N. 4 - Paradiso perduto

Creato il 10 febbraio 2011 da Dallenebbiemantovane

4 - The detective himself, or one of the official investigators, should never turn out to be the culprit. This is bald trickery, on a par with offering some one a bright penny for a five-dollar gold piece. It's false pretenses.
(4 - Né il detective né uno degli investigatori ufficiali possono risultare colpevoli. Questo vuol dire giocare sporco; è come offrire a qualcuno una moneta da un centesimo in cambio di cinque dollari d'oro. E' frode bella e buona.)

Bella regola, nel senso che pone allo scrittore autentici dilemmi ontologici, teologici ed etici, oltre che estetici.
Se, infatti, io scrittore decido che nessun investigatore coinvolto nell'intreccio, sarà colpevole, posso farlo per due motivi:
a) sono un precursore o un seguace di van Dine, e, sul campo da gioco, non voglio giocare sporco;
b) sono sinceramente convinto che esista nel mondo, o almeno nel mio universo narrativo, una differenza fenomenologica tra Buoni e Cattivi tale per cui passare dall'uno all'altro campo è impossibile.
La motivazione "a" attiene all'estetica, la "b" all'etica.


Con la "a" rimaniamo nel campo della narratologia pura ma, in ultima analisi, stiamo scrivendo libri per bambini, non abbiamo evidentemente letto Milton e non resta molto da aggiungere.
Per la cronaca, i grandi giallisti classici non si sono mai sognati di violare la regola n. 4, dal che si deduce che giocavano a scacchi con il lettore evitando di addentrarsi in dilemmi morali (del resto la Christie lo dice apertamente anche nella sua autobiografia, La mia vita: aveva orrore dei crimini e dei criminali, mai si sarebbe messa dalla parte di questi ultimi e biasimava i giallisti che "indulgevano" a simili compiacimenti).


Con la "b" entriamo nel campo dell'ontologia (o, quantomeno, della fenomenologia), della teologia e dell'etica.
Partiamo dall'alto, visto che si tratta di un ragionamento a cascata. Se credo in un universo in cui il Principio del Bene è costituzionalmente separato e contrapposto rispetto al Principio del Male, sono un manicheo o, in ambito cristiano-eretico, uno gnostico.
Non sono battute brillanti: è noto come l'inconscio collettivo occidentale, fino alle eresie del XIII secolo, sia stata influenzata dai suddetti movimenti, per cui nulla vieta che uno scrittore ne sia, più o meno inconsciamente, seguace.
Se sono manicheo o gnostico, riterrò fenomenologicamente facile distinguere il bene dal male quando mi si presentano in forme umane, e riterrò impossibile l'esistenza di un angelo caduto come Lucifero. Per inciso, nonostante Milton fosse anglicano, il manicheismo più rozzo e schematico si riscontra a Hollywood (cito un film del 1987, Gli intoccabili, senza un filo d'ironia) e nella narrativa anglosassone, con la notevole eccezione di Patricia Highsmith.
Se sono manicheo o gnostico, infine, rifiuterò a priori, nel mio universo narrativo, la possibile esistenza di un poliziotto corrotto o assassino o comunque non integerrimo, perché introdurrebbe nel mio universo il caos e ne violerebbe le premesse teologiche.
Ne deriva logicamente che, rimanendo negli ambiti della letteratura occidentale, ad avere più probabilità di credere alla mescolanza di Bene e Male nell'universo, sono le culture cattoliche. Difatti lo faceva già, con grande disinvoltura, Dante ficcando papi a testa in giù all'Inferno.
Lo fa anche, magistralmente, Simenon (La neve era sporca, Il presidente), pur non arrivando a violare la famosa regola.
Lo fanno scrittori italiani che hanno magnificamente flirtato con il giallo come Gadda (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) e Sciascia (Todo modo, A ciascuno il suo, Il giorno della civetta). L'uno mostrando le colpe del fascismo mescolarsi alla cattiva conduzione di un'indagine. L'altro evidenziando i problemi della società italiana e l'infiltrazione della mafia in essa. Di qui si arriva anche al Lucarelli de Il giorno del lupo.
Tutti cattolici, volenti o nolenti.
Di conseguenza costoro, in quanto narratori, sono in grado di tollerare, pur soffrendone moralmente, l'ambiguità morale del loro universo, perché ritengono fenomenologicamente impossibile distinguere il bene dal male quando si presentano in forme umane, e ritengono altresì possibile l'esistenza di Lucifero.
Non essendo infine né manichei né gnostici, gli scrittori che partono da questi presupposti non possono rifiutare a priori, nel loro universo narrativo, la possibile esistenza di uno o più poliziotti corrotti o assassini o comunque non integerrimi, la quale, benché introduca nel loro universo il caos, non ne viola le premesse teologiche e trascina a forza la narrativa gialla dal tè delle cinque, tipico del giallo classico (limpido e profumato), al fango immondo del noir (torbido e maleodorante).

Sono solo gli europei, i mediterranei, a operare questa scelta? Non direi.
È vero che i francesi contemporanei, da Manchette a Izzo, vanno alla grande, ma anche l'hard boiled americano anni '40 era già molto esplicito nello stigmatizzare limiti e vizietti delle forze dell'ordine (non a caso l'unico "puro di cuore" era sempre il detective privato, e Marlowe, se vi ricordate, era stato, dice lui, fired for insubordination).
Fino al culmine di questi scavi nel putrido, che avviene naturalmente con James Ellroy.
In Dalia nera e, ancor più, in L.A. Confidential nessuno è del tutto innocente: nella sua polizia vediamo le gesta di corrotti, corruttori, violenti, razzisti, violentatori, profittatori di prostitute, drogati e chi più ne ha ne metta.
Ellroy si è documentato e non si fa più alcuna illusione sulla purezza di cuore di chi investiga, né tantomeno sul disinteresse che spinge un poliziotto a farsi assegnare o a rifiutare, o (ai livelli più alti) a insabbiare un caso. Ellroy fa per Los Angeles quello che Sciascia fa per la Sicilia: demistifica. E la cosa grandiosa è che, facendolo, rende indimenticabili i suoi personaggi, le sue atmosfere e le sue storie.
Qualcuno potrebbe obiettare che, nella sua trilogia dell'ispettore Lloyd Hopkins (Los Angeles nera), c'è un poliziotto privo di difetti se non una certa impulsività, e non certo assegnabile al campo dei colpevoli. Obietterei, a mia volta, che quelli sono i suoi romanzi meno incisivi, e che peccano di un superomismo romantico e caricaturale (è sexy solo lui, è geniale solo lui, risolve i casi solo lui...) di cui non si sentiva il bisogno.


La linea Gadda-Sciascia-Ellroy appare la più onesta intellettualmente, partendo da un'osservazione realistica di una determinata società e traendone le conseguenze. È la linea che va dritta al cinema, da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (Italia 1970, Oscar al miglior film straniero, con un indimenticabile Gian Maria Volonté) a Il cattivo tenente (USA 1992).


Un altro filone
, diffuso negli Usa ma non solo, parte dal rassicurante presupposto che il criminale non sia un deviante etico ma un deviante psicopatologico (non responsabile delle sue azioni e non giudicabile, quindi). Ne discende che, se un investigatore ha commesso un crimine, è anch'egli malato e non giudicabile. Scelgono questa linea anche due donne, la Vargas di Nei boschi eterni e Sotto i venti di Nettuno e, pur denunciando il braccio violento e razzista della legge, la Moore dell'ottimo Dentro.
Si noti che la Vargas ha la finezza di non scegliere mai come colpevole un banale poliziotto, ma membri, o ex membri, dell'apparato giudiziario che non sono comunque estranei all'indagine in corso, o che risultano colpevoli fin dall'inizio: in un caso non viola fino in fondo la quarta Regola, nell'altro gioca ironicamente a carte scoperte con il lettore, focalizzando il romanzo su altre tematiche.


Intendiamoci, la mia insoddisfazione nei confronti di queste scelte pro-psicopatologia è più estetica che etica; già mi trucchi le carte, già mi riveli che il criminale è uno di coloro che dovrebbero trovare i criminali, poi mi fai capire che è un povero malato di mente... un po' ci resto male.
Ma vabbe', va', come direbbe Vincenzo Malinconico.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :