L’impersonalità in effetti può essere una nozione intimista. Un apprendistato di conoscenze alterne che vanno della materialità al vuoto, conoscenze non nominali che caratterizzano l’offensiva di un sistema inconscio che però vuole essere regolatore. E che in una certa misura regola come fosse una timbrica esatta, animata da una gamma di digressioni che pronunciando gli stessi fonemi li cambiano, li riarticolano, li disarticolano pure essendo soltanto una e riconoscibile la voce impegnata in questa ricognizione. La poetica di Paolo Fichera a mio avviso vive di reiterazioni, ricorrenze, false ripetizioni tematiche come fossero ogni volta la decisa profanazione di quanto creduto definitivo per convenzione. Esiste in questa voce un sentimento corale di sé, una popolazione centrifuga che dal muscolo cardiaco conduce la sua diaspora alla totalità dell’epidermide come fosse il limite universale di una finitudine esclusiva e fortemente impegnata nella dolenza di questo trattenimento. Il paesaggio interiore dunque sembra una costellazione acquea in cui ogni aggrumare è una soglia di possibile matericità che affoga l’(in)espressione successiva, che fonda e dilaga l’ennesima ferita di un senso mancato, di un tocco arrestato su un’assenza deliberata che deve latitare ogni spiegazione, alla stesso modo in cui i versi si sciolgono dalla presenza autoriale per mostrare ripetutamente il lutto cui sono rivolti. “il mio bianco/e ancora occhi dal basso/il sudore come un marchio/ogni vena, l’evento/l’acqua di vivere/dispersa, che perde” il bianco non tracima gli occhi, il sudore tatua anziché disciogliere la fatica in un’aura agita al di fuori del corpo, l’acqua di vivere è un sentimento dispersivo inarrestabile che pure salda il lettore nell’immobilità di una perdita. Del lutto reiterato che sta nella qualità di un divenire scarno che non si appella. “il portale della negazione/incrina la terra/la resa, le promesse aspre del sangue” Esiste dunque un portale che nega, una soglia rivolta alle superfici che le incrina. Di questo atto potenzialmente permeabile e contundente sembra capace il sangue data la sua qualità di asprezza e di generosa promessa. Il sangue detiene la palma delle necessità, esaudisce di volta in volta la promessa di nascere, morire, intermediamente desiderare, come cadendo nel crepaccio tra un’oltranza e l’altra. “la castità alla carne, un rogo/senza mani lo schermo/il corvo degli occhi, l’incesto/devastato dai sogni, cede/nel digiuno la pelle il corpo/ora nega il suo nome”. Il corpo è esaltato dall’onta incestuosa di un io che desiderando nega il suo nome, da un digiuno autoimposto, da un’ossatura introflessa che stringe perversamente un’umanità irraggiungibile se non dal suo stesso sogno. L’alfabeto screma lettere, il caglio sfalda il liquido materno e ancora una volta trattiene come un assoluto la dispersione che il vivere impone “la paura ha l’odore/di un alfabeto sfatto/perno che incrina il peso della pelle”
di e su Paolo Fichera in questo blog :
dormi come visibile
prego questo pane
la chiara fermezza dell’acqua
(di Sebastiano Aglieco) nel crepaccio del corpo
origine
Nel bianco. Paolo Fichera
ci sono fiamme in questo teatro: ora.
creatura d’acqua affoga la voragine in un miele, in ogni pelle calpestata.
il corteo delle ferite dispone la fragilità in soglie.
l’acqua penetra, fa deserto di un’altra acqua.
quale verità crede nel suo male?
l’acqua accarezza la pelle sepolta. l’acqua ha sete.
ogni compimento ha il sapore della terra.
ti scrivo nella voce, ogni bosco cede.
gli occhi che si vogliono morti tessono un’altra pelle.
:
un miracolo d’acqua e sangue
la perdita infinita
due acque ogni spazio oltre la sete
una zona bianca
una danza,
un calcare di piedi, nella roccia
il gesto
si scioglie, un’impronta si fa rete e trama
fuoco, il mio bianco
e ancora occhi dal basso
il sudore come un marchio
ogni vena, l’evento
l’acqua di vivere
dispersa, che perde
.
la terra avvicina le mani
alba di terra avvicina le voci
la sera scesa, scende
nel grembo il male
un silenzio gemello
specchia e manca nel mare
un’altra morte
nel fiato i respiri
il bianco di occhi
attorno ai colori
.
il portale della negazione
incrina la terra
la resa, le promesse aspre del sangue
morte tarlata e tarla mani
grattano l’inferno di un lago ghiacciato
seme devoto
una preghiera di solo dolore
violata la pelle, un sole viola
voragini di seta divorano
corpi, oracolo
brunito come corpo
martoriato dal sole:
grembo nel male.
.
parola stanata, piaga
sabbia colma le crepe
radici s’innalzano nel bianco crudele
l’acqua severa di uno sguardo
devoto, di un altare vuoto
.
soffocano nel buio i fiati
rapidi sciolgono la pelle in gocce
una pozza specchia le ere recise
di corpi recisi, i pezzi in un rogo
ossessa l’acqua invade l’imene.
.
metà ala, doppio respiro
stessa cenere
la palude trasuda zampe e ferro
mani grandi per dolci carezze
le fiabe dei bambini violati
“c’era un volta un bosco verde”
inginocchiati alla fonte gemella
un fiume stagnante occhi
una colpa che muore
un perdono guaisce
sa senza pelle
incresciuta e paura
in nome e scissa:
getti le tue mandorle ai gatti
.
tu
sei il presagio
tratturo nel grano
grotta dove l’albero domina
la cantilena nella vena
“mangio la mia zuppa”
Vincent alla prostituta.
.
la castità alla carne, un rogo
senza mani lo schermo
il corvo degli occhi, l’incesto
devastato dai sogni, cede
nel digiuno la pelle il corpo
ora nega il suo nome
.
l’aria
vive nei dirupi
prega la pelle la palude
un’alba randagia dove occhi
sanno trame di tramonti colati
nel silenzio dei pesci
il buio rivela la fiamma
di mirra e datteri sprofonda
respira vicino un dio assente,
un bicchiere di vino voci
timide, desideri di altre vite.
.
l’aria
indora la forma, ammansisce
il balbettio dei sogni, insinua rosso inguine
razza della parola, inesistenza
nel bianco le ossa ristagnano
.
l’aria
sfiora opaca la cenere
compie, la paura ha l’odore
di un alfabeto sfatto
perno che incrina il peso della pelle
trancia
bocca nel bianco.