Muscoli e sensibilità: dopo 30 anni
lascia il gigante buono della questura
Aprile 2013
L’ultimo poliziotto di strada se n’è andato in pensione il 27 marzo scorso. Lui, i suoi jeans sempre un po’ sdruciti (ma non per moda) e soprattutto la sua stazza, che valeva più di una pistola puntata, per lo più innocua e però micidiale nel soffocare strambe idee di resistenza nel candidato all’arresto.
Adesso che si esce principalmente per servizi mirati, che intercettazioni, sistemi informatici e dna, hanno soppiantato il fiuto da sbirro, c’è chi dice che l’Elio si sentisse un po’ a disagio. «Ma è l’evoluzione – allarga le braccia lui -, anche la criminalità negli ultimi anni si è trasformata, non è più quella stanziale che dava punti di riferimento. Di conseguenza pure l’attività della polizia s’è modernizzata».
«L’informatica ha dato un aiuto notevole al lavoro investigativo e ha sostituito quello più artigianale di prima. Si guadagna tempo, però si perdono certe sfumature che solo il contatto umano poteva darti e che in molti casi potevano essere significative per le indagini. Vero che molto è cambiato, a cominciare da noi della Mobile che eravamo in 36, tutti molto più giovani, e siamo rimasti in una ventina. Il lavoro andava razionalizzato, la nostra squadra non si poteva più permettere una pattuglia che stesse fuori a girare per la città, pronta a intervenire su tutto».
Inadeguato non si è mai sentito, anche ultimamente, «perché nella polizia tutti sono utili per le proprie qualità, non esiste un modello unico di poliziotto: c’è chi è bravo a sparare, chi a guidare, chi a indagare. Io, certo, alle scartoffie e alla burocrazia del lavoro d’ufficio, che andava comunque fatto, preferivo la strada, con i pericoli, il freddo d’inverno, l’afa d’estate». In polizia s’era arruolato il 15 gennaio 1983, dopo aver fatto il garzone alla farmacia Rolla di piazza Sant’Anna, l’operaio al birrificio Von Wuster di Borgo Palazzo, il bagnino alle piscine Italcementi e l’infermiere professionale in sala operatoria all’ospedale Maggiore. Era arrivato a Bergamo nell’85, subito squadra mobile, con le vie della città che presto erano diventate il suo regno. Lui e il collega-fratello Stefano Lesi (in pensione dall’ottobre scorso), coppia fissa, s’erano guadagnati il soprannome di Starsky & Hutch, battendo i quartieri, stanando spacciatori e rapinatori, producendosi in inseguimenti magari sulla mitica Regata Bianca che a un certo punto era diventata una delle poche circolanti in provincia ed era così immediatamente riconoscibile («Ma era perfetta per la mia mole e ci mettevo anche dei soldi di tasca mia pur di non cambiarla»).
E poi le scene da film: Elio attaccato al tettuccio di un’auto di due ladri in fuga in via Quarenghi, lui che nel ’90 a Viana di Nembro sfonda la porta dell’appartamento dove s’era asserragliato Pietro Andreani, che aveva appena ucciso i due fratelli a colpi di fucile. «La paura l’ho avuta in molte occasioni ed è giusto che ci sia, perché ti impedisce di essere imprudente: bisogna saperla gestire», riflette.
«Uno così, se nasceva cattivo, erano cavoli amari», butta lì Lesi davanti ai 197 cm per 115 kg del socio. Ma la monumentalità per Elio è sempre stata un’arma a doppio taglio. «Da una parte aiutava perché la gente mi riconosceva subito, dall’altra però mimetizzarsi negli appostamenti era fatica doppia», dice. Lui, il fisico l’ha saputo usare per spiazzare: i criminali se lo vedevano arrivare addosso preparandosi alle botte e invece Elio li incantava con le parole.
«Alla fine quelli si sentivano quasi gratificati e gli portavano rispetto – confida Lesi -. Era di una sensibilità estrema, ad onta dei muscoli minacciosi». Una volta fece irruzione nell’abitazione di un criminale per arrestarlo e, vedendo che lì accanto c’era il figlio piccolo, per non traumatizzarlo Elio gli raccontò che il padre era un agente dei servizi segreti e che loro erano venuti a prenderlo per una missione importante. «Alla fine i familiari mi ringraziarono e per me fu come una medaglia», arrossisce ancora lui. Un tipo in antitesi col suo fisicaccio. Basti pensare che l’encomio solenne gli arrivò per il lavoro – penoso, delicato, tecnico – di riconoscimento delle 133 salme del disastro aereo delle Azzorre, quando lui era diventato in pratica il referente dei familiari che venivano a chiedere i corpi. La pistola usata come estremo rimedio, poche scazzottate, mai violenza gratuita, neanche nelle situazioni esagitate dello stadio dove pure dagli ultrà s’era guadagnato nomi da battaglia: Pilone (come il gigante del film Porky’s), Robocop, Mazinga, Rambo. «Meglio parlamentare, magari era una strada più lunga, ma se ottenevi il risultato c’era doppia soddisfazione».
Qualche pietra in testa durante i tafferugli, poi un investimento a un posto di blocco, un braccio rotto durante una rapina. Tutto sommato, in 30 anni se l’è cavata con pochi danni. Ed è per questo che a un certo punto ha preferito lasciare: «Non volevo forzare il destino. Ma non sono contento di essere andato in pensione. Perché per me la polizia era una seconda famiglia».
Tratto da www.ecodibergamo.it articolo a firma di Stefano Serpellini