Nel labirinto della notte marziana

Creato il 10 febbraio 2016 da Media Inaf

I bacini più estesi di Marte potrebbero aver fatto la loro comparsa là dove, un tempo, c’era un’intricata rete idrologica sotterranea. Il tempo, verbale ma non solo, è più che mai il passato remoto: parliamo di fenomeni geologici che avrebbero avuto origine 3 miliardi di anni fa. Il luogo, invece, è quella regione della superficie di Marte che gli scienziati hanno battezzato Noctis Labyrinthus, il “labirinto della notte”. Là e allora, dunque, è il teatro d’una serie di sconvolgimenti episodici del suolo marziano – resurfacing, li chiamano i geologi – che riguardarono il sistema vulcanico e idrologico del pianeta. Sconvolgimenti ora ricostruiti, sulle pagine di Planetary and Space Science, in un articolo basato sui dati raccolti dallo strumento HiRISE del Mars Reconnaissance Orbiter della NASA e firmato da Alexis Palmero Rodriguez, del Planetary Science Institute, e colleghi.

L’aspetto più interessante dei collassi e dei rimescolamenti idrogeologici all’origine di questi bacini, scrivono gli autori, è che consentono d’individuare un’area potenzialmente molto interessante dal punto di vista astrobiologico. Una regione, osservano, che potrebbe aver ospitato la vita.

«L’intervallo di temperature, la presenza d’acqua allo stato liquido e la disponibilità di nutrienti che caratterizzano gli ambienti abitabili qui sulla Terra», spiega Rodriguez, «hanno maggiore probabilità di formarsi, su Marte, nelle zone con processi vulcanici e con depositi d’acqua di lunga durata. La presenza di depositi di sale e di strutture sedimentarie collocabili all’interno dei paleo-laghi marziani risultano, dovendo individuare regioni potenzialmente abitabili nel passato del pianeta, di particolare rilevanza astrobiologica. E questo è ancor più vero se la fuoriuscita delle acque sotterranee di Marte più antiche ha contribuito, come suggerisce il nostro studio, alla formazione dei paleo-laghi».

Individuare paleo-laghi marziani non è facile: a causa dell’atmosfera fredda e rarefatta del pianeta, l’acqua in essi contenuta ha subito una sorte assai diversa da quella che avrebbe avuto sulla Terra. E proprio per studiare qui e ora un habitat quanto più possibile analogo a quello ipotizzato là e allora, l’estate prossima Rodriguez e il suo team proseguiranno i loro studi in Tibet. «Obiettivo della nostra ricerca è una regione tibetana nella quale i laghi d’alta montagna mostrano tratti morfologici unici, che potrebbero spiegare alcune caratteristiche presenti all’interno del bacino dell’area marziana da noi studiata».

Ma che regione del Tibet è, questa che Rodriguez si accinge a esplorare? Media INAF lo ha chiesto Silvia Vernetto, astronoma all’Osservatorio astrofisico dell’INAF di Torino, grande appassionata di Tibet e autrice del volume In Tibet, tra uomini e dei (Lindau editore). «La parte più selvaggia dell’altopiano tibetano, a nord di Lhasa, è una terra», conferma Vernetto, «che ricorda molto la superficie di Marte. Arida, disabitata, fredda, assolutamente inospitale. È però costellata da una miriade di laghi d’acqua dolce e salata di svariati colori, dal turchese al blu più profondo, che brillano nell’aria limpida e sottile dei 4000-5000 metri di quota. È difficile incontrarvi esseri umani. Solo d’estate, quando la terra parzialmente si sgela e cresce un po’ d’erba, vi si avventura qualche pastore nomade con la sua mandria di yak». A far loro compagnia, la prossima estate, anche qualche planetologo in cerca di paesaggi marziani.

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Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina