Napolitano e l’antico vizio della supplica al sovrano

Creato il 21 febbraio 2012 da Yellowflate @yellowflate

La due giorni di Giorgio Napolitano in Sardegna sta risvegliando, mi pare, un antico vizio, tipico della storia moderna e contemporanea dei sardi: la supplica al sovrano. Pagine intere dei due quotidiani maggiori elencano “le richieste” dei sardi al presidente; l’intera questione sarda, nei suoi termini tradizionali e attuali, sembra riversarsi alla rinfusa sulle spalle dell’ospite illustre. Come ai tempi dei re spagnoli o piuttosto dei loro rappresentanti istituzionali; come all’epoca dei Savoia e dei loro prefetti; come sempre nelle visite precedenti dei presidenti della Repubblica italiana. Fu così ai tempi degli stamenti, e ancora dopo la fusione perfetta del 1847, e quando la prima guerra mondiale vide cadere la migliore gioventù di Sardegna e i reduci, organizzati in associazione e poi in partito politico (il Partito sardo d’azione) posero con forza il tema dei  crediti di sangue maturati verso l’Italia matrigna. La Rinascita stessa, pure in termini moderni, si pose come compensazione, attraverso una legislazione speciale autonomistica, delle ingiustizie patite dalla Sardegna contenporanea.

Sappiamo già cosa ci dirà Napolitano. Ascolterà, prenderà nota, assicurerà. Vecchio esponente del meridionalismo, comprenderà – pensiamo – le nostre ragioni. E persino le condividerà. Ma – mi domando – dove porta alla fine questa rivendicazione dei torti subìti? Questa richiesta di attenzioni speciali da parte dello Stato? Porta poco lontano, anzi si esaurisce in sé stessa.

Questa volta la “visita sovrana” (non si offenderà Giorgio Napolitano se la chiamiamo così) cade in un momento drammatico non solo per noi ma per l’Italia intera, e per l’Europa, e per l’Occidente stesso. Un modello di sviluppo, quello affermatosi nella sua stagione d’oro dopo la seconda guerra mondiale, sta esaurendo il suo ciclo vitale. Gli equilibri stessi del mondo sono in rapidissimo movimento. L’asse dello sviluppo, già una volta spostatosi dall’Atlantico al Pacifico, ora va assestandosi nella linea oscillante dei paesi late comers: Cina, India, Corea del Sud, Brasile vantano le performances di crescita più clamorose. La vecchia Europa è fuori gioco, o così sembra. La leadership indiscussa degli Stati Uniti vacilla.

Cambia anche il modello produttivo. Noi in Sardegna viviamo la crisi di quel poco di industria che avevamo (non era neanche tanto poco, negli anni Settanta), e non sappiamo cosa potrebbe sostituirla. Nessuno – diciamola franca – ha una ricetta per il futuro. Nessuno sa cosa saremo non dico nel 2050 ma anche semplicemente tra dieci anni, nel 2022. L’Africa è a portata di mano, ma quale ne sarà lo sviluppo? Intensi flussi di immigrazione si annunciano, forse persino benefici per una regione come la nostra che si avvia a spopolarsi definitivamente, invecchiando precocemente. Ma quale sarà l’evoluzione degli equilibri nel Mediterraneo? E noi, qua in Sardegna, quanto conteremo?

Una classe dirigente locale vecchia per cultura e impostazione di idee, diciamo pure inadeguata, detiene ancora in Sardegna quel po’ di potere che resta: qualche consiglio di amministrazione per elargire gli spiccioli, qualche piccola impresa residua, qualche azienda che tira nel disastro dell’agro-pastorale. Nessuna capacità strategica dell’imprenditoria sarda. Nessuna seria relazione con l’esterno. Innovazione zero, o quasi.

Partiti e sindacati vecchi, immobilizzati nella ripetizione di vecchi automatismi, dilaniati da lotte interne che fuori nessuno capisce. Giovani che se ne vanno (e non le braccia soltanto ma i cervelli, le ragazze e i ragazzi della nostre università, e per sempre). Paesi dell’interno spopolati.

Ecco, in questa situazione di depressione civile e morale, prima ancora che economica, noi accogliamo Napolitano e gli rovesciamo addosso le nostre impellenti richieste. Capisco la disperazione: ci si attacca dove si può. Capisco di meno la passività. Al “fuori” (Napolitano simboleggia il “fuori”, l’eterno “fuori” che nella storia sarda si è sempre contrapposto al “dentro”) possiamo e dobbiamo chiedere, naturalmente, di sostenerci, ma solo a patto di avere prima avviato noi, da “dentro”, la riforma morale e civile che occorre. Ci vogliono idee, entusiasmo, classi dirigenti nuove e propositive; e buona amministrazione nelle istituzioni, buona politica, modelli virtuosi di convivenza nella vita sociale. Non è detto che non ci si riesca, se siamo capaci di uno scatto di reni. Ma dobbiamo farlo noi, quello scatto, e non sperare – come diceva una famosa frase del giornalista Aldo Cesaraccio negli anni Sessanta, a proposito dell’investimento del principe Karim in Costa Smeralda – che l’Aga Khan ce la porti lui, la Rinascita, bell’ e fatta. Non esistevano simili benefattori allora, non esistono oggi, in tempi di spread, di banche mondiali ed europee, di bilanci ridotti all’osso, di globalizzazione selvaggia. Se vogliamo, se siamo capaci, diciamo benvenuto a Giorgio Napolitano com’è nel nostro stile; e assicuriamogli che ce la metteremo tutta.

Guido Melis


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