L'aneddoto di traduzione di cui parlavo QUI è ora a pag. 76 dell'edizione italiana.
EBRAICO SHOWCATERINA RICCIARDIALIAS della DOMENICA n. 38 del 23/09/2012EBREO-AMERICANO CLASSE 1970, NATHAN ENGLANDER RILEGGE L'EREDITÀ TRAGICA DEL NOVECENTO CON UMOR NERO E DOLORE MORALE: OTTO RACCONTI IN COMMEDIASapiente combinazione di «umorismo» e «dolore» (Philip Roth), «ironia» e «complessità» (Jennifer Egan), «umiltà e sicurezza morale», capaci di unire «una sottile commedia con una tragedia enorme» (Jonathan Franzen), un risultato traboccante di «gemme» e «rivelazioni». Quest'ultimo spezzone di omaggio viene da un altro emergente, Jonathan (Safran Foer), più giovane di sette anni (ma già alla stessa altezza) del correligionario Nathan Englander (classe 1970), così coralmente lodato sulla quarta di copertina del suo terzo libro – tre in tutto e subito tradotti in italiano (1999, 2007, 2012) –, Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank (Einaudi «Supercoralli», pp. 199, € 19,00): otto racconti nella bella traduzione di Silvia Pareschi – la quale gentilmente ci dà in nota il significato dei termini più ostici dello yiddish –, otto racconti «in tema di cose ebraiche» (dice l'autore nei Ringraziamenti), cose che accadono, o che continuano ad accadere, negli Stati Uniti, dove l'ortodosso Englander è nato (a New York), assorbendo «profondamente il sogno americano», e a Gerusalemme, dove ha soggiornato per diversi anni.
Le «cose» di cui si parla sembrano avviluppate sul perno delle possibili letture della Storia e dell'eredità della storia – qui intesa come ‘allegorica' – di Anne Frank (già mascheratamente evocata da Safran Foer in Molto forte, incredibilmente vicino) con le sue altrettanto possibili rivisitazioni. È giusto (sembrerebbe di no) giocare con la storia di Anne Frank come si fa nel racconto che dà il titolo alla raccolta? Ovvero, inscenare un «gioco» sulla generosità del «Gentile Giusto», pronto a rischiare in proprio per la salvezza dei perseguitati? La risposta diventa difficile se quel gioco si trasforma in un test perturbante mirato a capire la verità su se stessi. La simulazione pericolosa riguarda i quattro protagonisti (ma non solo loro), tutti ebrei americani: una coppia, trasferitasi in Israele e convertitasi a un'intransigente e ridicolizzata ortodossia chassidica, e l'altra, laica, radicata negli Stati Uniti, in Florida (dove si nascondeva uno degli attentatori delle Torri), ma ossessionata (la moglie, in particolare) dal primo e da un eventuale secondo Olocausto che l'11 settembre renderebbe plausibile. Dopo la brillantezza caricaturale dell'incontro fra vecchi amici, ormai culturalmente distanti a causa delle sfere geopolitiche (e religiose) in cui agiscono, il sommesso finale, pur lasciando spazio alle aperture della ‘fede, non è consolatorio: forse, sì, in caso di minaccia, i mariti abbandonerebbero le rispettive mogli a un destino atroce. Il titolo – si è insistito molto in America – si rifà a Carver (Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore?), solo che qui, attraverso l'olocausto di Anne Frank, si parla – giocando – della dubbia solidarietà umana (Agapè), senza distinzioni di sorta. Intanto, l'eterno spettro della Shoah, che assume il volto di Anne, è entrato in circolo nel libro, assieme alle verità scoperte da quel gioco pericoloso.
«Sono lusingato e commosso per queste dichiarazioni», ha detto Englander ad Antonio Monda per la Repubblicaa proposito dei blurb dei suoi colleghi – coetanei e di più stagionata generazione: un padre (quale potrebbe essere l'assente Auster) o nonno emerito (Roth) –, e aggiunge di sentire «anche un certo disorientamento che nasce dalla responsabilità». Una preoccupazione comprensibile e condivisibile da parte del cauto recensore posto di fronte agli esordi, o ai passaggi, dei numerosi ultimi «talenti» (come Roth definisce Englander) cresciuti nel vivaio degli Stati Uniti. Il libro che abbiamo fra le mani sembra non deludere le promesse che qualcuno aveva depositato nelle prove precedenti di Englander. È una raccolta coraggiosa, matura nell'uso del tono e del dialogo asciutto, dialettica nell'ironia, spesso farsesca nella tragedia, addirittura irriverentemente fiabesca, come nell'avvio di Le colline sorelle, una microstoria della colonizzazione di un pezzo di terra in Samaria mentre scoppia la guerra del Kippur: una nube di polvere in lontananza turba il giorno dell'Espiazione e «Hanan fece un cenno d'assenso. E insieme ai suoi tre figli si incamminò verso la guerra». Tutt'altro è il tono della scioccante cronaca sul possesso di una figlia da parte di due madri, una cronaca che, da quell'inizio, giunge fino ai nostri giorni riflessa nello specchio sempre fluttuante del territorio sul confine arabo, e della disputa armata sul suo possesso. La figurina femminile ritratta sul punto di abbattere con l'accetta un simbolico ulivo secolare nella copertina quasi ‘fiabesca di questo libro ne è l'indomita protagonista.
Englander è in grado di trattare la Storia, e la condizione umana intrappolata nel dramma storico, con un «black humor» inflessibile, understatementsstranianti e spinosi. A differenza di molti suoi predecessori americani, in lui non c'è un vittimismo compiaciuto, spesso parodiato nel lamento brillante e psicanalizzato sulle sfortune dell'io etnico. C'è una diversa ‘commedia nera, imbastita in costruzioni antifrastiche che si traducono in controluce per far emergere, come in un «Peep show» a luci rosse, le cattive coscienze, le laiche inosservanze, le tenaci ortodossie, le verità del «gioco di Anne Frank», o le trasformazioni grossolane e menzognere di una storia famigliare (Tutto quello che so della mia famiglia dalla parte di mia madre): visioni dal buco della serratura che dalla Storia si trasferiscono nella vita corrente.
La vita è ormai lenita dal sogno americano per un gruppo di vecchi «sopravvissuti» con il numero tatuato sul braccio, ospiti di un campo estivo nel New England, un campo diverso da altri «campi» da loro frequentati nel lontano passato. Tutto sembra scorrere per il meglio, a parte piccoli inconvenienti, i soliti pettegolezzi, e invece eccolo, tutto d'un tratto lo riconoscono, sul loro campo americano, quel nazista del vecchio campo del paese lontano. Nell'effervescente paranoia senile del gruppo minacciato dall'alzheimer non c'è via d'uscita per l'eterno spettro. «È colpa della storia, se certi pensieri orribili vengono fuori». La storia è crudele, ma è ancora più crudele se la si ripete nel presente con una ‘misura per misura e un ‘campo per campo. Sembra non esserci via d'uscita. E non si presentano vie d'uscita neanche a generazioni più recenti in una cittadina di Long Island. Il finale di Come vendicammo i Blum è ribaltante per i ragazzi che si ribellano alla violenza di un «Antisemita»: l'esito vittorioso della clownescamente architettata ritorsione porta loro solo una nuova consapevolezza: la vecchia paura radicata nella memoria atavica («facciamogli vedere cos'è la paura», dice del presunto nazista uno dei villeggianti di Camp Sundown).
È vero, altre fughe, ma di più ambigua lettura, si possono cercare in un bordello per guardoni e palpatori (Peep show), dove il passato abiurato dal protagonista si manifesta nella presenza denudata e comicamente infernale dei mostruosi rabbini della sua yeshiva. Il confronto serve a smascherare i segreti di entrambe le parti. Da guardone Allen si trasforma in guardato (e giudicato), fin nei panni sporchi della sua adolescenza. Ma è il Rabbi che egli intende giudicare a sua volta: «ho abbandonato la mia religione per colpa di quelli come lei» (e per «religione » qui si può intendere anche Storia). Gira le spalle ai suoi maestri e, da riprovevole e osceno oggetto di sguardo, si offre – quasi eucaristicamente, come «oggetto del desiderio» – al contatto delle mani di un sudamericano.