Eravamo trentasette in primo e arrivammo in quinto in ventinove, con qualche aggiunta. Perdemmo per strada, quindi, molti compagni, e in qualche caso la perdita fu dolorosa. Daniele Cappa, per esempio, era probabilmente il mio migliore amico sin dalle medie, e quando lasciò il liceo alla fine del primo perdemmo i contatti. Sono anni che non ne ho notizie.
E’ faticoso scrivere del periodo del liceo e del tempo trascorso con la mia classe perché significa parlare del periodo probabilmente più bello e interessante della mia giovinezza. Ho incontrato gente fantastica, ho allacciato amicizie che, nonostante i tanti anni passati e la distanza che mi separa da alcuni di loro, sono ancora vive e pulsanti. Rimane difficile racchiudere in un capitolo tutto quello che quel periodo ha rappresentato per me, per cui ne parlerò utilizzando dei sotto-capitoli, ognuno per una persona che mi è rimasta nel cuore. Comincio con
Carlo Prosperi
Carlo non era il primo della classe. Il primo della classe era Laura Molini, splendida studentessa, magnifica combinazione di metodo e intelligenza. Carlo, invece, era il genio della classe, uno che studiava pochissimo ed otteneva il massimo, inarrivabile in qualsiasi campo e materia eppure mai antipatico, sempre disponibile all’aiuto e allo scherzo, sempre infilato in qualsiasi guaio volevamo combinare. Era talmente bravo, diligente ed affidabile (evidentemente i professori lo conoscevano in tantino meno di noi compagni di scuola) che a lui era stata affidato il compito di suonare la campanella che segnava la fine e l’inizio di ogni ora di lezione, ragion per cui Carlo, ogni fine ora, si alzava, usciva e andava nel corridoio centrale con la chiave dell’interruttore della campanella elettrica in mano. E noi, che magari eravamo moribondi per il tedio di una lezione di Goretta (prof di italiano) o terrorizzati dal rischio interrogazione di Don Mario (matematica), avevamo sempre l’occhio puntato su di lui perché il suo alzarsi significava la fine dell’incubo.
Sono stato suo compagno di scuola per due anni, in terzo e in quarto. Formavamo un quartetto formidabile: davanti Cherchi e Quarchioni e dietro io e Carlo. Fu il periodo del famigerato “diario di Cherchi”. Non so chi avesse iniziato, fatto sta che utilizzavamo il diario di Enrico per scrivere le battute più demenziali che ci venivano in testa e poi passarcelo. A parte il fatto che ci sbellicavamo dal ridere per battute che spesse volte avrebbero fatto ridere solo noi, il diario di Cherchi era diventato una specie di Bibbia delle demenzialità, famoso in tutta la scuola, distribuito con estrema parsimonia e custodito come una reliquia. E’ purtroppo andato perduto. Eravamo talmente idioti che ci salutavamo dicendoci a vicenda “dementeeee”. L’idillio fu interrotto quando i professori decisero di porre fine al rumorio infinito proveniente dalla terza e quarta fila di banchi della fila alla sinistra della cattedra. Finii i miei giorni liceali al fianco di Giuliano Ferranti.
Per i compiti in classe in generale venivamo spostati nell’aula studio, un’ aula grandissimo dove i semiconvittori e i convittori studiavano e facevano i compiti nel pomeriggio. Ce n’erano due: una al nostro piano e una al piano di sopra. Per il compito in classe di latino eravamo soliti usare l’aula del nostro piano. Questa aveva l’ingresso principale sul corridoio centrale, dalla parte delle medie, ma aveva anche una porticina che si apriva sul corridoio delle aule dove c’era anche la nostra. Quella porta era chiusa a chiave. Quella porta fece sì che, dal terzo in poi smisi di studiare latino. Ecco il sistema: Carlo era velocissimo nel fare le versioni, con mezz’ora al massimo traduceva Seneca e Plinio il Vecchio, Cesare nemmeno lo vedeva. La seconda mezz’ora la occupava a copiare la brutta copia su un altro foglietto. Poi veniva il tempo di andare a suonare la campanella. Il banco vicino alla porticina che dava sul corridoio delle aule del liceo era mio, fisso, guai a chi lo toccava pena la morte. Carlo usciva, sgusciava velocemente nel corridoio del liceo ed infilava il foglietto con la copia della versione sotto la porta. Poi andava tranquillo a suonare la campanella. Io facevo cadere la classica penna, raccoglievo il foglietto, copiavo avendo cura di aggiungere qualche errore di proposito altrimenti il buon Don Nicolini avrebbe potuto mangiare la foglia, distruggevo il foglio di Carlo e consegnavo la mia versione da otto. Spesso la passavo anche agli altri, trascrivendola prima e modificandola ulteriormente (non si sa mai). Una volta Paolo Tramannoni passò il mio foglietto, dopo averlo copiato, a Roberto Bruni. Almeno tentò…ma lanciò il foglio appallottolato talmente in alto che andò a sbattere col soffitto e ricadde creando un subbuglio totale. Fortuna volle che Nicolini notò il trambusto ma non il foglio. Paolo Tramannoni non ebbe più la mia versione.
Carlo era un ragazzo calmo e tranquillo prima di avere me per compagno di banco. Ascoltava rock progressivo e adorava i Dire Straits. Il suo abbigliamento era quanto di più formale si possa immaginare per uno studente. Dopo quindici giorni che eravamo compagni di banco iniziò a vestirsi con borchie e catene, ascoltava solo heavy metal e mi regalò l’ultimo disco dei Dire Straits che aveva comprato, Brothers in arms, tanto non gli interessava più: avevo creato un mostro.
- continua -