Navicelle bronzee nuragiche
di Pierluigi Montalbano
I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico e perciò è arduo continuare a sostenere che si tratti di lucerne, come ipotizza ancora qualche studioso. Inoltre il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano incapace di navigare, di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini, di scrivere, insomma…di produrre cultura. Ritengo offensivo, nei confronti dell’intelligenza di chi legge, proseguire lungo la strada tracciata in passato da quegli studiosi e invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghe ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide. Inserirò, quindi, prevalentemente immagini prive di commento, lasciando a voi le conclusioni. Bisogna essere ciechi, sordi e in malafede per non “vedere” questi elementi, e auguro quindi, in questa premessa che anticipa una decina di articoli sulle navicelle, un buon proseguimento di lettura delle nostre origini.
Nel II Millennio a.C. la metallurgia fu la scoperta tecnologica caratterizzante, tanto da dare il nome a diverse fasi culturali della preistoria e della protostoria: Età del Rame o Calcolitico, Età del Bronzo e del Ferro.
Della metallurgia interessano diversi aspetti: la ricerca dei minerali, i processi di fusione, il commercio delle materie prime e dei manufatti. A seguito della scoperta dei metalli nacquero nuove professioni come quella del fabbro itinerante.
La civiltà nuragica si sviluppò tra l’Età del Bronzo e gli inizi del I Ferro e ancora oggi ci sorprendiamo nell’ammirare tanto i resti delle più elaborate costruzioni fortificate, i nuraghi, quanto i manufatti che gli artigiani, in particolare i fonditori seppero creare, a cominciare dalle armi e dalle sculture.
La Sardegna fu tra le protagoniste nei tempi della prima metallurgia, grazie soprattutto alle miniere di rame. Questo minerale, dopo l’ossidiana, ha interessato i commerci in tutto il Mediterraneo. Un’ altra isola diede impulso ai commerci dell’epoca, Cipro; la stessa terra del rame insieme a Creta e, nell’Occidente alla Sardegna, costituiva l’asse portante dei commerci navali nel Mediterraneo.
Tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo cercavano di scambiare i propri prodotti con le materie prime ricavate dalle miniere, dato che i minerali erano di difficile reperibilità come, ad esempio, lo stagno. Per ottenere un bronzo di qualità si aggiungeva al rame una percentuale di stagno del 10% circa. Giacimenti interessanti si trovavano in Cornovaglia, Bretagna e Spagna, lontani dalle miniere di rame.
Una delle vie commerciali di tale minerale, la cosiddetta “via dello stagno”, transitava attraverso lo stretto di Gibilterra. Una valida alternativa era offerta via terra partendo dalla Liguria, attraverso i territori di Francia e Spagna. Lungo queste vie sorsero approdi e centri di scambio che incrementarono la ricchezza delle popolazioni produttrici di tali risorse.
Il mare era sostanzialmente un’autostrada commerciale e la Sardegna non poteva essere estranea e tagliata fuori nel II Millennio a.C. quando ospitò oltre 8.000 nuraghi distribuiti a controllare ogni palmo del territorio. I nuraghi complessi, i grandi castelli dell’isola con le loro guarnigioni di guerrieri, necessariamente sono in rapporto con la disponibilità di notevoli risorse economiche e la circolazione di considerevoli quantità di metallo, come peraltro confermano i frequenti ritrovamenti di lingotti in rame. Ma finché furono costruiti i nuraghi tra il XVI e il X a.C, le rappresentazioni della divinità in epifania antropomorfa o zoomorfa sono essenzialmente aniconiche (betili, disegni schematici della testa taurina).
Intorno al X a.C. dopo 600 anni si assiste ad un epocale cambio strutturale nella società protosarda. Dalla devastazione sistematica dei nuraghi e dalla cacciata dei Re Tespiadi”, cioè dei capi che risiedevano nei castelli, nei dintorni di Cuma, sorgono i governi aristocratici degli anziani. I nuraghi non vengono più costruiti e quelli più importanti sono trasformati in luoghi di culto.
Allora le espressioni figurative cambiano profondamente e appaiono le rappresentazioni a tutto tondo antropomorfe e zoomorfe, soprattutto in bronzo, ma anche in pietra e terracotta. La nuova classe dirigente consacra il loro status di leaders della comunità attraverso le piccole sculture bronzee che rappresentavano dei ed eroi da cui essi discendevano e avevano ricevuto il potere.
Erano realizzate con il metodo della cera persa, a dimostrazione che i nuragici padroneggiavano la metallurgia già da molto tempo. Queste opere d’arte mostrano guerrieri, sacerdoti e capi, ma anche immagini d’animali a tutto tondo.
In questo lavoro l’attenzione è però rivolta ad altre sculture di pregio in bronzo: le incantevoli navicelle. Sul significato di questi manufatti ancora oggi non c’è un’interpretazione univoca da parte degli archeologi. Si è pensato alla funzione votiva, a quella pratica di lucerna e di prezioso oggetto di scambio fra i capi delle società aristocratiche anche al di fuori dell’isola.
Va detto che una funzione non esclude affatto le altre, ma certo il fatto che tali navicelle fossero di bronzo e non in semplice terracotta dimostra la loro pertinenza a famiglie o a gruppi che volevano ostentare il proprio status aristocratico e la non comuni disponibilità economica.
Attraverso questi preziosi bronzi, ad un tempo l’aristocrazia fa emergere anche la conoscenza del mare e delle tecniche di navigazione, e soprattutto la tessitura di rapporti con altre regioni (Etruria, Magna Grecia) e popoli (Etruschi e Greci) che si affacciavano nel Mediterraneo.
Negli scafi sono raffigurati numerosi animali e altri simboli che marcano il dominio sui prodotti della terra oltre che il legame con le antiche forze della natura che essi rappresentano.
Le navicelle sono certamente riproduzioni di barche dell’epoca e possono essere classificate in base alla forma dello scafo; questo può essere cuoriforme, ellittico come le capienti navi da trasporto o a sezione trapezoidale come le veloci navi da guerra dell’epoca.
Tutte le riproduzioni in bronzo, come le navi nella realtà, mostrano una protome prodiera di un animale che simboleggia l’epifania della divinità che protegge la barca e l’equipaggio. A differenza delle navi fenicie che propongono la testa equina, in Sardegna primeggia la testa del bue che, sul piano simbolico, rappresenta l’animale più importante fin dal Neolitico finale, quando fu raffigurato nelle domus de janas. Oltre la metà delle barchette è infatti caratterizzata dalla protome bovina.
Gli altri animali più frequentemente rappresentati sono il cervo, il muflone, l’ariete, il caprone. Nella corrispondente produzione in terracotta scoperta nel tempio-nuraghe di Su Mulinu a Villanovafranca dal prof. Ugas, compaiono anche esemplari di navicelle con protome ornitomorfa.
I singoli elementi costruttivi fanno emergere la dimestichezza dei sardi nuragici con il mare: alberi, modanature laterali, coffe di avvistamento, battagliole, barre di rinforzo e scalmi. La presenza sia di anelli per la sospensione, sia peducci alla base per poggiare gli oggetti su un piano, dimostrano l’utilizzo della navicella quale lucerna.
Più incerta è l’interpretazione delle colombelle che si possono ammirare sopra gli alberi. Per alcuni studiosi si tratterebbe della rappresentazione di veri animali che venivano imbarcati per individuare la rotta da seguire, vista la loro capacità di dirigersi verso terra se vengono liberati. Altri archeologi ipotizzano la funzione simbolica: quella della Dea femminile della fertilità, protettrice della navigazione.
Le navi dell’epoca possono classificarsi da guerra o da carico: La forma stretta e lunga delle prime serve ad ospitare il maggior numero di rematori possibile e a raggiungere una grande velocità nel caso di attacco; la sagoma larga e corta delle imbarcazioni da carico è idonea per aumentare la capienza.
Le navicelle sono diffuse in tutto il territorio dell’isola. Oggi se ne contano quasi 150 e una dozzina sono state rinvenute anche nella penisola, prevalentemente in Toscana e nel Lazio.
La cronologia è ancora al vaglio degli studiosi; secondo alcuni (Lo Schiavo) le barchette sarde risalirebbero almeno al secolo XI a.C. Altri (Lilliu, Ugas) invece ritengono, sulla base delle stratigrafie e dei contesti che non siano anteriori al X, inizi del IX a.C.
La produzione durò almeno fino al VI a.C. e ancora oggi questi preziosi oggetti sono copiati per la loro originalità e bellezza. Diversi esemplari fanno parte di collezioni svizzere, tedesche e statunitensi e ciò dimostra indirettamente la straordinaria rilevanza anche estetica di queste opere, che talora appaiono come veri e propri capolavori.
Nell'immagine la navicella n° 7 del mio libro "Le navicelle bronzee nuragiche". Foto di Sara Montalbano
Nell'immagine sotto la copertina del mio libro "SHRDN, Signori del mare e del metallo".