“Nel secco degli aranci” poesia di Lucia Bonanni dedicata a Garcia Lorca con un commento di L. Spurio

Creato il 05 settembre 2015 da Lorenzo127

Nel secco degli aranci

di LUCIA BONNANI

A  Federico García Lorca

Nelle tue mani

di rugiada

fazzoletti ricamati, una conchiglia

e nacchere sonanti.

Sulle tue labbra

insonni

canzoni per bambini, drammi di vita

e pianto per gli amici.

Nel tuo cuore

di raso

rose frantumate e grani di salsedine

a imperlare l’anima irredenta.

Tra mute campane e l’esilio di chitarre

indossavi la camicia bianca

quel giorno

nel secco degli aranci,

sudario gridato verso Oriente

e purezza di ideali

da mascherate di polvere e fuoco

zittiti per vizio di vendetta.

Vigliacchi fino al midollo

per guardarti in faccia

nel momento tetro

della solitudine visiva

e del sangue che nutriva

la terra

a far germogliare

non “frutti di tristezza”

ma nardi di giustizia.

Commento critico di Lorenzo Spurio

Un sentito e profondo omaggio a Federico García Lorca, il poeta andaluso che nell’Agosto del 1936 in piena guerra civile spagnola, venne fucilato (secondo le interpretazioni più accreditate) barbaramente per essere un “rojo”, temuta spia dei russi comunisti. Sul suo decesso e soprattutto sul possibile luogo del seppellimento del poeta si sono espressi in molti nel corso della storia sino a giungere alla considerazione più nota, cioè che venne sepolto in una porzione dell’assolata campagna granadina a metà strada tra i pueblos di Víznar e Alfacar. In tempi a noi recenti, però, e precisamente nel 2009, le operazioni di scavo volute nella zona per l’esumazione dei resti e per dar prova a quanto indicato in tanti manuali, biografie e studi sull’autore fosse in termini concreti vero, ha dato esito negativo in quanto non vennero rinvenuti resti ossei del poeta. Questo animò una serie variegata di possibili piste sulla destinazione ultima dei resti del Nostro, tra chi sostenne che vennero inumati nella cripta della Cattedrale di Granada e chi, secondo una ipotesi quanto mai improbabile e sicuramente la più stravagante, sosteneva che i resti fossero stati trafugati per volere del miliardario Enrique Amorim, possibile amante di Lorca, e condotti a Salto (Uruguay) dove nel 1953 vennero inumati all’interno di un monumento in sua memoria. Comunque stiano i fatti e comunque sia la realtà storica non ancora svelata a causa di una reticenza della famiglia Lorca nel farsi carico di appurare il vero luogo del seppellimento e il disinteresse vergognoso della Destra (Partido Popular) che non ha mai preso le distanze dal franchismo e dai suoi gravissimi errori perpetuati contro l’umanità, è incoraggiante che ancora oggi, a distanza di settantanove anni dal suo assassinio, ci sia chi continua a ricordarlo, ancor più di una qualsiasi decisione politica o tentativo di rilettura della storia, per mezzo dell’arte che a Lorca stava di più a cuore, la Poesia.

È il caso, dopo varie liriche d’impatto del palermitano Emanuele Marcuccio scritte nel corso degli anni e da me recentemente commentate, della poesia di Lucia Bonanni intitolata “Nel secco degli aranci”. Il titolo, evocativo e coloristico, ci immette subito nello scenario prediletto dal Lorca cantore del popolo, quello dell’Andalusia autentica, degli aromi speziati, delle corride, dell’arte flamenca e della tradizione del cante jondo. La Bonanni già nel titolo con una tecnica sintetica circoscrive due delle caratteristiche della terra andalusa, poste quasi in controtendenza l’un l’altra da costituire un ossimoro che, a ben vedere da vicino, tale non è. Il “secco” è la conseguenza di una esposizione della natura a temperature estremamente alte, a un sole forte e opprimente che più che scaldare sembra addirittura ardere, dall’altra parte ci sono gli aranci, immagine di una natura colta nella sua fase di splendore: nello sboccio del fiore, nella maturazione del frutto e, comunque, nell’odorosità leggiadra capace di edulcorare l’aria.

Contrariamente il verso della Bonanni non è volto ad addolcire o alleggerire la realtà fattuale della tragica sorte toccata al poeta in una assolata e assonnata giornata di Agosto, nei campi che abbracciano i piccoli pueblos di provincia. Numerosissimi e quanto mai importanti i richiami simbolici alla cultura folklorica andalusa tanto cara a Lorca a partire dai “fazzoletti ricamati” che fanno pensare a quelli a volte tenuti in mano durante la danza flamenca da qualche donna che vengono fatti sussultare al ritmo del ballo o quelli, rigorosamente bianchi, che la folla alza festante alla plaza de toros come segno di riconoscimento alla bravura del torero nelle sue acrobazie contro il toro. La “conchiglia” richiama il mondo marino ma anche la natura intesa nel senso di filiazione e maturazione in quanto simbolo che sta per i genitali femminili. A completare il panorama delle suggestioni visive atte a calarci nello scenario regionale andaluso, nella sua anima campestre, nella sommessa ritualità delle genti e inscindibilità dall’elemento sonoro, sono le “nacchere sonanti” a chiudere questa prima strofa ricca di colori e densa di simbologie cariche di impronte lorchiane.

Se nella prima strofa si poneva attenzione alla dimensione tattile, ossia in che modo il Nostro (a Lorca è dedicata la lirica ma in effetti la Bonanni sembra descriverlo sulla scena, presente nelle spicciole e canoniche abitualità del popolo di provincia) sperimentava l’universo sensoriale legato al percepire con mano, la seconda invece è improntata alla resa della dimensione orale in cui è in linguaggio a far da padrone

Vorrei aggiungere in tal senso, per sposare la considerazione di Carlo Levi che scriveva “le parole sono pietre”, un episodio deprimente concernente la fine di Lorca nel quale è evidente quanto anche l’universo linguistico possa essere utilizzato come arma per ferire e annichilire l’altro. Si sa che l’uccisione di Lorca fu dettata dall’esser percepito dai nazionalisti quale pericolosa “espia de los rusos”, come “rojo” e quant’altro sebbene egli non avesse mai aderito manifestamente a movimenti e partiti politici  e, in aggiunta, molti altri non mancarono di schernirlo per la sua manifesta omosessualità bollandolo come “maricón” (anche la stampa in alcune circostanze non risparmiò una terminologia poco felice e rispettosa). La biografia di Ian Gibson sull’autore riporta la rivelazione balorda di Juan Luis Trecastro de Medina, autore  materiale dell’esecuzione, che spavaldamente ricordò di avergli “tira[do] dos colpos en el culo por maricón” ossia di avergli “sparato due colpi nel culo per essere frocio[1]” con la quale possiamo ancor più rabbrividire non tanto per la ferocia in sé dell’azione brutale (quella di sparare) né della modalità scelta (quella di sparargli nel di dietro) ma per l’offesa perpetuata sul suo corpo a condanna di una visione ideologica (libertaria e repubblicana, ugualitaria e libera) non concepita dai nazionalisti. L’atto tremendo della fucilazione e la registrazione verbale e scritta delle modalità dell’uccisione pensate dall’assassino come regolamento supremo, come forma repressiva giusta per il rispetto della morale dei nazionalisti si mostra, così, ancor più abominevolmente costruita perché tesa alla soppressione di una ideologia e di una propensione sociale.

Lorenzo Spurio, critico letterario, autore del presente commento.

La Bonanni non parla di questo, di quelle che sarebbero potute essere le ultime parole del Nostro prima di morire, né delle grida dei motti repubblicani, ma dell’oralità dei tanti personaggi delle costruzioni letterarie del Nostro: dalle “canzoni per bambini” ai “drammi di vita” ma aggiungerei anche ai romances della terra, alle poesie surrealista dal tono sfiduciato e ancora tanto altro ancora. Dei “drammi di vita” in cui è la parola a riecheggiare forte nelle spoglie case delle famiglie contadine dove Lorca ambientò i suoi drammi rurali (vere e proprie tragedie che non hanno nulla da invidiare all’opera shakespeariana) mi viene alla mente la ribellione della bella e giovane Adela nei confronti della dispotica Bernarda Alba nell’opera La casa de Bernarda Alba che, insofferente alle logiche di sopruso della madre, non manca di fronteggiarla con azioni esemplari volte a indicare lo sfarinamento di quel potere creduto indiscusso. Ma è anche Yerma dell’omonima opera che, addolorata per la sua infertilità (in realtà l’opera non lo chiarisce, ma è possibile che sia il marito ad essere sterile!), e affossata nel relegato clima familiare cerca comprensione e maggiore affetto dal marito che, insensibile e interessato solo al lavoro, non le concede mai grande spazio né tempo se non per reprimerla. Ciò scatenerà lo sviluppo di una vera e propria vena di follia nella donna che la condurrà a uccidere il marito e, nel finale, a proclamarsi assassina del figlio mai nato (“Yo misma he matado mi hijo”). Chiaramente sono solo dei piccoli riferimenti che andrebbero, magari, meglio richiamati e spiegati con più attenzione, ma bastino qui quali elementi per sottolineare quanto il tessuto orale del linguaggio sia importante nelle varie opere lorchiane. Il linguaggio, qui, non è quello dotto dei libri, né delle università, né quello degli specialisti su un dato tema, ma è il linguaggio della natura (spesso anche le piante, i fiori e gli animali parlano, si pensi all’opera teatrale El maleficio de la mariposa) ossia quello della terra, è il linguaggio che scaturisce dalla vita domestica e da quella lavorativa nei campi: è l’Andalusia speziata e assolata a parlare, come un’eterna confidente della sua meraviglia.

Si arriva così alla strofa cardine del componimento della Bonanni dedicata a dipingere, dopo l’esperienza tattile e verbale, quella emozionale dettata dall’immagine del “cuore”. Ritorna l’attenzione per il mondo delle trame e dei merletti: se i fazzoletti erano ricamati (intuiamo di pizzo), tesi cioè a marcare un gusto estetico per l’elaborato, il cuore è di “raso” come se in effetti necessiti di una protezione ulteriore da quella fisiologica del corpo umano e della cassa toracica per attutire i colpi, tanto fisici quanto verbali, del mondo esterno.

L’immagine che fa eco a questo cuore involucrato in un tessuto tanto nobile è quella di “rose frantumate” e “grani di salsedine” tesi in un unico verso a tratteggiare la complessità degli scenari andalusi: dalla rosa di giardino, figlia del lavoro e della coltivazione dell’uomo (come non ricordare le rose dello zio in Doña Rosita la soltera?), a quella di un mare infinito che accarezza le coste trasformandole da roccia sapida a litorali densi di sapori.

A seguire la Nostra ci parla di un mondo che ha perso, sembrerebbe di colpo, l’elemento sonoro (“mute campane” che ricorda il verso lorchiano “Cuando sale la luna/ se pierden las campanas[2]) dove la de-sonorizzazione dell’ambiente dovuta a una risposta corale della natura che si è sentita offesa per la cattura del Nostro, come una sorta di ammutinamento, si fa assordante anche per l’ “esilio di chitarre”, sprofondando in un silenzio pauroso e annichilente.

Il Nostro sembra con questa rapsodia silente di versi incamminarsi alla sua morte e “la camicia bianca” fa pensare alla tunica ampia e fluttuante di una vergine scalza abitante la campagna, una idea di candore e libertà che invece è bandita in quella terra “nel secco degli aranci”. Ben presto la Nostra ci immette in un canale simbolico improntato sul concetto di trasformazione: la camicia, da indumento connotante il Nostro, diviene un “sudario gridato verso Oriente” ossia emblema di una morte che avrà eco in ogni dove. Ed è così che il bianco della camicia sotto l’insensata violenza delle azioni umane, quelle dei suoi aguzzini franchisti, si volge in un colore scuro e indistinto fatto di “polvere e fuoco”. È la sfumatura cromatica del piombo fuso, della morte per fucilazione, della polvere da sparo che invece di sfumare nell’aria e depositarsi non vista a terra, sembra solidificarsi e diventare blocco di metallo, una sovraccarica cappa di tormento che produce un’asfissia delle vie aeree.

La parola “vendetta” che compare al termine della penultima strofa della poesia della Bonanni credo che non sarebbe piaciuta a Lorca che nella sua vita non era persona da guardare l’altro se non con comprensione e vicinanza. Di vendette o pseudo-tali credo, però, che nella storia del periodo ce ne siano state e anche a dismisura, nelle battaglie tra i due schieramenti, ammazzamenti, stupri, saccheggi di chiese, scontri d’artiglieria, fucilazioni sommarie, rivolte e crimini di varia natura, ma che essi non abbiano avuto grande senso e abbiano contribuito solo a rallentare l’acquisizione di una sana democrazia.

Ed ecco nella strofa finale l’accusa verso i criminali del Nostro resa dalla Bonanni con un malcelato sentimento di angoscia e al contempo di ribrezzo che la porta a definirli “Vigliacchi fino al midollo”. Non è certo se il poeta venne fucilato dal boia direttamente faccia a faccia o se, invece, come già detto sopra anche per ulteriore motivo di offesa verso la sua inclinazione sessuale, venne trivellato di colpi alle spalle e al posteriore. Sta di fatto che l’esplosione dei colpi nell’ambiente (il non-suono rotto dal suono della morte) corrisponde alla “solitudine visiva” del poeta ossia alla sua morte fisica. Nel “sangue che nutriva/ la terra” sembra possibile leggere il sacrificio dell’uomo che, pur di non rendere insignificante il suo trapasso, è per lo meno lieto di abbeverare la terra madre del suo sangue, ricongiungendosi ad essa in un ciclo vitale fatto di continui cambiamenti di stati di materia. Ritorna alla mente il sangue dell’amico Ignacio Sanchéz Mejías che bagnava la sabbia dell’arena dopo la tremenda cogida fatal che il poeta, timidamente e con costernazione, diceva nel famoso Llantoque no quiero verla” in un atto di dolore portato fino allo spasimo.

Noi tutti, abitanti di terre diverse, più o meno giovani, abbiamo “visto” la sangre derramada di Lorca inzuppare la sua camicia e poi colare nella terra andalusa, in quei campi talmente secchi da avere rughe di vecchiaia dove il sangue, stilla di vita, scende per rigenerare il terreno. Da quella fertilità sacrificale nasce il canto di indignazione alla violenza e la lotta indistinta alle forme di sopruso che la Nostra evoca quasi arcadicamente nei “nardi di giustizia” emblemi di una purità antica che perpetuamente vanno difesi con orgoglio.

Lorenzo Spurio

Jesi, 17-08-2015

[1] La parola ‘frocio’ qui utilizzata non viene impiegata con un intento denigratorio nei confronti degli omosessuali, ma per mantenere la carica di violenza e disprezzo impiegata nello spagnolo ‘maricon’, termine assai duro e offensivo.

[2] “quando spunta la luna tacciono le campane”,