Murakami e Leopardi: la strana coppia

Creato il 26 novembre 2015 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
La luna costituisce da millenni un mistero per l'uomo: silenziosa osservatrice che appare nella notte, momento topico per le riflessioni malinconiche, essa ha sempre rappresentato una fedele confidente, un elemento rassicurante per la luce che irradia nelle tenebre, un simbolo di purezza e la rappresentazione di tutto quanto è bello e identificabile con una felicità irraggiungibile (come per l'Ariosto della Favola della Luna, ovvero della satira III). La luna ha raccolto per secoli le confessioni e le tensioni degli uomini, offrendosi alla contemplazione di ogni spirito desideroso dell'immortalità, della percezione dell'infinito e del possesso della pace.
 

R. Magritte, La pagina bianca (1967)

 Gli antichi la rappresentavano come una divinità vergine, identificandola con Artemide-Diana, ma anche con Selene, figlia di Iperione e Theia e sorella di Helios ed Eos; la sua figura era essenziale anche nella cultura egizia, non solo perché spesso le divinità sono raffigurate con un disco lunare in testa, ma anche per il legame fra Toth, dio della scrittura, della magia e del mistero con questo elemento astronomico (chiamato Lah). Da sempre associata nella mitologia alle figure solari come necessario complemento delle divinità che presiedono allo scorrere del tempo e al movimento dei corpi celesti, Artemide ha un corrispettivo nella divinità maschile giapponese Tsukuyomi e, come la dea cacciatrice greco/romana, anche Tsukuyomi è fratello della dea del sole Amaterasu: la coppia, insomma, ricorda, a parti invertite, quella di Artemide/Apollo, figli di Zeus e Latona.
Anche se i miti non finiscono mai di stupire chi li legge e li studia, rivelando tradizioni simili in punti del mondo molto lontani fra loro e in culture che non si sono mai incontrate, non una semplice somiglianza a suscitare la mia curiosità in un legame fra Occidente e Oriente, bensì una sorta di dialogo letterario a distanza non solo spaziale ma anche temporale.
Leggendo il romanzo 1Q84 di Haruki Murakami, infatti, ho assaporato con piacere alcune reminescenze letterarie a me note da tempo. Come sa chi ha fatto esperienza di questo ricco racconto, la luna è per i due protagonisti, Aomame e Tengo, un elemento fortemente simbolico, oltre che il segno di riconoscimento della realtà misteriosa e sfuggente in cui sono intrappolati e nel cui cielo compaiono ben due lune, una più grande e una più piccola. Per questo motivo entrambi sono spesso descritti mentre osservano il satellite, interrogandolo con lo sguardo o dialogando con esso come se fosse il custode di una verità che a loro è preclusa.
La luna guardava la terra da vicino da più tempo di chiunque altro, Probabilmente era stata testimone di tutti i fenomeni accaduti e di tutte le azioni compiute quaggiù. Ma manteneva il silenzio e non raccontava nulla. Si limitava a custodire un pesante passato con precisione e distacco. Lassù non c’era aria né vento; il vuoto era adatto a conservare infatti i ricordi. Nessuno era mai riuscito a sciogliere il cuore della luna. Aomame alzò il bicchiere verso di lei.
 - Di recente hai dormito tra le braccia di qualcuno?
La luna non rispose.
 - Hai amici? - chiese.
Nessuna risposta.
 - Non ti senti stanca, a volte, della tua vita così fredda?
Anche questa volta, nessuna risposta.
Di fronte a questo brano non potevano non risuonarmi nella mente i versi di Giacomo Leopardi che aprono il commovente Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (vv. 1-8):
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?

V. Van Gogh, Passeggiata sotto la luna

La luna silenziosa per la quale il poeta compone i suoi versi è riflessa nelle parole di Murakami, con tutte quelle domande senza risposta. Eppure il pastore e Aomame non le chiedono di dare responsi sul loro destino, ma domandano che la luna parli di sé, svelando, almeno in parte, il mistero della sua eterna esistenza, lassù, nel cielo tenebroso. Non è esasperata di una vita in soltudine, sempre uguale, sempre costante, mentre osserva un'umanità che si divincola fra sofferenze, difficoltà e dubbi atroci? In quel «Non ti senti stanca, a volte, della tua vita così fredda?» non si può non distinguere il leopardiano «Ancor non sei tu paga / di riandare i sempiterni calli?».
Come la luna del 1829-1830, anche quella del XXI secolo continua ad osservare l'umanità e a serbare i propri segreti, a trattenere in sé la consapevolezza del tempo passato, del presente e del futuro (vv. 61-72).
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Ma un'eco leopardiana si coglie anche in un successivo passo del romanzo di Murakami, quando si insinua la sensazione che, anche se la luna nello strano cielo della Tokyo dell'1Q84 fosse sempre la stessa, gli uomini non la saprebbero riconoscere.
Vivendo in un mondo come questo, dove tutto è più facile, la nostra sensibilità si è fatta più ottusa. Anche se la luna che sta in cielo è la stessa di sempre, forse quella che vediamo noi è un’altra, Credo che quattro secoli fa gli uomini possedessero un animo più ricco e vicino alla natura.
Fin dalle sue prime opere, infatti Giacomo Leopardi sottolinea il divario fra la percezione degli antichi e quella dei moderni: mentre i primi vivevano a stretto contatto con la Natura e la sapevano dunque apprezzare e riprodurre in modo spontaneo, i secondi vivono nell'età della ragione, dove ogni esperienza è filtrata da un'analisi fredda e calcolatrice, dove nessun mistero viene accettato come tale e ogni manifestazione della meraviglia è soffocata. Gli uomini d'oggi - dice Leopardi, con una fermezza che ci porta a chiederci cosa direbbe dei quelli degli anni Duemila - sono incapaci di stupirsi, di accettare la bellezza come tale, di ricevere l'armonia offerta dalla Natura: la ragione, pur sacrosanta (il poeta non nega mai all'uomo la necessità di essere consapevole scevro di pregiudizi nell'osservare ciò che lo circonda), ha annientato il fanciullo che è in noi e che gli antichi sapevano far giocare. Per questo stesso motivo gli uomini del passato, capaci di coltivare illusioni fanciullesche predisposte dalla stessa Natura, riuscivano più facilmente ad essere felici, mentre quelli contemporanei sono assillati dal dubbio, dallo svelarsi di una realtà che non è certo bella come si desidera. Lo si legge nelle pagine dello Zibaldone scritte nel 1821 (1560-1561):
L’uomo alterandosi, ha trovato la natura imperfetta per lui. Ciò vuol dire ch’egli non s’è dunque perfezionato, ma corrotto; ciò vuol dire che egli non corrisponde più al sistema delle cose, e per conseguenza ch’egli è in uno stato vizioso. L’imperfezione dell’uomo, che non ha niente d’assurdo, perchè vien da lui, noi l’ascriviamo alla natura, il che è assurdissimo in sì perfetta maestra, e poi in quella che è la sola norma e ragione del perchè una cosa sia perfetta o no; giacchè fuor di lei, e della sua libera disposizione, non esiste altra ragione di perfezione o imperfezione. Dopo che l’uomo s’è cambiato, ha dovuto cambiar la natura. Ciò prova ch’egli non doveva cambiarsi. Se la sua nuova condizione fosse stata voluta e ordinata dalla natura, ella avrebbe disposte e ordinate le altre cose in modo che corrispondessero e servissero perfettamente a questa nuova condizione.

Diana di Versailles

 La frattura fra l'uomo, la Natura e la percezione della Natura stessa da parte dell'essere umano è legata ad un peccato originale commesso per il desiderio del progresso: con la sua smania per la conoscenza e la messa a nudo razionale di ogni singolo aspetto dell'esistenza, l'uomo si è negato da solo la felicità, facendo violenza alle illusioni che lo avrebbero reso felice. Certo, Leopardi non tarderà a invocare non solo il mantenimento, ma il rafforzamento della consapevolezza dell'uomo nei confronti del suo rapporto con la Natura, ma lo farà comunque attaccando i falsi oggetti di conoscenza che l'umanità si è data nei secoli. Come si evince da La ginestra (1836), l'uomo guarda alla presunta perfezione e immortalità delle proprie opere, anche razionali, ma non è razionale nel rintracciare nella Natura la vera colpevole della sua infelicità e della sua stessa distruzione.In ogni momento della poesia di Leopardi, comunque, si coglie un monito all'uomo, affinché cambi il proprio modo di rapportarsi alla Natura; che sia, come nelle poesie giovanili, per tornare ad una spontaneità perduta che lo ha cacciato da un Paradiso terrestre di illusioni, o per riconoscere in essa una matrigna pronta a sferzarlo e umiliarlo come fa con qualsiasi altra briciola animale o inanimata presente nel mondo, l'essere umano deve cercare di ritrovare il proprio posto nell'universo, a costo di riconoscersi una formica insignificante. Sebbene Murakami non metta in piedi un sistema filosofico tanto complesso, l'idea che qualcosa, negli uomini di ieri, fosse diversa da come la avvertiamo oggi è lampante in 1Q84: c'è una realtà che non ci è più accessibile perché la nostra sensibilità è mutata, incapace di cogliere l'autenticità del vero. E forse la luna è l'unico elemento incorruttibile, di fronte al quale appare chiaro che la trasformazione non è avvenuta nella Natura, ma in noi che ad essa ci rapportiamo. Il «mondo dove tutto è più facile» in cui si muovono Aomame e Tengo è un mondo dalla «sensibilità più ottusa», dove solo la luna immortale, intatta e vergine (come la definisce Leopardi nel Canto notturno e come la immaginavano i Greci che plasmavano l'altera Artemide, fiera della propria purezza) è rimasta a testimoniare l'immutabilità della Natura... e a rinfacciare all'uomo la sua trasformazione, un tradimento cui ella risponderà per sempre con il silenzio.

I. K. Ajvazovskij, Il Golfo di Napoli di notte al chiaro di luna (1870)

«Forse in quella circostanza Aomame ha affidato alla luna qualche sentimento segreto», pensò improvvisamente Tengo. Forse avevano stretto una specie di accordo all’insaputa del mondo. Mentre guardava la luna, nello sguardo di Aomame c’era qualcosa di talmente serio da giustificare una simile fantasia. Che cosa avesse offerto alla luna, Tengo non poteva saperlo. Ma poteva più o meno immaginare la contropartita ricevuta in cambio. Una solitudine pura e una pace profonda. Le cose migliori che la luna potesse offrire agli uomini.
C.M. Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.

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