Se questa giornata avesse un abito sarebbe quello del silenzio. Lo stesso che veste la distanza tra te e le mie ultime parole, tra me e tutto quello che hai taciuto. E se proprio dovesse avere un suono avrebbe quello delle nostre parole, di quelle non dette, affidate agli spazi bianchi tra un rivolo e l’altro d’inchiostro, tra un respiro e l’altro di voce.
In quegli spazi bianchi, in quei respiri quasi rubati c’è tutto quello che non. E non è un modo per non dare un nome alle cose, è che qualche volta un nome le cose non ce l’hanno o fanno finta di non averlo. Come quando sei nel bel mezzo del valzer dei pensieri e qualcuno interrompe il tuo passo leggero con l’insolenza di una domanda sciocca. Lo guardi, mentre abbracci con gli occhi tutto quello che c’è da abbracciare e rispondi che no, tu proprio non lo sai. Non è che non lo sai, è che tu in quell’istante, al centro di quella domanda sciocca, proprio non ci sei.
Sei lontano e l’altro non lo sa, tu lo sai.
Un po’ come quel giorno in cui ci siamo detti addio. C’era silenzio, non lo stesso di oggi, quel giorno era così muto che anche le lacrime avevano avuto timore di disturbarlo. Scivolava tutto lento, lasciando solo piccoli spazi bianchi, soffi di respiro. Tutto era immobile, stanco. Il giorno aveva assorbito quella malinconia come una spugna, la sera era venuta giù a goccioloni. Era un modo per restituire tutte le pene sentite, le parole taciute, i silenzi ascoltati. Era solo un modo per lasciarci andare, un po’ alla volta.
Dopo, la quiete. La quiete dell’anima nuda mutilata d’un luogo di sé, delle dita piegate nel modo esatto in cui accogliere il vuoto di quelle che non l’abitano più, del cuore senza difese che si consegna all’assenza dell’altro.
Oggi. I silenzi sono pieni di parole sciocche e io penso che no, proprio non lo so, come quando i miei pensieri ballano il valzer. E lo sai, invece lo sai che non è più come la prima volta che ci siamo sorrisi.
I sorrisi hanno una geografia strana che cambia continuamente, che quando pensi di sapere come trovarne uno ecco che l’hai perso perché nell’ultimo posto in cui lo hai lasciato non c’è più. Lo so che, se tu sapessi ascoltare, io quei silenzi li riempirei, ma questo giorno ha un abito che non vuole cambiare e un coraggio che non sa trovare. Resta in silenzio, non riesce a sibilare che in un refolo di vento, si cela all’ombra di una crepa asciugata dal sole. È lì che custodisce quello che non riesce a dire, tutto quello che non sa dare a questo nuovo addio che ha lo stesso suono di un tormentone estivo e la stessa geografia di un sorriso di circostanza, quelli sono gli unici sorrisi che sai sempre come trovare.
Eppure basterebbe poco per non lasciarsi andare, basterebbe affidarsi ai segni lasciati nelle crepe asciugate dal sole ché si sa che dopo ogni sera piena di goccioloni poi arriva il sole e asciuga tutto. E quando va via, lascia il segno. Tanti segni che sono labirinti di possibili strade da percorrere, direzioni da seguire, crepe. Gli stessi segni che indicano i numeri, le carte e le posizioni dei pianeti e delle stelle, le mappe dei buchi neri.
Ho sempre pensato che la vita avesse un piano disegnato dall’abile mano di qualcosa che non. In questo caso non faccio finta di non sapere, non sono al centro di una domanda sciocca e i miei pensieri non ballano il valzer. Questa volta proprio non lo so quel qualcosa dove porti. L'unica cosa che so è che quando pensi d’essere davvero lontana, ecco che le carte vengono rimescolate e ti ritrovi in un giorno come questo.
Uno di quei giorni che parlano di qualcosa che non c’è più, che parlano troppo, che sorridono anche se non ce n’è motivo e che pensano che tu non ci sei e va bene così, che io non ci sono e va ancora meglio.
La distanza è sempre la stessa, quella tra te e le mie ultime parole, tra me e le cose che hai taciuto, tra noi e quelle piccole ferite bianche accarezzate dal vento. E c’è quiete, la stessa in cui riposa un tempo che ci ha visti insieme e che ci ha persi per sempre.