La Banca Asiatica per lo Sviluppo ha recentemente dichiarato che il Myanmar potrebbe presto diventare “uno degli astri nascenti asiatici”. Quest’asserzione, ritrovabile nel suo Country Report dell’agosto 2012, è solo l’ultima di una lunga serie di opinioni affini ad istituzioni multilaterali, think tanks accademici e numerose agenzie governative e non, ampiamente condivise a loro volta dai potenziali investitori stranieri. Le camere d’albergo nella capitale commerciale Yangon sono ormai esaurite a causa dell’ingente numero di uomini d’affari ivi presenti, ansiosi di non perdersi l’ascesa di quel Paese che considerano la prossima “tigre asiatica”.
Il Myanmar si è difatti guadagnato un nuovo posto al sole frutto di una serie di riforme promosse dal nuovo Presidente, Thein Sein, sin dalla sua nomina a Capo di un governo, nominalmente civile, nel marzo 2011. Nonostante la maggior parte di queste riforme siano state di natura politica, piuttosto che economica, hanno contribuito a mutare l’opinione internazionale che riteneva il Paese non garante dei diritti umani e a lungo caratterizzato da un’economia intesa come una terra desolata di opportunità ormai perdute. I Governi nazionali in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda hanno così gradualmente sollevato il Myanmar da gravi sanzioni precedentemente imposte al fine di supportare le riforme, spalleggiare gli stessi riformatori e offrire opportunità di business prima negate ai loro stessi concittadini.
Nonostante lo sfolgorio sia positivo, le riforme intraprese nel Paese, oltre ad essere lungi dall’essere portate a termine, sono fragili, contingenti e condizionate dal Presidente Thein Sein e dai suoi Generali, oltre che dal leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi. Non sorprendentemente, il contesto cela le cicatrici di cinque decadi di malgoverno: infrastrutture degradate, corruzione dilagante e sistema clientelare, capacità di governo e di policy limitate, residuali violazioni dei diritti umani e conflitti etnici, un sistema finanziario distorto e una miriade di altri ostacoli che contrastano una fluida transizione. Queste difficoltà, comuni agli scenari di molti Paesi in via di transizione, suggeriscono che le più ottimistiche considerazioni sull’economia del Myanmar dovrebbero essere intese con cautela. Contemporaneamente, le ancora vigenti sanzioni economiche inflitte al Paese continuano a contenere i flussi di investimento altrimenti attesi. Cruciale è il divieto all’importazione voluto dagli Stati Uniti. Imposto per la prima volta nel 2003 tramite il “Decreto sulla democrazia e libertà birmane” (Burmese Freedom and Democracy Act), il 18 luglio 2012 è stato rinnovato per tre anni e potrà essere sospeso da parte del Presidente statunitense solo se certe condizioni saranno soddisfatte. Questa sanzione fa del Myanmar un Paese poco appetibile per gli investitori stranieri del settore manifatturiero a manodopera intensiva, quale il tessile o il vestiario.
La legislazione nazionale con il suo occhio di riguardo per gli investimenti stranieri è una componente chiave e spesso decisiva per l’attrazione e la destinazione dei capitali internazionali. Quest’aspetto è particolarmente importante per un Paese in transizione quale il Myanmar, ove le politiche attuate sono storicamente state restrittive e scomode nei confronti degli investimenti stranieri. La nuova “Legge sugli Investimenti Stranieri” (Foreign Investment Law), in attesa di firma del Presidente Thein Sein, è stata elaborata per far del Myanmar un Paese più allettante agli occhi degli investitori stranieri, garantendo loro il diritto di contratti di affitto prolungato delle terre (sino ad ora lo Stato era l’unico titolare della maggior parte delle terre fertili). Gli investitori d’oltremare potranno godere di profitti quinquennali in forza dell’applicazione della tax holiday, oltre alle tasse concessorie, e saranno tutelati dalla nazionalizzazione dei loro affari (passo necessario se si guarda alla lunga storia del Paese costellata di espropriazioni statali).
Sino a qui, tutto bene. Ma questa nuova Legge non fa che riflettere le continue divisioni interne al Paese. Nello specifico, è stata profondamente influenzata dagli interessi di gruppi amicali, clientelari interni al Paese, che negli anni più recenti hanno raggiunto il controllo e il dominio di settori-chiave dell’economia. Con interessi ramificati quasi ovunque, tali “cari amici” (così definiti dai birmani) temono più di ogni altra cosa la minaccia della competizione straniera. Di conseguenza, nonostante gli aspetti liberali di questa “Legge sugli Investimenti Stranieri”, altre clausole limitano il ruolo degli investitori stranieri in una moltitudine di settori, inclusi il commercio al dettaglio, la lavorazione dei terreni agricoli, la pesca, le industrie leggere e i servizi. Il risultato di questa tensione tra i riformatori liberali e gli attori-beneficiari del passato regime birmano segnerà il destino di questa Legge; oltre a confermare se il Myanmar abbia finalmente intrapreso il percorso di uno sviluppo genuino. Una tigre in agguato, forse, ma non ancora una tigre a tutti gli effetti.
(Traduzione dall’inglese di Barbara Borra)