My Arm è il lavoro della Accademia degli Artefatti che porta in scena il testo dell’autore contemporaneo Tim Crouch, in cui si uniscono due sue opere “My Arm” e “An oak tree”.La peculiarità degli scritti di Crouch è che i suoi testi non si limitano a dire ma a raccontare una realtà che produce la finzione e, viceversa, una finzione che produce la realtà. S’indaga quindi un nuovo modo di raccontare e un nuovo modo di relazione tra la scena e il pubblico che è introdotto in questa inconsueta modalità sin dall’inizio con l’attore, Matteo Angius, che aspetta seduto tra la platea e inizia a parlare direttamente con lo spettatore.Inizio decisamente “spiazzante” che porta subito a familiarizzare e ad entrare in un ottica diversa di fruizione della scena, dello spettacolo ma soprattutto nell’ascolto della storia in sé.La paradossale vicenda è quella del protagonista che all’età di 10 anni decide, "un po' per noia e un po' per non morire” di compiere un gesto all’apparenza banale, tenere un braccio sopra la testa. Una piccola, insignificante azione che muterà per sempre la sua esistenza e quella delle persone che lo circondano.
“Avevo dieci anni ed ero l’unico bambino che aveva scelto di andare a senso unico”
La storia è raccontata in un excursus di ricordi d’infanzia ed è accompagnata da una colonna sonora rigorosamente dal vivo (alla chitarra e voce Mauro Bracciali) che percorre le tappe dagli anni 70 fino ai 90 con una scaletta di tutto rispetto da Sex Pistols, Duran Duran, The Buggles ecc. donando alla messa in scena tutto il sapore britannico in cui la storia si snoda.Il fatto, per quanto assurdo, potrebbe trarre spunto da una situazione reale, e parla soprattutto dei propri limiti e la voglia di sfidare il proprio corpo. Questa sfida, questo voler sfidare il limite fisico (ma che in automatico sfida anche la forza della mente) porta il protagonista a diventare da “un caso curioso, a un caso clinico fino a un caso artistico”.Infatti il suo braccio diventa un oggetto di studio di artisti e di installazioni contemporanee fino anche dopo la sua morte.E quale canzone migliore se non quella di Mad World di Gary Jules, colonna sonora del film Donnie Darko, poteva accompagnarci alla fine d questa storia.
“Quei nove mesi furono l'inizio della mia vita. Nove mesi giusti, una gestazione e il quadro terminato fu la mia rinascita.”
Momenti divertenti, tragici, ironici e dolorosi si alternano senza strascichi ne sfumature, ma sono raccontati con la naturalezza di questo bravo attore che entra ed esce dalla storia con un modo quasi “stropicciato”, quasi “grunge”, che ci fa sentire i suoi diretti interlocutori.
Il lavoro può essere suddiviso visivamente in tre piani di azione apparenti:la scena concreta che è quella dove troviamo Angius e Bracciali;il piano “secondario” che è lo schermo dietro di loro in cui viene proiettato il video dove il protagonista dialoga con un altro se a grandezza naturale;e il “terzo” piano che è quello creato da un secondo schermo, più piccolo, dove attraverso l’uso di una telecamera si riproduce una sorta di filmino che rappresenta un teatrino ulteriore allestito dal protagonista che mette in scena la sua storia con una serie di oggetti, alcuni chiesti inizialmente al pubblico in prestito, che vengono trasformati di volta in volta in personaggi del racconto.In questo modo, come spiega la compagnia:
“(…) prendendo a prestito dagli spettatori foto, chiavi, accendini che raffigurano luoghi o personaggi cui però non rimandano affatto si ricostruisce un teatro ulteriore, un mondo e un linguaggio ulteriori che raccontano una storia tanto vera e per questo impossibile, manipolando la realtà e mettendola a servizio di una rappresentazione che però non ha nulla da raccontare, se non se stessa”. Niente lieto fine, niente lezioni di vita, ma solo la semplicità di una storia e la sua forza rappresentativa.Se siete curiosi di vedere cosa succede a sfidare i propri limiti, questo è lo spettacolo che fa per voi.