretto o la dinastia dei dodici Imam non è una dinastia politica in competizione terrena con altre dinastie politiche; si proietta su di loro, in un certo senso, come la dinastia dei guardiani del Graal, nella tradizione Occidentale, si proietta sulla gerarchia ufficiale della Chiesa. L’effimera apparenza terrena dei dodici Imam si è conclusa col dodicesimo che, giovanissimo, si occultò da questo mondo, ma la cui parousia fu annunciata dallo stesso Profeta, la Manifestazione alla fine del nostro Eone, quando avrebbe rivelato il significato nascosto della rivelazione Divina e riempito la terra di pace e giustizia, così come fino a quel momento era stata colma di violenza e tirannia. Presente simultaneamente nel passato e nel presente, il Dodicesimo Imam, l’Imam Nascosto, è stato per dieci secoli la storia della coscienza sciita, una storia su cui, ovviamente, la critica storica non può ragionare, poiché gli eventi, sebbene reali, non di meno non possiedono la realtà degli eventi del nostro clima, ma quella che appartiene all’”ottavo clima”, agli eventi dell’anima, alle visioni. Il suo occultamento avvenne in due periodi differenti: l’occultamento minore (260/873) e l’occultamento maggiore (330/942). Fino a questo punto, l’Imam Nascosto si trova nella stessa posizione di quelli che furono rimossi dal mondo visibile, senza attraversare la morte: Enoch, Elia e Cristo, secondo l’insegnamento del Corano. Egli è l’Imam “nascosto ai sensi, ma presente nel cuore dei suoi seguaci” nella parole della formula consacrata, egli rimane il polo mistico (qotb) di questo mondo, il polo dei poli, senza la cui esistenza questo mondo non continuerebbe ad esistere. Vi è un’intera letteratura sciita su coloro ai quali l’Imam ha manifestato se stesso, o coloro che l’hanno incontrato senza vederlo, durante il periodo del Grande Occultamento.
Naturalmente, la comprensione di queste tesi presuppone alcune premesse che le analisi che abbiamo svolto in precedenza ci permettono di accettare. Il primo punto è che l’Imam vive in un luogo misterioso che non si trova tra quelli verificabili con la geografia empirica; non si situa nelle nostre mappe. Questo luogo è “fuori dallo spazio” ma, non di meno, ha una propria topografia. Il secondo punto è che la vita non è limitata alle condizioni del mondo materiale visibile e alle leggi biologiche che conosciamo. In questo senso si situano eventi della vita dell’Imam Nascosto, come la descrizione dei suoi cinque figli, governatori di misteriose città. Il terzo punto è nell’ultima lettera ai suoi ultimi rappresentanti visibili, con cui l’Imam ammonisce contro l’impostura di coloro che affermano di citare le sue parole, di averlo visto, al fine di pretendere un ruolo pubblico o politico nel suo nome. Ma l’Imam mai escluse di potersi manifestare in aiuto di qualcuno in difficoltà materiali o morali - un viaggiatore smarrito, ad esempio, o un credente preso dallo sconforto.
Tali manifestazioni, però, accadono solo per iniziativa dell’Imam; e se il più delle volte egli appare nei panni di un giovane uomo dalla bellezza soprannaturale, quasi sempre, tranne eccezioni, colui che ha ottenuto il privilegio di vederlo sarà cosciente solo in seguito, tempo dopo, di chi sia colui che ha incontrato. Queste manifestazioni avvengono strettamente in incognito; per questo motivo tale evento religioso non può mai essere socializzato. Lo stesso incognito ricopre i compagni dell’Imam, quella elite dell’elite composta da giovani al suo servizio. Essi formano una gerarchia esoterica di numero strettamente limitato, che rimane permanente grazie alla sua sostituzione generazione dopo generazione. L’ordine mistico di cavalieri che circonda l’Imam Nascosto è soggetto alla stessa segretezza assoluta dei cavalieri del Graal, per cui a nessuno è concesso di raggiungerli. Ma qualcuno vi è stato convocato ed è penetrato per un momento nell’ottavo clima; per un attimo questi è stato “nella totalità dei Cieli della sua anima”.
Questa fu l’esperienza del giovane Shaykh iraniano ‘Ali ibn Fazel Mazandarani, verso la fine del tredicesimo secolo, esperienza ricordata nel “Racconto delle cose strane e meravigliose che contemplò e vide con i suoi occhi sull’Isola Verde situata nel Mare Bianco”. Qui descriverò soltanto un breve riassunto del racconto, senza entrare nei dettagli. Il narratore si intrattiene a lungo sugli anni e le circostanze della sua vita, precedenti l’evento; ci troviamo di fronte a una personalità intellettuale e spirituale che ha entrambi i piedi ben piantati a terra. Ci racconta come emigrò, di come a Damasco seguì gli insegnamenti di uno shaykh andaluso, e di come era affezionato al suo shaykh; e che quando questi andò in Egitto, il protagonista e altri discepoli decisero di accompagnarlo. Dal Cairo lo seguirono in Andalusia, dove lo shaykh era stato richiamato da una lettera del padre morente. Il nostro narratore era appena arrivato in Andalusia quando lo colse una febbre che durò tre giorni. Una volta ristabilito, arrivò in un villaggio dove vide uno strano gruppo di uomini provenienti da una regione vicina alla terra dei Berberi, non lontana dalla “penisola degli Sciiti”. Gli dissero che il viaggio richiedeva venticinque giorni e l’attraversamento di un vasto deserto. Decise di unirsi al gruppo. Fino a questo punto, siamo più o meno entro le carte geografiche.
Ma non siamo più certi di essere ancora tra queste quando il nostro viaggiatore raggiunge la penisola degli Sciiti, una penisola circondata da quattro mura con alte torri imponenti; il limite esterno della cinta toccava il mare. Chiese di essere condotto alla moschea principale. Lì, per la prima volta, ascoltò, durante la chiamata alla preghiera del muezzin, risuonare dal minareto della moschea l’invocazione Sciita che chiede “Giunga la gioia!”, la gioia, cioè, per la futura apparizione dell’Imam, che ora è nascosto. Per comprendere la sua emozione e le sue lacrime, è necessario pensare alla feroce persecuzione che, nel corso di vari secoli e in vaste aree del territorio dell’Islam, costrinse gli Sciiti, i seguaci dell’Imam, allo stato di segretezza. Il riconoscimento tra Sciiti avviene in base all’osservanza, tipica, dei costumi della “disciplina dell’arcano”.
Il nostro pellegrino si è stabilito con i suoi compagni, quando nota durante le sue passeggiate che non ci sono campi coltivati nella zona. Come si approvvigionano di cibo gli abitanti? Apprende che il cibo arriva loro dalla “Isola Verde situata nel Mare Bianco”, che è una delle isole che appartengono ai figli dell’Imam Nascosto. Due volte l’anno, una flotta di sette navi porta il cibo. Per l’anno in corso il primo viaggio si è già concluso; e si dovranno aspettare dei mesi perché giunga il prossimo. Il racconto descrive il pellegrino trascorrere i suoi giorni circondato dalla gentilezza degli abitanti, ma tormentato dall’attesa dell’arrivo delle navi, camminare instancabile sulla spiaggia guardando il mare, verso ovest. Potremmo essere tentati a credere di trovarci sulla costa atlantica dell’Africa, e che l’Isola Verde appartenga, forse, alle Canarie o alle “Isole Fortunate”. I dettagli che seguono saranno sufficienti a disilluderci. Altre tradizioni situano l’Isola Verde altrove – nel Mar Caspio, ad esempio – proprio per indicare che non esistono coordinate geografiche adatte in questo mondo.
Infine, siccome per la legge dell’”ottavo clima” l’ardente desiderio accorcia le distanze, le sette navi arrivano in anticipo e fanno il loro ingresso nel porto. Dalla nave più grande discende uno shaykh dall’aspetto nobile e autorevole, bel viso e abiti magnifici. Iniziano a conversare e il nostro pellegrino realizza sbigottito che lo shaykh conosce già tutto di lui, il suo nome e le sue origini. Lo shaykh è il suo Compagno e gli rivela di essere venuto a cercarlo: insieme partiranno per l’Isola Verde. Questo episodio riporta il carattere peculiare del sentimento gnostico di sempre: l’esilio, la separazione dalla propria gente, di cui a malapena si ricorda, e la vaga idea che in qualche modo si debba ritornare presso di loro. Un giorno, però, arriva un messaggero mandato da questi, come nel “Canto della Perla”, negli Atti di Tommaso, o nel “Racconto dell’Esilio Occidentale” di Sohravardi. In questo caso, è qualcosa di meglio di un messaggero: è uno dei compagni dell’Imam in persona. Il nostro narratore esclama commosso: “come ho udito queste parole, sono stato sopraffatto dalla felicità. Qualcuno si ricorda di me, il mio nome gli è noto!” Il suo esilio è terminato? Da qui in avanti, egli è sicuro che l’itinerario non potrà essere riportato sulle nostre mappe.
La traversata dura sedici giorni, al termine dei quali la nave entra in una porzione di mare completamente bianca; l’Isola Verde si profila all’orizzonte. Il nostro pellegrino apprende dal suo Compagno che il Mare Bianco forma un’impenetrabile zona di protezione attorno all’isola; nessuna nave manovrata dai nemici dell’Imam può avventurarsi là senza che le onde la sommergano. I nostro viaggiatori attraccano all’Isola Verde. Vi è una città sulle sponde del mare; sette muri turriti proteggono i precinti (questo è il piano simbolico dominante). La vegetazione è lussureggiante e i torrenti abbondanti. Gli edifici sono costruiti con marmo diafano. Tutti gli abitanti hanno volti giovani e bellissimi e indossano magnifici abiti. Il nostro shaykh iraniano ha il cuore colmo di gioia e da questo punto, per tutta la seconda parte, il suo racconto prenderà il ritmo e il significato di un racconto iniziatico, in cui possiamo distinguere tre fasi. Una serie iniziale di conversazioni con un nobile personaggio, che altri non è che il nipote del dodicesimo Imam (figlio di uno dei suoi cinque figli) e che governa l’Isola Verde: Sayyed Shamsoddin. Queste conversazioni compongono una prima iniziazione al segreto dell’Imam Nascosto; a volte si svolgono nell’ombra di una moschea, a volte nelle serenità di giardini colmi di ogni specie di alberi odorosi. Poi avviene la visita a un misterioso santuario situato nel cuore della montagna più alta dell’isola. In fine, una serie conclusiva di conversazioni decisive sulla possibilità di accedere alla visione diretta dell’Imam.
Sto riassumendo nel modo più breve e devo tacere i dettagli del paesaggio e dell’animata drammaturgia, così da arrivare all’episodio centrale. Sulla cima o nel cuore della montagna, che si trova al centro dell’Isola Verde, si trova un piccolo tempio, con la cupola, dove è possibile comunicare con l’Imam, poiché accade che egli vi lasci un messaggio personale, ma a nessuno è permesso salire al tempio, tranne a Sayyed Shamsoddin e a quelli come lui. Questo piccolo tempio si trova all’ombra di un albero Tuba; sappiamo che questo è il nome dell’albero che ombreggia il Paradiso; è l’Albero dell’Essere. Il tempio è posto sulla sponda di una sorgente che, sgorgando alla base dell’Albero del Paradiso, può essere soltanto la Sorgente della Vita. Per confermarcelo, il nostro pellegrino incontra il custode del tempio, nel quale riconosce il misterioso profeta Khezr (Khadir). Là, nel cuore dell’essere, all’ombra dell’Albero e sulla rive della Sorgente, vi si trova il santuario in cui è possibile avvicinare l’Imam Nascosto. Abbiamo qui una intera costellazione di simboli archetipi facilmente riconoscibili.
Abbiamo imparato, tra le altre cose, che l’accesso al piccolo tempio mistico era permesso soltanto a colui che, avendo raggiunto il livello spirituale in cui l’Imam è divenuto la sua Guida interiore, abbia ottenuto uno stato “simile” a quello dei discendenti diretti dell’Imam. Ecco perché l’idea dell’adeguamento interiore è effettivamente al centro del discorso iniziatico, ed è ciò che permette al pellegrino di apprendere i restanti segreti dell’Isola Verde: ad esempio, il simbolismo di un rito particolarmente eloquente. Nel calendario liturgico Sciita, il venerdì è il giorno dedicato specialmente al Dodicesimo Imam. Inoltre, nel calendario lunare, la metà del mese segna il punto mediano del ciclo lunare, e la metà del mese di Sha’ban è l’anniversario della nascita del Dodicesimo Imam in questo mondo. Un venerdì, quindi, quando il nostro pellegrino iraniano sta pregando nella moschea, sente un grande trambusto provenire dall’esterno. Il suo iniziatore, Sayyed, lo informa che ogni volta che la metà del mese cadde di venerdì, i capi di una misteriosa milizia che circonda l’Imam si riuniscono nell’ “Attesa della Gioia”, un termine sacro dedicato, per quanto ne sappiamo, a indicare l’attesa della Manifestazione dell’Imam in questo mondo. Lasciando la moschea, incontra un raduno di cavalieri dai quali proviene un clamore trionfale. Sono i 313 capi dell’ordine soprannaturale dei cavalieri, sempre presenti in incognito nel nostro mondo, al servizio dell’Imam. Questo episodio ci conduce gradualmente alla scena finale che precede l’addio. Come un ritornello, ritorna incessantemente il desiderio di vedere l’Imam. Il nostro pellegrino comprenderà allora di essere stato due volte in presenza dell’Imam nel corso della propria vita: era perso nel deserto e l’Imam venne in suo soccorso. Ma come è regola, non ne ebbe coscienza, allora; lo può comprendere adesso che è stato sull’Isola Verde. Purtroppo, deve lasciare quest’isola; l’ordine non può essere disatteso; la flotta lo attende, la stessa con cui è arrivato. Ma ancor più che il viaggio esteriore, è impossibile per noi delineare l’itinerario che riconduce dall’”ottavo clima” a questo mondo. Il nostro viaggiatore cancella le sue tracce, ma riporterà alcune prove materiali del suo soggiorno: le pagine di appunti presi nel corso delle conversazioni con il nipote dell’Imam, e il regalo di commiato che questi gli diede al momento dell’addio.
La testimonianza dell’Isola Verde ci permette di ricavare un’abbondante raccolta di simboli. Si tratta di una delle isole che appartengono al figlio del Dodicesimo Imam. Quell’isola, dove sgorga la Sorgente della Vita, all’ombra dell’Albero del Paradiso, assicura il sostentamento dei seguaci dell’Imam che vivono lontani, sostentamento che è cibo “soprasostanziale”. Si trova ad occidente, come la città di Jabarsa si trova ad occidente del Mundus Imaginalis, ed offre perciò una curiosa analogia con il paradiso Buddista di Amitabha ; così come la figura del Dodicesimo Imam suggerisce l’immagine di Maitreya, il futuro Buddha; vi troviamo anche un’analogia con Tir-na’n-Og, uno dei mondi dell’aldilà dei Celti, la terra d’Occidente e dell’eterna giovinezza. Come il regno del Graal, si tratta di un intramondo autosufficiente. E’ protetto e immune da qualsiasi attacco esterno. Solo coloro che sono chiamati espressamente trovano la via per raggiungerlo. Una montagna sorge nel centro, e abbiamo osservato quale simbolo rappresenta. Come il Mont Salvat, l’inviolabile Isola Verde è il luogo dove i ricercatori incontrano il polo mistico del mondo, l’Imam Nascosto, che regna invisibilmente su questa era – il cuore della fede Sciita.
Questo racconto è completato da altri, poiché, come abbiamo detto, non sappiamo nulla finora delle isole che sono governate dalle straordinarie figure dei cinque figli dell’Imam Nascosto (omologhi a quelli che lo Sciismo designa come “i Cinque del Mantello” e probabilmente anche a coloro che il Manicheismo chiama “i Cinque Figli dello Spirito Vivente”). Una storia più antica (è della metà del dodicesimo secolo e il narratore è un cristiano) ci fornisce informazioni topografiche complementari. Ancora sono coinvolti dei viaggiatori che improvvisamente scoprono che le proprie navi sono entrate in una zona completamente sconosciuta. Attraccano sulla prima isola, al Mobaraka, la Città Benedetta. Alcune difficoltà, dovute alla presenza tra di essi di un musulmano Sunnita, li obbligano a viaggiare ancora. Ma il loro capitano si rifiuta; ha paura di navigare in quella regione sconosciuta. Devono procurarsi un nuovo equipaggio. In ordine di successione, apprendiamo i nomi delle cinque isole e i nomi dei rispettivi governatori: al-Zahera, la Città dei Fiori in Boccio; al Ra’yeqa, la Città Limpida; al-Safiya, la Città Serena, ecc. Chi riesca esservi ammesso entra nella gioia perenne. Cinque isole, cinque città, cinque figli dell’Imam, dodici mesi di viaggio attraverso le isole (due mesi per ciascuna delle prime quattro, quattro mesi per la quinta), questi numeri possiedono un significato simbolico. Anche qui, la storia si risolve in un racconto iniziatico; tutti i viaggiatori infine abbracciano la fede Sciita.
Poiché non esistono regole senza eccezioni, concluderò citando brevemente una storia che illustra un caso di manifestazione dell’Imam in persona. Il racconto risale al decimo secolo. Un iraniano di Hamadan fece il pellegrinaggio alla Mecca. Sulla via del ritorno, che si percorreva di giorno dalla Mecca (più di duemila chilometri fa Hamadan), aveva imprudentemente preso a girovagare durante la notte e aveva perciò smarrito i suoi compagni di viaggio. Al mattino stava vagando da solo nel deserto e confidava in Dio. Improvvisamente vide un giardino di cui né lui né nessun altro aveva mai sentito parlare. Vi entrò. Alla porta del padiglione, due giovani paggi vestiti di bianco lo aspettavano e lo condussero presso un giovane uomo di soprannaturale bellezza. Dal proprio stupore timoroso e soggiogato, comprese di trovarsi alla presenza del Dodicesimo Imam. Questi gli parlò della sua futura Apparizione e infine, chiamandolo per nome, gli chiese se volesse far ritorno alla propria casa e alla famiglia. Certamente, lo voleva. L’Imam fece segno ad uno dei suoi paggi, che diede al viaggiatore una borsa di monete e lo accompagnò guidandolo per il giardino. Viaggiarono insieme finché il viaggiatore vide un gruppo di case, una moschea e profili di alberi che gli sembravano famigliari. Sorridendo, il paggio gli chiese: “Conosci questo luogo?” “Vicino a dove abito in Hamadan’” rispose, “c’è una zona chiamata Asadabad, che ricorda esattamente questo posto”. E il paggio disse: “Ma tu sei ad Asadabad”. Stupito, il viaggiatore si accorse di essere davvero vicino a casa sua. Si girò, e il paggio non c’era più ed era rimasto solo, ma ancora aveva tra le mani il viatico che gli era stato donato. Non abbiamo detto poco sopra che il dove, l’ubi dell’ “ottavo clima” è l’ubiquità ?
Sono consapevole che questo racconto si possa commentare in molti modi, a seconda che siamo metafisici, tradizionalisti o no, o se siamo psicologi. Ma come conclusione provvisoria, preferisco limitarmi a porre tre brevi quesiti:
Non apparteniamo più a una cultura tradizionale; viviamo in una civiltà scientifica che sta estendendo il suo controllo, si dice, alle immagini. E’ un luogo comune, oggi, parlare di “civiltà dell’immagine” (pensando ai nostri giornali, cinema e televisioni). Ma ci si chiede se, come tutti i luoghi comuni, anche questo non nasconda un radicale equivoco, un errore completo. Poiché invece che elevare l’immagine al livello di un mondo che le sarebbe proprio, invece che investirla di una funzione simbolica, rivolta al senso interiore, abbiamo soprattutto la riduzione dell’immagine al livello della percezione sensoria pura e semplice, e quindi la definitiva degradazione dell’immagine. Non dovremmo dire, dunque, che maggiore successo ottiene questa riduzione, più si perde il senso dell’immaginale, e più ci si condanna a produrre soltanto dell’immaginario?
In secondo luogo, la prospettiva scenica di una storia come il viaggio all’Isola Verde, o l’incontro improvviso con l’Imam in un’oasi sconosciuta - sarebbero possibili senza il fatto iniziale (Urphanomen) oggettivo, assolutamente primario e irriducibile, dell’esistenza di un mondo di immagini-archetipi, o immagini-sorgente, la cui origine è non razionale e la cui incursione nel nostro mondo è imprevedibile, ma di cui è necessario riconoscere il presupposto?
In terzo luogo, non è esattamente il presupposto dell’obiettività del mondo immaginale che ci viene suggerita, o imposta, da talune forme o emblemi simbolici (ermetici, cabalistici o mandala) che hanno la capacità di creare la proiezione magica delle immagini mentali, così che assumano una realtà oggettiva?
Per indicare in che senso sia possibile rispondere alle domande sull’obiettiva realtà delle figure soprannaturali e degli incontri con esse, citerò soltanto un testo straordinario, in cui Villiers de L’Isle-Adam racconta del volto dell’imperscrutabile Messaggero dagli occhi di creta: “non si può percepire che con lo spirito”. Le creature sperimentano solo le influenze che appartengono alle entità arcangeliche. “Gli angeli” scrive “non esistono, in sostanza, che nella libera sublimità del Cielo assoluto, dove la realtà è unita all’ideale… Essi si esternano solo nell’estasi che provocano e che è parte di loro.”
Le ultime parole, un’estasi.. che è parte di loro, mi sembrano possedere una chiarezza profetica, poiché essi possono penetrare anche il granito del dubbio, paralizzare il “riflesso agnostico”, nel senso di spezzare l’isolamento reciproco della coscienza e del suo oggetto, di pensiero ed essere; la fenomenologia diventa ontologia. Senza dubbio, questo è il postulato implicito nell’insegnamento dei nostri autori a proposito dell’immaginale. Poiché non vi è alcun criterio esterno per la manifestazione dell’Angelo, che la sua stessa manifestazione. L’Angelo è di per sé ekstasis, il “dislocamento” o la partenza da noi stessi che è un “cambiamento di stato” rispetto al nostro stato di coscienza. Ecco perché queste parole ci suggeriscono anche il segreto dell’essere soprannaturale dell’ “Imam Nascosto” e della sua Apparizione nella coscienza Sciita: l’Imam è l’ ekstasis di quella coscienza. Chi non si trova nel suo stesso stato di coscienza non può vederlo.
A questo allude Sohravardi nel suo racconto “L’Arcangelo Cremisi” con le parole che abbiamo citato all’inizio: “Se sei Khezr, puoi passare senza difficoltà anche attraverso la montagna di Qaf”.
Marzo 1964
Henry Corbin (1903-1978), orientalista e filosofo, è uno dei più grandi pensatori del XX secolo. Allievo di Etienne Gilson e di Louis Massignon, a cui succede alla cattedra di Studi dell’Islam dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes della Sorbonne, fu anche uno dei pilastri fondamentali, con, tra gli altri, C. G. Jung e M. Elide, del circolo Eranos dal 1949 al 1977, direttore del Dipartimento di Iranologia dell’Istituto Franco-Iraniano di Teheran dal 1946 al 1970, professore per più di trent’anni all’Università di Teheran e membro fondatore dell’Université de Saint-Jean de Jerusalem.
Henry Corbin ha rivelato all’occidente l’esistenza di un modo fino ad allora completamente sconosciuto: la profonda spiritualità dei grandi mistici sciiti e la filosofia sviluppata nell’oriente musulmano, in particolare in Iran, dopo la morte di Averroé. La sua opera, centrata sulla conoscenza e la spiritualità islamica, ma sviluppata nel contesto delle tre grandi religioni del monoteismo, comprende un numero considerabile di studi sui riti, così come sulle traduzioni e le edizioni degli antichi testi inediti, arabi e persiani, che recuperò egli stesso, pazientemente, nelle biblioteche di Turchia e dell’Iran.