Le esportazioni prima di tutto: ma senza dimenticare l’etica, la solidarietà, l’Islam. La commistione virtuosa tra affari e religione, tra bilanci in attivo e rispetto dei valori tradizionali è stata in mostra a Istanbul, dall’11 al 14 ottobre, alla quattordicesima edizione della fiera annuale organizzata dalla Müsiad, l’Associazione degli industriali e degli uomini d’affari indipendenti di rivendicata militanza islamica: più di 750 espositori (circa 550 turchi, gli altri stranieri), quarantacinquemila metri quadrati di area fieristica occupati in quattro padiglioni (quasi il doppio rispetto all’edizione precedente), più di cinquemila delegati provenienti da 86 paesi (islamici e non) che hanno partecipato al parallelo International Business Forum (Ibf). Non per niente sono stati definiti, in un rapporto preparato nel 2005 dal centro di ricerca European Stability Initiative, “calvinisti musulmani”; altri preferiscono chiamarli, in virtù dell’area geografica da dove provengono (ma sono attivissimi anche a Istanbul) e per analogia con le economie ruggenti dell’Asia sud-orientale degli anni ’90, “tigri anatoliche” (soprattutto dell’Anatolia centrale e orientale: Malatya, Kayseri, Gaziantep, Denizli, Kocaeli, Kahramanmaraş).
La Müsiad è stata fondata nel 1990 e oggi raggruppa più di cinquemila imprenditori: gestiscono circa quindicimila piccole e medie imprese in cui operano un milione e duecentomila addetti, aggiungono al Pil turco una quota superiore al 15% frutto in maniera determinante di esportazioni (17 miliardi di dollari nel 2011), possiedono uffici di rappresentanza in ben 46 paesi per tessere e mantenere contatti in permanenza. Il loro orientamento conservatore – etica islamica nell’attività economica e nella condotta individuale – è stato esibito in fiera con decisione e convinzione: nello slogan della manifestazione, “unisci il tuo business al mondo islamico”; nella formula attorno alla quale è stato realizzato il video di presentazione, “il mondo islamico è qui”; nel tema scelto per le conferenze e le tavole rotonde dell’Ibf, “l’era del progresso economico e politico per i paesi dell’Organizzazione per la cooperazione islamica” (Oic); nella recita da parte di un imam di alcuni versetti del Corano sul tema della solidarietà, prima dell’affollatissima cerimonia di apertura; nel discorso inaugurale del presidente dell’associazione Nail Olpak, imperniato sul concetto di “sviluppo giusto”.
L’ingegner Olpak da Burdur ha messo in evidenza i cambiamenti repentini nella composizione delle esportazioni della Turchia: nei primi otto mesi del 2012, quelle verso l’Europa sono diminuite dell’8% e quelle verso i membri dell’Oic sono aumentate del 32% fino a raggiungere il 23% delle esportazioni totali (quota raddoppiata rispetto al 2000); ha invitato ad accrescere ancora l’interscambio tra i paesi islamici grazie a una più incisiva liberalizzazione dei mercati, così da assicurare tassi di crescita del Pil rispettabili; ha rivendicato un ruolo guida per la Müsiad nei confronti degli imprenditori e degli investitori provenienti dai paesi islamici (e in particolare da quelli delle “primavere arabe”), poi condotti in missione nel cuore industriale dell’Anatolia – Kocaeli, Kayseri, Konya – per creare contatti e firmare contratti; ha soprattutto spiegato come il successo negli affari non deve essere misurato solo in termini monetari ma anche nella capacità di costruire una società più giusta, lottando contro le discriminazioni, le disuguaglianze e la povertà. Certo, sarebbe interessante capire fino a che punto i valori annunciati siano poi effettivamente praticati: ma non è questa la sede per farlo
Lo ha seguito sul palco il premier Recep Tayyip Erdoğan: in un trionfo di applausi, di flash professionali e amatoriali, di sorrisi compiaciuti. Il leader dell’Akp ha ringraziato la Müsiad per il contributo rilevantissimo allo sviluppo della Turchia, soprattutto da quando il suo partito – nel 2002 – ha conquistato il potere (l’organizzazione imprenditoriale ha subito penalizzazioni e un pesante ostracismo dopo il colpo di stato militare e anti-islamico del 1997); ha presentato in modo didascalico, ma sempre con trasporto oratorio, i successi economici del suo governo nell’ultimo decennio e anche nell’ultima fase di crisi globale: crescita attorno al 3% con previsioni al rialzo nel 2013 anche grazie all’aumento dell’interscambio coi paesi islamici, conti in ordine, stabilità macroeconomica, riduzione degli squilibri nell’inflazione e nel saldo delle partite correnti provocati da un ritmo di crescita non sostenibile, riduzione della disoccupazione, reddito pro capite triplicato dal 2002 al 2012, incremento delle esportazioni e degli investimenti diretti ricevuti.
Soprattutto, Erdoğan ha messo in evidenza come il boom economico ha dato alla Turchia un rinnovato ruolo di leadership nel mondo e i mezzi per provare a riorganizzare le istituzioni internazionali e i rapporti tra popoli: Ankara distribuirà nel 2012 un miliardo e mezzo di dollari di aiuti di ogni tipo, dai generi di prima necessità alle infrastrutture (grazie al lavoro prezioso dell’Agenzia per la cooperazione, la Tika); è diventata in sede Onu il riferimento per i paesi meno sviluppati (Ldc), che verranno coinvolti in un vertice coi paesi del G20 – di cui la Turchia sarà allora presidente – nel 2015; ha creato meccanismi per il dialogo culturale tra Occidente e Islam, dando vita insieme alla Spagna all’Alleanza delle civiltà. L’obiettivo è un mondo più stabile, più ricco, più unito. In sostanza, ha offerto la Turchia come modello di sviluppo per gli altri paesi islamici, come partner privilegiato; ma ha anche ammonito che “per essere forti è necessario risolvere i nostri problemi interni”, superare i deficit di rappresentanza democratica e le diseguaglianze socio-economiche. Nel frattempo, i dati statistici di settembre sono molto eloquenti: gli Emirati arabi uniti sono diventati il primo partner commerciale di Ankara scavalcando la Germania, l’Iraq il terzo.
E la Turchia come motore e trascinatore dello sviluppo del mondo islamico era ben evidente negli spazi espositivi veri e propri, in realtà quattro diverse fiere – in altrettanti padiglioni tra loro comunque comunicanti – dedicate all’automazione, alle costruzioni e alla decorazione d’interni, ai tessili, all’industria agro-alimentare: perché colpivano i contenuti tecnologici sempre più avanzati delle produzioni turche, lo sfarzo di alcuni stand e la professionalità plurilingue nell’accoglienza dei potenziali compratori o investitori. In un quinto padiglione, ma senza l’egida della Müsiad, sempre negli stessi giorni si è svolta una fiera parallela: quella dedicata ai prodotti halal (dai cibi agli hotel, ma anche cosmetici e medicina alternativa), con circa 150 espositori e compratori provenienti da 24 paesi. Anche in questo mercato settore ricchissimo (abbigliamento compreso, potenzialmente duemila miliardi di dollari), pur se in ritardo, gli imprenditori turchi si stanno gettando a capofitto: come la Namet, azienda leader nella trasformazione delle carni, che solo quest’anno ha iniziato a esportare e conta nel giro di pochi anni di totalizzare all’estero – paesi islamici e comunità turche dell’emigrazione – il 25% dei propri ricavi (la quota iniziale, in questi primi mesi, è del 2%).
Inoltre, la Turchia presiede stabilmente – sin dal 1984 – lo Standing Committee per la cooperazione economica e commerciale dell’Oic: e la ventottesima riunione si è tenuta a Istanbul praticamente in concomitanza dell’expo – dall’8 all’11 ottobre – fondendosi praticamente l’ultimo giorno. Dopo due giorni di riunioni tecniche, la sessione ministeriale e politica del 10 è stata aperta anche in questo caso da Erdoğan con un intervento meno appassionato e più concretamente propositivo: perché ha posto come priorità dell’organizzazione l’adozione integrale della strategia collettiva “Creare un mondo islamico interdipendente”, basata su miglioramenti sensibili alla governance dei singoli paesi e dell’Oic, sulla libera circolazione di merci, persone e idee, sul ruolo decisivo di piccole e medie imprese e del settore privato più in generale, su di una serie di progetti comuni nei settori dell’energia, dei trasporti, del turismo. L’obiettivo più ravvicinato è incrementare l’interscambio tra i paesi membri al 20% del totale dei loro scambi col resto del mondo entro il 2015, dal 17% attuale; quello più a lungo termine è uno sviluppo equilibrato, equamente distribuito.
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