E dopo cena me ne torno di là per onorare il rituale serale sigaretta/bicchierino di Fundador/peto allegro-ma-non-troppo-che-mi-sentono; cerco di trovare una posizione vagamente accettabile su quella maledetta seggiola ergonomica, comoda quanto la croce di Cristo, che ho preteso di avere in casa versando tante centomilalire del vecchio conio all’azienda svedese specializzata in ‘sto cazzo perché l’intenzione era quella di non diventare gobbo e mi appresto a scrivere, perché devo fare l’introduzione a questo pezzo. Penso sia arrivato il momento giusto per affrontare il discorsone MA DOVE STA ANDANDO IL BLACK METAL? Eh, ma dove starà andando ‘sto scemo? Così, mentre ci ragiono, smanetta qui, spippola là, ti scopro il nuovo pezzo dei Fadades ed è un attimo che perdo la capacità di intendere e di volere rapito dall’alieno canale Youtube del tizio dei Fadades. Chi è Tatiana? Tatiana è l’amica mia grassa, tarmente grassa che se sale sulla bilancia, la bilancia je fa: fermete! Te peso a occhio. Il tizio dei Fadades, dovete da sapere, è una specie di goblin skywalker assetato di sangue e carico di livore nei confronti di tutto ciò che vive e respira. La rabbia disumana gliela puoi leggere negli occhi (che ogni tanto si illuminano tipo un gatto di notte) e nelle smorfie di questo viso deforme che si storce, se contorce; ‘ste mani che imprecano la madonna alsaziana e che fanno tutte ‘ste mosse nervose che semmevienisolopiùvicinoteaprocomenacozzateloggiuro.
Qualcuno ha azzardato definirli space black metal. Discettando con l’oscuro Manolo Manco, nuovo e pregiato acquisto di codesta rivista digitale, ci si diceva che un tale appellativo poteva stare bene, al limite, agli Oranssi Pazuzu. E comunque queste definizioni cominciano un po’ a darmi ai nervi ma non è colpa loro e poi i PTP sono italiani e noi, generalmente, vogliamo bene agli italiani. Ci hanno fatto discutere, un poco. A Giovanni, per esempio, sono piaciuti tanto, qualcuno ha promesso che li avrebbe ascoltati, non so tutti gli altri che ne pensino. Anche in me i Progenie hanno destato interesse ma non riescono a sfondare il muro della mera curiosità. Purtroppo per loro, dopo l’abuso di post-bm dell’anno scorso, ho deciso di inaugurare il 2014 con un ritorno al tradizionalismo black metal più reazionario possibile quindi non me la sento di dare giudizi definitivi, né tantomeno umorali, soprattutto su degli esordienti, dall’aspetto un po’ nerd, ma così bravi e coraggiosi e che tanto endorsement hanno di già raccolto. Se se ne riparlerà sarà solo per merito loro, anche se il black metal non sarà probabilmente la migliore chiave di lettura per farlo.
Alla pugna coi belli e impossibili Skiltron. Diamine come pompano questi. Sono i cloni degli Skyclad ma c’hanno la cazzimma dei Grave Digger più cciovani e la quadratura crucca degli assoli alla Running Wild. Sono argentini, il che te li fa amare quasi a prescindere. Per intendersi, questi fanno una roba tipo celtic metal, con le cornamuse, le war drums, i kilt e il restante corredo marziale, parlano di Bannockburn e il loro moniker sta a significare una formazione da battaglia tipica dell’esercito scozzese. Ma vengono da Buenos Aires. E nei primi quattro pezzi è tutto un fantastico pompare di cori e tamburi fino all’apex rappresentato dalla stupenda On the Trail of David Ross, dopo la quale si viene schiaffeggiati dall’assurdo power death flamenco di Besieged By Fire, per poi ricominciare coi ritmi marziali, maschi e cazzuti, che a noi gran frocioni fanno dare di matto. Hanno molto a che spartire con quei collettivi folk tipo Folkearth/Folkodia ma viaggiano su tragitti più strettamente heavy metal e non sbagliano una virgola. Da segnalare infine che si avvalgono della collaborazione di uno zampognaro fenomenale e, in The Rabbit Who Wanted to Be a Wolf, di Jonne Järvelä. Disco da consumare.
Noi abbiamo tante cose belle. Per questi invece è un casino: dopo anni passati a parlare di Valhalla, vichinghi e balene, ma che ti inventi? Sulla carta i Týr hanno tutto quello che dovrebbe farmi andare fuori di testa. Sono infatti identificati nel filone (filone?) progressive folk metal. Nei fatti non mi hanno mai detto più di tanto e quest’ultimo corso intrapreso con Valkyrja poi non ha veramente nulla a che spartire con le suddette categorie. Resta più un disco power che altro e neanche malaccio, insomma, però trascurabile. Alcuni momenti nel disco sono piacevoli (tipo l’opener tamarra, il pezzo cantato in lingua madre, Fánar Burtur Brandaljóð bingobongo, e quello che parla di fica, Mare of my Night) mentre in altri è molto difficile trattenere lo sbadiglio. Alla cover di Where Eagles Dare, invece, la palpebra dell’occhio destro ha iniziato a sbattere da sola e a quella di Cemetery Gates ho definitivamente perso il controllo di entrambe. Rispetto al passato (per coloro che ne ricordano gli esordi) sembrano un bel po’ spompati e fuori fuoco, sebbene qui si siano avvalsi delle pelli di quel warhorse di razza che di nome fa George Kollias (Nile), il quale si limita a timbrare il cartellino eseguendo una prestazione ordinaria, nonostante i frequenti e repentini cambi di tempo e la precisione impeccabile che lo contraddistinguono. Peccato perché con un filo in più di personalità avrebbe potuto addirittura ribaltare le sorti del disco. Poi ci sta pure quella bonazza di Liv Kristine, l’indimenticata, dolce, voce di Aégis, il mio disco da lenzuola preferito. Nemmeno il carro di buoi vi servirà a indorare la pillola. Ecco, magari rispetto a questo dibattito sull’uccisione ‘eticamente responsabile’ delle balene delle Fær Øer (Heri Joensen, che pare abbia molto a cuore l’argomento, si raccomanda di usare sempre la lancia spinale con la giusta cautela) potete trovarmi pure d’accordo. È un animale bellissimo, indifeso e sarebbe un peccato farlo soffrire inutilmente, ma io sto ancora aspettando che Giuliano D’Amico se ne scenda a Roma con la bistecca di balena che mi promette ormai da anni. (Charles)
Ok, fine. Tanto lo so che siete arrivati fin qui solo per vedere questo: