Nel paese di Frank Tre Dita

Creato il 02 marzo 2014 da Casarrubea

Dove prima sorgevano i campi di mais

Nel paese di Frank Coppola, alias Frank Tre Dita, primo dei grandi trafficanti internazionali di droga, poi divenuto “re di Pomezia”, tutto può accadere. Può accadere che ti trovi nella strada sacchi di immondizia non ritirati e aperti dai cani randagi, la mattina quando metti i piedi fuori di casa. Che per settimane nessuno passi a toglierli. Che qualcuno se li levi dai piedi e li depositi davanti all’ingresso di una villa pubblica. Che non si faccia la raccolta differenziata dei rifiuti. Che tutti i supermercati del mondo riempiano le cassette della posta e le strade della loro propaganda. Che il sindaco non se ne accorga neanche. Che un assessore faccia tagliare in una notte tutti gli alberi di una strada principale piantati da decenni. Che si abbattano palazzi storici. Che i servizi per cui si pagano tasse salate non si effettuino. E ancora, non per finire, che un liceo sia intitolato a un concittadino in rapporti epistolari con il capomafia del tempo, quale fu, appunto, Frank Tre Dita. Santi Savarino, direttore del ‘Giornale d’Italia, partinicese pure lui, scriveva, infatti, a Frank Coppola, avendo prima  manifestato la sua amicizia e il suo affetto: “Carissimo don Ciccio [...] Siamo di Partinico e ci comprendiamo benissimo. Disponga di me. Non ho avuto ancora risposta da Atene, appena l’avrò gliela comunicherò. Venga da me quando vuole; avrò sempre piacere di vederla. Grazie ancora del bel regalo e mi creda suo affezionatissimo Santi Savarino”.

Ma prendiamo un giorno come un altro che esci di casa, per andare a sbrigare alcune commissioni.

1 marzo 2014. Ore 9,00. Poste italiane di Partinico. Una grande calca di gente sta ad ammassarsi, impossibilitata ad entrare, davanti alla porta dell’ufficio postale. Stento ad entrare e ci riesco solo perché mi impongo di farlo. Voglio vedere cosa c’è all’interno. All’interno ci sono vecchi che non possono stare in piedi, gente che deve andare ai servizi igienici che non ci sono, persone con dei bigliettini in mano usciti miracolosamente da una macchina che li distribuisce, a seconda delle incomprensibili alchimie di chi l’ha programmata, un signore che urla nomi e una folla di persone stordite. Come in un gioco al lotto escono dal parallelepipedo micidiale varie lettere dell’alfabeto seguite da numeri. Grazie a questa tecnologia avanzata l’intasamento è assicurato. Non si sa se ciò accade perché nessuno riesce a programmare bene la macchina, o per qualche altra misteriosa ragione che ciascuno può supporre. Andava meglio in altri tempi quando i pappagalli tiravano a sorte i biglietti della sorte, e ciascuno, pagando qualche centesimo di lira, si illudeva almeno di conoscere il suo destino.

I posti a sedere sono pochi e sempre occupati. Come le poltroncine del pubblico al cinema o al teatro che a Partinico si sconosce cosa sia. Tutto questo dalla parte del pubblico che, così, può assistere, se è fortunato, allo spettacolo. Di cui, però, è egli stesso vittima. Dal lato degli sportelli ci sono tre postazioni di lavoro dove compaiono e scompaiono lettere e numeri luminosi due metri sopra la testa degli operatori, due sportelli con i segnali luminosi spenti dove stanno seduti due signori con una terza persona che  guarda le loro spalle. Un operatore si intrattiene a parlare con il pubblico che non si capisce quale problema abbia. Salta subito all’occhio che c’è chi lavora con una certa tempistica, diciamo normale, e c’è chi ha ritmi molto lenti. O meglio, se la prende comoda.  Qualche volta un operatore impiega un tempo non definibile, ma abbastanza lungo, per ultimare ciò che deve fare.

Perciò chi decide di andare alla posta per fare le sue operazioni, deve mettere in conto che si deve rassegnare a perdere una mezza giornata. Bene che gli vada, perché c’è pure il rischio che debba ritornare al pomeriggio o l’indomani per riavviare da capo le sue attese. Non parliamo dello stato di salute dei pensionati che devono percepire la pensione, dei soliti noti che scavalcano la coda, dei furbi che si sentono intelligenti, dei cafoni e delle persone per bene che solo per non rischiare di perdere la pazienza, non aprono bocca.

Ora, non voglio esagerare. Sono stato negli uffici postali di mezza Europa. Un’operazione, di qualsiasi natura non dura mai più di uno o due minuti. Non ho mai visto formarsi folle di persone disperate, anche perché sono convinto che qualcuno dovrebbe pagare gli effetti prodotti dal disservizio sul sistema nervoso delle persone e sulla loro condizione di salute. Ma qui non siamo all’estero e siccome la patologia è endemica ed esistono solo quelli che possono e quegli altri che non possono, siamo come Dante e Virgilio che nella città infernale di Dite, nel settimo girone dantesco degli eretici si allenavano l’olfatto per abituarsi alla puzza dei vapori che esalavano dal basso:

“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al triste fiato; e poi no i fia riguardo

 Quindi non facciamo caso al fatto che abbiamo dei diritti, primo tra tutti quello al benessere e che procurare un senso di malessere è anche un reato. Dovunque andiamo e qualunque cosa facciamo. Ad esempio quando andiamo a pagare i tributi all’ufficio tasse di via Bellini (che funziona per diversi comuni). In questo buco (sedici metri quadrati circa) dove l’unica cosa che si fa è disperarsi e pagare e perdere l’intera giornata lavorativa, qualche centinaio di persone sono costrette a stare in piedi, senza servizi igienici e senza nessun confort, neanche un posto a sedere.

Se fossi Renzi, quale io non sono, non fui, e non vorrei essere, farei una legge molto semplice. Che preveda che simili strutture di sofferenza e di tortura bellica, debbano essere chiusi, renderei obbligatoria una nuova edilizia per simili casi. Inoltre stabilirei di pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti sulla base di un tariffario che preveda il numero delle prestazioni effettuate. Nuova edilizia per i servizi. Quanto agli impiegati il discorso è semplice:

-Tu, impiegato Sempronio, quante operazioni hai fatto in un mese? Trecento? Lo standard previsto è di un minimo di cinquecento, hai diritto allo stipendio decurtato della percentuale di ‘lavoro in meno prodotto’.

-E tu, impiegato Caio, quante operazioni hai fatto? Settecento? Sei nella norma.

-E tu Tizio, quante operazioni hai fatto? Milleduecento? Hai diritto al tuo stipendio, più una quota premio rapportata alla percentuale di produzione in più che hai effettuato.

Se questo discorso a qualcuno non sembra democratico, me ne spieghi la ragione.

Il fatto è che lo Stato da sempre vuole soltanto avere e non dare. Ha un braccio lungo per acchiappare e un altro cortissimo per dare.  E il codazzo degli impiegati e burocrati gli va dietro, come vagoni attaccati a una locomotivo. Ma il binario è sbagliato e porta tutti a sbattere.

Siamo certi che fino a quando sarà diffuso il senso di mancanza di responsabilità e di servizio, saremo obbligati a sopportare quello che abbiamo. Perché il pesce puzza dalla testa, e sul piano locale possiamo solo turarci il naso. Fermo restando che anche il nostro naso non sente più la puzza avendola respirata per secoli.

Dunque? Lasciamo che ciascuno perda il suo tempo, che i vecchi scontino in terra il loro purgatorio, oltre agli acciacchi che hanno, che i giovani perdano il loro tempo, perché tanto sono disoccupati, e chi ha il lavoro lo perda in modo diverso con il solo beneficio dell’eterna speranza del pezzo di pane che si va a guadagnare, quando ci riesce. Tanto, come sanno bene i veneziani, paga sempre Pantalone.

Giuseppe Casarrubea