Narrazioni: voce plurale. Conversazione con Alba Donati.

Creato il 15 gennaio 2011 da Fabry2010
di Nadia Agustoni
(Vajont) Note

Le storie, come la poesia, non bastano. Bisogna che qualcuno le racconti. Alcune storie si tramandano perché divengano coscienza civile e siano qualcosa di più d'un racconto. Una narrazione è più ampia di un racconto: è il sangue di un paese, un guardarsi e riconoscersi in quelle storie, movimenti, gesti e parole; riconoscersi perché se ne riconosce la gente. Una narrazione ha delle radici. Non può essere inventata, deve avere il genio dei luoghi e del tempo. Deve abitare in noi prima che noi la ascoltiamo. In seguito, l'ascolto e l'attenzione, rafforzano le radici e la voce che narra le cose ci porta alla terra e ai corpi, unisce il passato e il presente, interroga il futuro. Un epos riguarda un popolo, non una semplice famiglia o un solo nucleo di persone, e affiora affidandosi alla materia del caso, alla sua precisione che incastra i tasselli uno ad uno, come nessuna invenzione può fare. Un epos chiede, alla voce narrante, di sapere più di quello che racconta, ma lasciarlo un po' segreto, come se la storia dovesse rinnovarsi ogni volta con innesti. Noi ascoltiamo, e il poeta ci commuove a ogni inizio, perché la sua voce è anche la certezza dell'indifendibilità dell'umano, di quell'essere esposti a un naufragio dove sembra scemare il confine tra noi e gli oggetti, tra noi e gli elementi, ma perché si diventi infine ciò che l'umano è potenzialmente.
Se la solitudine e la morte, anche in un canto corale, sono ciò che distingue ognuno e nello stesso tempo sono la vera uguaglianza che ci è data, le voci - tutte le voci - collegano e in questo è il loro significato. Nel collegare - in un tra - si incardina la poesia di Alba Donati.
In tre raccolte, " La repubblica contadina" 1997, "Non in mio nome" 2004 e "Ballata della Repubblica contadina. Dialogo sul contado" 2008 (1) , la poeta originaria di Lucca, ci dà il nucleo di alcune storie che si tramutano da memoria personale a una di nazione. Poesia civile, che mai rinuncia a una parola che sappia costruire oltre la denuncia, quella di Donati è anche poesia che entra nel campo minato del "noi", dove le voci dei morti, uccisi per incuria o per ideologia, si danno in prestito non per domandare esiguo riscatto, ma per renderci il senso della loro forza.
E' così con le poesie di "Portovenere" - autentico poemetto - che narrano di Valerio undici anni, annegato nel 1944 dopo che i tedeschi in ritirata fanno saltare una diga sul Serchio, e ci dicono di Giulia, annegata a cinque anni nell'alluvione che colpì l'Alta Versilia nel 1996. La ripresa di queste poesie, dal primo nucleo uscito nel 1996 in "La repubblica contadina" alla più ampia sezione in "Non in mio nome" 2004, testimonia di come Alba Donati sia stata interrogata da queste vicende e dalle due figure, di Valerio e Giulia, la cui morte si rispecchia in quella di altri bambini condannati dal programma eugenetico messo in atto da Hitler a partire dal 1941.
La morte è ingiusta, ma particolarmente quando non si è nemmeno vissuto.
E' in queste polarità - inizio e fine - troppo ravvicinate, che lo sguardo di Donati coglie dei particolari, minuzie che colpiscono e portano con sé, viene da dire "teneramente", quell'incrinarsi di un intero mondo nella paura dei più piccoli di fronte all' incomprensibile.

"Non in mio nome", include nelle due sezioni finali, poesie sul non facile rapporto di " figlia madre figlia madre figlia ..." e altre su personaggi e persone che l'autrice rievoca. Qui è più gridato il "no" del poeta all'esistente. Alba Donati prende forza dal mondo femminile del "Contado", questo si nota in tutta la sua opera, e lascia che questa forza tracimi per tutti coloro che sono stati esclusi dalla vita. Significativo che in alcuni versi dica: " Per tutti quelli qui non nominati/ è mia grandissima colpa". E sembra credere più alla politica che alla poesia.
Certo apprezzerebbe il libro di Tina Merlin sulla tragedia del Vajont: " Sulla pelle viva" (2), con la sua concretezza e l'asciutto esporre i fatti in una denuncia che raccoglie anche l'afflato autentico di una lunga resistenza. E' questa provincia italiana che diventa cifra dell'intero paese e che da luoghi non vicini, come le Apuane e il Vajont, per quel carattere di nazione - intesa come integrità e vicinanza delle sue culture, dialetti e lingua - che molti nell'epoca attuale disconoscono, sbagliando, ci dà una mappa dell'anima o se preferiamo un fotogramma d'insieme prima che i tempi svoltando di nuovo cancellino anche i resti di un mondo che è stato sacrificato alla logica dei mercati, dello spettacolo e di un fare solo cose facili: sempre le peggiori.
Non stupisce il decalogo di letture che Alba Donati ci dà alla fine di "Non in mio nome".
Noi possiamo ricomporlo o arricchirlo con altri nomi, farlo nostro come una biblioteca tascabile, da ricordare e conservare per tempi dove i libri sembrano essere di troppo, come le persone che dicono no, come le bambine che non nascono più perché bambine, come gli alberi che non smettono di crescere, come gli operai che sono fuori dai cancelli, come le voci di qualcuno che dobbiamo diventare.

1 - Alba Donati, La repubblica contadina, City Lights Italia 1997.
Non in mio nome, Marietti 2004.
Ballata della repubblica contadina. Dialogo sul contado, Lietocolle 2008

Conversazione. 1 - Alba Donati, fin da "La repubblica contadina" uscito nel 1997, lei lavora sulla memoria, sulle radici, sui nomi di chi non deve essere dimenticato perché già dimenticato dalla storia. Lavora su temi forti, che molti hanno a cuore. Poesia e memoria dunque, che sembrano mancare ogni giorno di più l'una e l'altra. Si, in effetti la memoria stessa era il cuore del mio primo libro. Credo che prevalesse in me la sensazione di perdita del passato. La fine del secolo scorso ha dato altre priorità all'esistente, tutto si è trasformato. E' iniziato, con l'era dei telefonini e di internet, l'eterno presente. La sensazione di essere ovunque, di poter fare quasi tutto, la cancellazione dell'attesa. L'attesa di una telefonata, di una lettera, l'arrivo poi della lettera, il passaggio di mano del postino, tutto faceva parte di un mondo dove il prima e il dopo erano tempi ben separati. Poi si è diventati sempre presenti, sempre disponibili, sempre trovabili e raggiungibili. Questa sensazione acuiva in me la paura di perdere i contatti con un tempo diverso. E volevo, di quel tempo, farmi memoria. Di quel tempo, di quelle persone, di quella geografia e di quella storia. 2 - Il dettato di alcune delle poesie di questo suo primo libro è, specie in certi momenti, una dichiarazione - commovente per come avviene - di etica della civiltà. C'è un richiamo al meglio della nazione, un riaffermare la speranza nel bene comune, che è stata il senso delle lotte di alcune generazioni. Penso ai versi in cui dice: " Hai mandato me in questo paese/ dove le rondini non girano e non tornano/ hai mandato me in questo civile cielo e stellato:/ qui fonderemo la repubblica dei contadini/ dove ogni vecchio avrà la sua cena./" Il cielo civile era il mondo del progresso. Era il cielo dell'evoluzione tecnologica e antropologica. Un cielo a volte cupo. Io ho sentito proprio la necessità di farmi tramite, rispetto alla generazione di mio padre e di mia madre - una generazione toccata in maniera tragica dalla grande guerra. Tramite di cosa? Volevo prendere il testimone e passarlo avanti, far sentire loro che il loro passato, il loro dolore, ma anche le loro speranze, avevano un futuro, avrebbero avuto qualcuno che se le sarebbe tenute nel cuore, e le avrebbe protette, per sempre. 3 - Ne "La Ballata della repubblica contadina. Dialogo sul contado" lei ripropone un nucleo del suo originario lavoro di scavo nei ricordi. A questi ricordi, già appartenenti al libro del 1997, ha dato dei nomi, nominando la gente, quello che hanno e non hanno fatto, evocando la loro presenza (anche muta) con forza. Ho avuto l'impressione, leggendolo più volte, di stare in una trincea dove tutto era accaduto e dove restava, viva, la presenza. Cosa ha voluto restituire a questi nomi? I nomi sono tutto. I nomi come i luoghi hanno un'anima. Quell'anima abita un tempo. Quando il tempo finisce che succede? Credo che quella litania di nomi sia come una preghiera, o un mantra se si vuole, che tiene lontano la morte, la cancellazione. I nomi erano davvero i nomi degli abitanti del mio paese, dove sono nata, in Garfagnana. Di ognuno di loro ricordavo un gesto. Ma è sbagliato dire 'ricordavo': quando ho scritto 'La ballata della repubblica contadina (che è il nucleo originario de La repubblica contadina) sono finita in un vortice dove i volti si susseguivano uno dopo l'altro, come portoni che si aprivano e volti che comparivano, senza troppo uso della mia volontà. 4 - Nella sua poesia lei dà voce anche, molte volte, alle donne. La madre, la figlia... voci e presenze molto lontane dal conformismo e se permette anche dall'anticonformismo. E' come se volesse dare risalto a una cosa cui oggi si bada poco: il valore insito nella fatica delle donne e del diventare donne. Quel diventare che non è cosa semplice e richiede invece un'accettazione disperata e che investe ogni sfera, dal privato al pubblico, fino a fare i conti con la morte, la perdita di un marito, i lutti di un paese in guerra. 5 - Valerio e Giulia, i due bambini di tante sue poesie. Entrambi morti per acqua e non morte casuale, ma dovuta alla guerra e all'incuria degli uomini. Le loro voci dentro di lei, cosa sono? Come le trova? Può provare a dirci qualcosa? 6 - Questa orazione civile che lei ha scritto per questi bambini, per questa morte, mi ricorda la tragedia del Vajont narrata da Marco Paolini. Accosto questi due momenti e il bellissimo libro sul Vajont di Tina Merlin: " Sulla pelle viva". Certo, ci sono stata e ho scritto una poesia. Ancora morte per acqua, interruzioni di gesti semplici. 7 - A un certo punto lei scrive, sempre nel suo primo libro: " Non vi amo, poeti, sono politica/ e forse morirò sporca di sangue!/" Ma la politica non ci ha tradito di più della poesia? No, la politica non ci ha tradito, sono gli italiani ad aver tradito il loro passato. Siamo noi a non funzionare, ad amare i valori 'forti' ovvero dei più forti, ad amare la furbizia, l'inganno, l'apparenza. Non sappiamo più far valere la ragione. La ragione è perdente. La poesia alludeva a quei poeti che non si sporcano le mani ma amano giocare con la penna, con la sintassi. Io credo ancora che nella poesia ci sia una resistenza a tutto questo. Ricordo Pasternak : 'esser rinomati non è bello/ non è bello (...) è vergognoso, non contando nulla, essere favola sulla bocca di tutti'
8 - Nella sua poesia è presente la fede o più ancora un senso del sacro.
Un lungo discorso che potrebbe partire da Pascoli e passare per Etty Hillesum. Il sacro è non perdere mai la speranza. Non perderla mentre vedi un bambino massacrato insieme ai suoi compagni di scuola da terroristi e forze del neo- KGB congiuntamente. Il sacro, a volte, è la felicità stretta tra i denti, la felicità fragile, deperibile, eppure che ti muove il cuore. 9 - In " Non in mio nome", nella seconda parte del libro, ci sono poesie sulla tragedia nascosta dei bambini che la politica eugenetica di Hitler condannò a morte.
Lo sa che dal 1934 al 1975 un programma eugenetico fu messo in atto in Svezia?(1) e (2)
Pensava a fatti simili quando scriveva: " perché il benessere non è il bene/ ma la sua ferita/ [...]/"
Certo. Due atti criminosi davvero incredibili. Il benessere è la parola del boom economico, fu la parola del futuro, del progresso. Ma, io credo, tradì se stessa nel momento in cui comparve. Il benessere era tutto materiale, lavatrici, tv, macchine, e il bene? Si è perso per strada. Sarebbe stato meglio realizzare il bene invece del benessere. Salvaguardare l'essenziale e patteggiare col superfluo. 10 - Quando scrive a sua figlia, lei sembra volerle lasciare un piccolo testamento d'amore.
Di solito, in poesia e in narrativa, siamo più avvezzi a figlie che scrivono alle madri; lettere cariche di troppo non detto, anche di rabbia: comunque parole postume.
C'è troppo dolore ancora tra madri e figlie.
Io mi fermo al testamento d'amore. Mia figlia ha nove anni, per il dolore c'è tempo. Adesso viviamo un tempo di favola che è quella gioia fragile e deperibile di cui parlavo prima. 11 - Come critico letterario e poeta cosa le interessa della poesia italiana contemporanea? Un'altra domanda? A parte gli scherzi mi interessa la poesia, la voce di un poeta quando arriva forte e chiara, non mi interessa il diktat dei critici ancora oggi avanguardisti che decidono cosa deve avere una poesia e cosa non deve avere. Da quella tradizione è derivato un disagio a dire certe parole: ispirazione, consolazione, emozione. Mi interessa Claudio Damiani ad esempio, il suo progetto umanista. 12 - Lei ha scritto anche su quotidiani diffusi, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino... che risposte ha avuto dal pubblico in questo suo parlare di poesia? Ottime, davvero ottime, è stato un bel periodo con tanti riscontri in particolare sulle donne: Dickinson, Szymborska, Cavalli. 13 - Segue i lit-blog di poesia e letteratura in internet? E come vede la poesia in rete? No a dire il vero non la seguo, a volte seguo, involontariamente, discussioni tra poeti su facebook. Ma c'è tanta invidia in giro, tanta violenza. Bisogna davvero trovare i propri amici.

Valerio era un bambino di 11 anni che mentre attraversava un ponte per aiutare gli sfollati a tornare verso le loro case, morì trascinato via dalla corrente del fiume. Era saltata una diga ad opera dei tedeschi. Valerio era mio zio, e quel giorno con lui c'era mio padre che aveva 13 anni. Possiamo immaginarci cosa significasse tornare a casa e dire, io ci sono lui no? Mio padre mi aveva raccontato l'evento un migliaio di volte, ma solo la dinamica, a ripetizione. Ad un certo punto ho sentito che quel dolore dovevo portarlo a compimento: integrare la dinamica con i sentimenti. E Giulia è arrivata in un giugno terribile, portata via da un'alluvione che devastò l'Alta Versilia. Lei fu ritrovata intatta nel golfo di Portovenere dopo una settimana. Io li ho fatti incontrare, laggiù in fondo al Tirreno, nel loro mondo a rovescio. Nella loro vita che poteva essere per noi che viviamo dal dritto, un'indicazione preziosa per non perdersi.


Grazie innanzitutto per 'lontane dal conformismo e dall'anticonformismo'. Se così fosse per me sarebbe un ottimo lavoro.. Le mie donne, dalle nonne alle mamme alle vecchie zie, alla figlia disegnano una linea di matriarcalità nella quale sono vissuta e vivo. Sono, le donne, una linea Maginot di strenua sopravvivenza in un mondo in cui si era solo mogli o figlie. Queste donne della mia vita mi hanno insegnato valori assolutamente intramontabili, come la parsimonia, la cura dell'altro, l'ombra, la tenacia, il sacrificio, il lutto, e anche la gioia, lo spirito positivo, il calore. La loro era un'epoca tragica, segnata da guerre e sparizioni, io, figlia degli agii conquistati con fatica, mi sento un passaggio tra loro e il futuro, un futuro dove mia figlia possa trasportare quei valori, non dimenticarli. Pensi che oggi - lei ha nove anni - ha scritto una lettera alla sua ex maestra con la penna d'oca - è inorridita quando le ho detto che con una mail faceva prima. Io dunque vedo il passaggio: da là, dal passato remoto al futuro. Non so come avvenga ma avviene.

2 - Tina Merlin, Sulla pelle viva, Supplemento a L'Unità 1997

Qui di seguito la conversazione con Alba Donati.



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :