Con queste parole il regista Rupert Wyatt ha presentato al pubblico l’ultimo dei film tratti dal romanzo “La Planète des Singes” di Pierre Boulle pubblicato nel 1963 e da allora ispiratore di ben sei lungometraggi e due serie televisive (di cui una animata).
Occorre sempre fare una premessa in casi del genere, soprattutto in anni come questi in cui le serie, anche e soprattutto cinematografiche, sembrano essere divenute l’unica scialuppa di salvataggio di un transatlantico, quello hollywoodiano, in agonia nel mare d’oro e di stelle da lui un tempo prodotto e solcato.
Era davvero necessario un ennesimo, nuovo capitolo di questa ennesima, rinascente saga?
A doverla dire tutta, dopo il deludentissimo similremake di Tim Burton del 2001 nutrivo più di un pregiudizio nei confronti di quest’opera, e ho cominciato a vederla con null’altro in testa se non l’idea di distrarmi dalle deprimenti cronache quotidiane. Mi sono invece trovato di fronte a un film di genere ben fatto, coinvolgente, abile a giocare con la pesante eredità delle numerose produzioni precedenti, e al tempo stesso capace di muoversi sulla linea di una propria dignità e indipendenza artistico-tematica.
Il genere, per quel che può valere in questi casi la definizione, distopico-fantascientifico vanta predecessori illustri sia letterari che cinematografici, e se a questi si aggiunge l’indigestione di film e romanzi cosiddetti ‘catastrofici’ degli ultimi quarant’anni, “Rise of the Planet of the Apes” (in italiano “L’alba del pianeta delle scimmie”) aveva a prima vista tutte le caratteristiche dell’opera destinata a deludere.
In realtà, malgrado non si possa né si debba gridare al capolavoro – sia ben inteso – il regista britannico Rupert Wyatt colpisce nel segno alla sua seconda prova cinematografica, e riesce con successo là dove altri avrebbero (e in passato hanno) fallito.
Gli ingredienti sono risaputi, e talvolta addirittura prevedibili nella maniera in cui vengono miscelati, eppure resta nella mente dello spettatore a fine visione un senso d’inquietudine e di coinvolgimento, una sorta d’ebrezza combattuta, d’attesa per gli eventi futuri, la consapevolezza, insomma, d’aver assistito a qualcosa capace di parlare e insieme intrattenere (quello che il cinema americano un tempo sapeva fare meglio di chiunque altro) raccontando, e con un’intensità che negli ultimi anni solo “Avatar” ha saputo raggiungere.
Ecco; poche sono le cose che a mio parere deve saper fare una storia (almeno in questi casi), poche e semplici cose che diventano difficili da portare a termine quando alle preoccupazioni stilistico-tematiche o filosofico-esistenziali si aggiunga la necessità di saper intrattenere (ovvero fare botteghino).
Occorre avere senso del reale ed espressione personale, e insieme capacità di suggestione, il tutto con l’obiettivo d’ottenere quell’unità d’effetto a cui Poe tanto teneva e a cui dava tanta importanza nella sua filosofia della composizione, e che sempre meno efficacemente, ahimè, si riesce a trovare in molte delle narrazioni moderne.
“Rise of the Planet of the Apes” rappresenta in questo senso una delle opere più riuscite dell’anno.
Il film azzecca tutte le mosse e non delude, a fronte di una prima parte forse un po’ troppo lenta (ma si tratta pur sempre del capitolo iniziale di una serie, come dichiarato dal regista stesso) semina poi ingredienti, indizi e tematiche con tesa e paziente oculatezza, nella prospettiva della nascita e della presa di potere non solo delle scimmie ma anche di una vera e propria saga (“una mitologia” dice il regista, ma mi pare si stia un po’ esagerando) destinata a restare nelle menti e nell’immaginario delle prossime generazioni.
In un mondo come il nostro in cui ricerca scientifica, accelerazione tecnologica e sperimentazione genetica sollevano sempre più numerose paure e domande a cui si è almeno parzialmente rinunciato a rispondere (pare quasi che la crisi ci abbia aiutato a dimenticare quanto si sta facendo in termini di sviluppo d’armi chimiche, biologiche e batteriologicie nei laboratori militari e non solo di tutto il mondo) “Rise of the Planet of the Apes” funziona per vari motivi. Riattiva campanelli d’allarme, entra nella mente dello spettatore attraverso la porta inoffensiva dell’intrattenimento hollywoodiano, ma lo fa per depositarvi, intatti e narrativamente accattivanti, tutti gli ingredienti che decretarono il successo sia del romanzo di Pierre Boulle, sia della prima realizzazione cinematografica di Franklin J. Scaffner (quella del 1968 con Charlton Heston).
Si assiste alla ‘presa di coscienza’ delle scimmie con un misto di simpatia, di trasporto e di paura, per arrivare a un finale inarrestabile, dal climax prepotente, nel quale diventa addirittura difficile capire per chi si sta veramente parteggiando.
Al contrario di quanto avvenuto con altre famose saghe degli ultimi decenni, infatti, (da “Terminator” ai “Transformer”, da “Guerre Stellari” al “Signore degli anelli”) i temi affrontati da Pierre Boulle nella sua distopia toccano perché attuali, e ‘umani, troppo umani’ nella loro ardita inversione delle logiche evolutive (dalla scimmia all’uomo, dall’uomo alla scimmia) e così fatalmente connessi a quella paura dell’autoannientamento che cova nel cuore della nostra specie dalla notte dei tempi da risultare addirittura realistici nella loro follia. Con chi schierarsi? E perché?
Pochi sanno che già Aldous Huxley nel 1948 aveva affrontato queste tematiche nel romanzo “Ape and Essence”, un’opera profetica d’impressionante modernità, nella quale un mondo sconvolto da un conflitto nucleare, in cui è stato fatto largo uso anche di armi chimiche, è conteso tra scimmie evolute, esseri mutanti, e umani sopravvissuti.
La ‘profezia einsteiniana’ era già stata pronunciata e la Guerra Fredda sarebbe arrivata da lì a poco, ma la genetica e la mappatura del DNA parevano ancora fantascienza.
“Solo con la nozione della propria Essenza un uomo può cessare di essere molte scimmie” diceva Huxley nel suo romanzo.
Oggi la stessa frase potrebbe essere così riformulata:
quanto di umano sarà possibile ricreare domani in una scimmia?
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