Il team (produzione, realizzazione, regia) che gravita attorno al gruppo della Tōkai TV prosegue il suo percorso nel mondo del documentario, viaggio che negli ultimi anni ha dato alla luce gli interessanti Heisei jirema, Aozora dorobō e Shikei bengōnin, con un nuovo film, Nagaragawa dokonjō. Anche questo lavoro, come i precedenti, focalizzandosi su un determinato accadimento legato al territorio, riesce ad indagare la parte oscura di quel processo di industrializzazione e di sviluppo economico che ha portato il Giappone del dopoguerra a diventare, nel bene e nel male, il paese che è oggi.
Negli anni sessanta, periodo in cui lo stato nipponico re-impostava se stesso economicamente e sul piano globale anche attraverso la costruzione di enormi infrastrutture (ricordiamo come la volontà di costruire le prime centrali nucleari risalga proprio a quegli anni), nella regione del Tōkai si decideva di costruire un enorme chiusa alla foce del fiume Nagaragawa nella prefettura di Mie. Questa zona in realtà rappresenta il finale confluire di tre fiumi, Kisogawa, Ibigawa e appunto Nagaragawa、tre bacini idrici che hanno un`importanza fondamentale per l`ecosistema (sia antropologico che animale) della prefetture di Gifu, Aichi e Mie. La costruzione della chiusa sembrava seguire quella sorda volontà, mentalità ancora in atto in gran parte dell`archipelago nipponico, per cui costruire facendo muovere grandi flussi di capitale con costruzioni anche inutili, fosse l`unica fonte di arricchimento e di ricchezza per un paese che voleva mostrare al mondo la sua faccia “moderna”. I lavori della chiusa iniziano nel 1971, anche se in un primo momento le proteste popolari, soprattutto dei pescatori, si fanno molto pressanti, un esempio tristemente lampante di un percorso che caratterizza quasi tutte queste “strutture” volute dall`alto durante gli ultimi quarant`anni in Giappone. Se in un primo momento, anche grazie alla “moda” della protesta in piazza, sembra che il sentimento di opposizione possa aver ragione, dalla seconda metà degli anni settanta per proseguire negli ottanta, sostenuti e implementati dall`afflusso di capitali, le comodità ed i vantaggi portati dale nuove strutture (soprattutto in termini di subitaneo benessere) distruggono e macinano tutti i discorsi idealistici e di forte opposizione. E` vero in questo caso specifico come per l`industria nucleare, per il forzato spopolamento delle campagne e naturalmente per le grandi opere (autostrade, complessi industriali) che ancora oggi tagliano brutalmente il paesaggio nipponico.
Nel documentario, grazie anche all`alternarsi di immagini di repertorio, questo processo viene portato alla luce e smascherato abbastanza drasticamente. Quando agli inizi degli anni settanta erano migliaia le persone che protestavano contro la costruzione della chiusa, dopo pochi anni rimaneva soltanto il pescatore Akita (oggi settantenne), il vero protagonista del film, a opporsi alla diga. Struttura che vede il suo completamento e l`inizio delle sue funzioni solo nel biennio 1994-95. Proprio attraverso i ricordi dell`uomo, pescatore e ora anche presidente dell`unione dei pescatori, ripercorriamo le tappe della storia della chiusa e dei disastri che ha portato. Ecosistema ittico distrutto con ricadute pesanti su un'economia che fino a 4-5 decenni fa si basava sulla raccolta di molluschi, ma anche la pesca di acqua dolce è stata praticamente annientata fino a dieci chilometri dalla chiusa dove sono praticamente sparite le trote ed altri tipi di pesci. Tutto questo per la costruzione di una diga la cui funzione era quella di regolare il flusso di acqua salata nel fiume, utile secondo il parere degli accademici interpellati al tempo e probabilmente stipendiati dalle stesse compagnie appaltatrici, ma di fatto un`opera i cui meriti (presenti indubbiamente) e costi non sono assolutamente bilanciati con l`enorme dispendio di denaro e gli “effetti secondari” che la zona ha dovuto subire. Cosa che fra l`altro è stata provata da una commissione che ha deciso nel 2011 di aprire le chiuse e di ristabilire i flussi originari delle acque. Una storia purtroppo come recentemente se ne sentono sempre più spesso, non che le opere e la moderna tecnica applicata al territorio non servano, anzi, ciò che questo documentario ci presenta è un sistema decisionale dall`alto, verticale, che non ha nessuna visione olistica ed ecologica, intesa qui nel suo senso ampio, non solo come mera conservazione.
Da un punto di prettamente stilistico, il documentario è di impianto tradizionale, verrebbe da dire televisivo (da intendere qui nel suo senso migliore), non c`è cioè una particolare ricerca formale che provi a mettere in discussione o ad inventare un nuovo modo di interpretare il genere. Ciononostante, le immagini sembrano qui più curate che nei precedenti lavori, soprattutto per quanto riguarda le scene di descrizione dell`ambiente fluviale, il nocciolo centrale del film. Come negli altri documentari targati Tōkai TV c`è un uso magistrale del materiale d`epoca (televisione, fotografie) che dona all`opera un respiro ampio e criticamente storico che è la caratteristica migliore e che più identifica l`approccio di questo gruppo di lavoro.[Matteo Boscarol]