Facciamo un attimo di storia: Negru, insieme a Hupogrammos (per comodità useremo solo i loro nomi di battaglia), diede vita a questo ‘progetto’ di folk black metal (a onor del vero ben poco folk all’inizio) nel lontano 1996; nel ’98, ai tempi dell’EP Sala Molksa, si aggiunse un’altra chitarra e voce, quella di Sol Faur. I primi anni, però, non sono molto significativi. Le cose iniziano a diventare davvero interessanti con Om, il quarto full-length (nel frattempo sono passati dieci anni dagli esordi), album in cui il trio, che si è avvalso più volte di turnisti ed esperti di musiche tradizionali (con sempre maggior frequenza e peso ogni volta che il suono si tingeva di folk), dimostra di aver raggiunto un livello di affiatamento che non si era ancora visto e che non si vedrà più con questa formazione. Il lavoro successivo, Măiestrit, essendo una reintrerpretazione del secondo album, non riesce ad appagare completamente, ma resta sicuramente un capitolo che merita di essere percorso ancora oggi. Poi lo scioglimento e la decisione, in un primo momento condivisa da tutti, di continuare ognuno per la sua strada ma con la precisa clausola (tra gentiluomini) di non utilizzare mai più quel moniker. Hupogrammos e Sol Faur si inventano un gioiellino chiamato Dordeduh, mentre Negru disattende alla clausola e se ne esce con il più bel disco mai fatto dai Negură Bunget: Vîrstele Pămîntului. Avendo ascoltato con attenzione Tău, si può tranquillamente affermare che il primato resiste. Vediamo perché.
Con Vîrstele inizia la fase folk più spinta, inizia anche il valzer delle collaborazioni e quello dei cambi di line-up, ma il nome della band acquisisce finalmente una eco significativa. Anche il successivo EP di 28’, Poartă de dincolo, segue i medesimi criteri ma aggravando il suono con note ancora più cupe. È normale, dunque, che per descrivere Tău si debba necessariamente far riferimento a Vîrstele. Le differenze sono nette e potrebbero essere riassunte in due affermazioni: minor coesione tra i pezzi e minor coinvolgimento dalle atmosfere. Ed è un peccato perché entrambi i punti rappresentavano la forza dei migliori Negură Bunget, ovvero il concept espresso in modo inequivocabile grazie alla continuità che ne rendeva l’ascolto circolare e reiterabile ad libitum, almeno personalmente, e le atmosfere tradizionali che esprimevano sensazioni tattili di cose vissute, di torba e terra, di cuoio secco e legno intarsiato, di ferro battuto e pietra levigata. Tău, che come ben saprete è il primo della Transilvanian Trilogy, perde di efficacia per il semplice fatto che non riesce a rapire la mente come Vîrstele e Poartă de dincolo (in minor misura) riuscivano a fare. Sembra, inoltre, che i brani siano stati composti in periodi diversi e avvalendosi di ‘maestranze’ dal diverso spessore professionale. Ne è un esempio positivo l’anticipazione di qualche tempo fa; ne è un esempio negativo il brano con le musiche balcaniche, che vede la collaborazione di Rune Eriksen. Oltre all’opener Nămetenie e a Tărîm vîlhovnicesc, con Sakis Tolis, molto bello è il pezzo di chiusura, Schimnicește. Per il resto, si attende il secondo capitolo della trilogia, sperando che venga fuori una fotografia della Transilvania con una messa a fuoco migliore. (Charles)