prima stella apparsa stasera,
felice sarò, felice sarei
se tu mi donassi quel che vorrei...
Il bimbo che recita questa poesiola desidera un circo, un circo vero, con leoni, giraffe ed acrobati. Ma il sipario di panni stesi nasconde solo un rimprovero, una mamma che nega l'esistenza del circo e dei sogni che si avverano.
Quel bimbo, che allora era un credulone, si chiamava Bob, Bobby Ivanovich, Jones e trent'anni dopo, quando è semplicemente Robert Jones, sembra non credere più a nulla, ma registra un filmato per il figlio che nascerà. Gli dice che ha un tumore ai reni, già in metastasi polmonare e morirà in breve. Gli raacconta della sua nascita, della sua infanzia e dei suoi parenti di Detroit. Vuole includere delle interviste prodotte da un regista assunto allo scopo: ma, quando vede i filmati, non si riconosce negli altri, in particolare nella loro totale estraneità alla sua vita.
Non esistono formule convenzionali per parlare della vita e della morte, non esistono parole. Ma questo bene che non esiste, come fosse ancora una preghiera, è tutto ciò che Bob ha da lasciare a un figlio che non conosce ancora. My life (1993, tit. it. Questa mia vita) non è neanche un film "d'autore": il regista, Bruce Joel Rubin, è al più uomo di ottimo mestiere. Ma un merito superiore alla mera considerazione professionale gli deve essere accordato: aver scelto un tema così forte e delicato, con un coraggio davvero inusuale e con un successo reale che - nonostante alcuni momenti di faciloneria sentimentalista - supera senz'altro il trionfo al botteghino di Ghost, tre anni prima. Che poi la pellicola si avvalga dell'interpretazione eccezionale del superbo Michael Keaton e, in subordine, di Nicole Kidman, è dono che fa di un'idea toccante un risultato sicuro e difficilmente ripetibile.