Murder Ballads: John Lennon – Appuntamento con l’assassino (parte I)

Creato il 24 dicembre 2011 da Nottecriminale9 @NotteCriminale
Sergio Gilles Lacavalla
«È solo il nuovo disco di una fottuta rockstar inglese». «No! Non è solo un disco e lui non è solo una fottuta rockstar! Guarda qua chi è John Lennon». 
Alla Convenzione Repubblicana riunita a Detroit, la notizia del ritorno in scena di John Lennon, con l’album Double Fantasy dopo cinque anni di silenzio, fece diffondere nervosismo e preoccupazione. 
Il fascicolo sull’ex beatle si aprì sulla scrivania. E quello che ne uscì dimostrava quanto John Lennon fosse pericoloso per il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Ronald Reagan. Era chiaro che la sua voce non era solo quella di una «fottuta rockstar inglese». Il rapporto Hoover lo diceva in tutte le sue pagine. Era un sovversivo, che se non fosse stato per l’intervento in suo favore di personalità della cultura che alzarono un polverone sui giornali, l’ufficio immigrazione non gli avrebbe mai concesso la Carta Verde. 
“John Lennon dal 1972 era stato sorvegliato dall’intelligence e dalla polizia sotto l’amministrazione repubblicana di Richard Nixon e di Gerald Ford per le sue posizioni pacifiste e il sostegno ad attivisti americani come Eldrige Cleaver, Jerry Rubin e Angela Davis, e a quelli irlandesi di stanza a New York tenuti sotto controllo dall’FBI e dalla CIA in collaborazione con i servizi segreti militari britannici. 
E ora, anche se al governo c’era il democratico Jimmy Carter, le attenzioni della sicurezza statunitense e dei federali erano tornate su di lui (e sull’“ufficialmente chiuso” programma MK e sull’altro piano segreto dell’FBI chiamato Cointelpro, anch’esso “ufficialmente chiuso”)” (da “Rockriminal Murder Ballads Storie di Rock Balordo e Maledetto”). 
Perché i Servizi e l’FBI non ne potevano più di un democratico alla Presidenza. Loro volevano nella Stanza Ovale il Governatore della California. 
John Lennon di certo non avrebbe parlato in suo favore.
  Il capo indiano, posto a guardia monumentale sopra il Dakota Building, quella sera avrebbe assistito a un altro delitto. Davanti all’edificio, costruito su un vecchio cimitero dove riposavano i suoi avi, si sarebbe ripetuta la storia americana. Quella che risolveva le proprie faccende a colpi di arma da fuoco. Lui, il gran capo, lo sapeva; sapeva che quella notte avrebbe segnato sul calendario del crimine un’altra data. Che nessuno avrebbe più dimenticato: 8 dicembre 1980. 
 Quando, nel 1884, l’architetto Henry J. Hardenbergh inaugurò il complesso di appartamenti nell’Upper West Side di Manhattan a New York City progettato dal suo studio, non immaginò che su quel luogo gravava una maledizione. 
Non era un veggente come il capo Dakota, che prevedeva tutto, immobile nel suo marmo. Dinanzi all’ingresso che dà sulla 72esima strada, Roman Polanski aveva girato il film Rosemary’s Baby – sentento quanto male doveva esserci in quel luogo.
 All’interno della costruzione delle star, icone del cinematografo come Bela Lugosi, Boris Karloff, Judy Garland e Lauren Bacall avevano preso casa mostrando la loro decadenza di divi di Hollywood. E ora, in un altro dei suoi lussuosi appartamenti, abitava ancora un simbolo della cultura pop: l’ex beatle John Lennon. 
Rinchiuso dal 1973 con la sua Yoko Ono a farsi di droghe e paranoia. “Sono solo, voglio morire / se già non sono morto […] Non penso che al suicidio, proprio come Mr. Jones di Dylan […] Una nuvola nera attraversa la mia mente […] Odio persino il rock’n’roll […] Voglio morire, sì, voglio morire / Se non sono già morto”, aveva scritto in Yer Blues nell’Album Bianco dei Beatles. 
Ma adesso, comunque, i giorni dell’isolamento e del disfacimento erano finiti. E non era ancora morto. (Continua).

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