Quando si pensa a Murakami Haruki, è inevitabile associarlo al mistero e alla magia che si nasconde al di là dello strato superficiale delle cose comuni. Nel mondo accadono strane cose, e spesso è difficile districare la matassa e raggiungere una soluzione soddisfacente. Se le storie di narrazione, come la vita, sono così, il lettore inizia a fare i conti con questo senso di incompletezza che finisce col renderlo curioso e con l’incollarlo alla pagina.
Il suo ultimo romanzo, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, racconta la storia di Tsukuru, ragazzo trentaseienne cui è capitato un evento apparentemente privo di spiegazione: prima di iniziare l’università, è stato messo fuori da quelli che considerava i suoi amici più intimi, senza sapere cosa fosse accaduto.
Se Murakami avesse portato avanti l’idea iniziale, quella di scrivere solo un racconto, il “mistero” legato alla storia di questo personaggio sarebbe rimasto irrisolto, e lo scrittore avrebbe semplicemente raccontato la sua vita, senza addentrarsi in vie sconosciute fino allo scioglimento finale. Ma, come spesso accade nei suoi libri, la figura femminile di Sara ha suggerito a Tsukuru – e quindi allo stesso Murakami – di cercare di scoprire cosa fosse successo a Nagoya tanti anni prima, così la stesura del racconto è proseguita fino a trasformarlo in un romanzo.
Così come i libri precedenti, anche Tsukuru Tazaki ha spaccato a metà la critica.
Intervistato dal Guardian, Murakami ha parlato del suo lavoro di scrittore: «Mi piace scrivere. Mi piace scegliere la parola giusta, scrivere la frase giusta. È proprio come il giardinaggio, o qualcosa del genere. Hai piantato il seme nel terreno al momento giusto, nel posto giusto».
Nonostante l’enorme successo riscosso, tuttavia, Murakami Haruki continua a considerarsi un emarginato nel mondo della letteratura giapponese: «È un argomento delicato. Sono una sorta di reietto del mondo letterario giapponese. Ho i miei lettori, ma molti critici e scrittori non mi apprezzano. Non ho idea del perché! Ho scritto per 35 anni e finora la situazione è la stessa: sono un po’ il brutto anatroccolo. Sempre l’anatroccolo, mai il cigno».
Giovanna Nappi