Era il cinque febbraio dell’Anno del Signore e l’ondivago Marcello, dimentico degli oscuri presagi, sedeva alla solita tavola della Taverna, in compagnia di Livia. Quella sera la donna aveva la luna di traverso, perché aveva da poco cambiato ufficio ed era ancora alle prese col trasloco. Ma bastò che Mario deponesse dinnanzi a lei una dozzina di ostriche perché si rinfrancasse.
-E per lei, dottore, cosa facciamo di antipasto? Ho preso un polpo che è le sette bellezze!-
-Ottimo!- rispose Marcello.
Ma, quando vide il mostro che gli aveva messo nel piatto, gli si accapponò la pelle. Erano due tentacoli che gli fecero tornare in mente quelle piovre di cui si legge nei romanzi di Giulio Verne, capaci di stritolare un vascello. Un antipasto! A patto che fosse riuscito a mangiarlo tutto non gli sarebbe rimasto il posto per un grissino. Cominciò desolato a smembrare quella massa violacea e si accorse che, oltretutto, era dura come il cuoio e non sapeva di nulla. Continuò fino alla nausea, lasciandone solo un pezzetto che Livia si affrettò a divorare con gusto.
Mario lo trattava con grande premura e faceva di tutto per solleticarlo coi più gustosi manicaretti, ma era un po’ suscettibile e quando non ripuliva il piatto assumeva un contegno sostenuto, quasi offeso. Avrebbe dovuto infischiarsene, era lì per il suo piacere e non per soddisfare i desideri di un oste paranoico. Ma, per un’inspiegabile specie di riguardo, cercava sempre di accontentarlo. Ed anche in altri contesti, per compiacere qualcuno o accattivarsi le sue simpatie, era capace di sottoporsi alle più severe penitenze; ma solo nel caso in cui la persona appartenesse a una classe sociale o avesse una levatura intellettuale inferiore alla sua.
-Buono eh?- disse Mario specchiandosi nel piatto. –E per primo? Oggi ci sono i rigatoni con la pajata!-
Col boccone ancora in gola, ordinò timidamente un risotto.
Dopo un rombo al forno con patate e un semifreddo al torrone, aveva quasi i conati di vomito. Si attaccò alla bottiglia di grappa che Mario aveva lasciato sulla tavola, nella speranza che lo soccorresse nell’impari lotta che aveva ingaggiato col suo stomaco.
Dopo cena, Marcello e Livia andarono a concludere la serata al caffè Santaclara. Lui era già alticcio.
Paul, che se ne stava seduto davanti a un enorme boccale di birra, si cavò il cappello e, con un amabile sorriso, li invitò al suo tavolo. Era uno scrittore austriaco e aveva l’aspetto di un orco, col suo corpo massiccio e il faccione incorniciato da una barbetta incolta. I suoi libri erano stati tradotti in molte lingue ma non in italiano. Una scelta il cui significato sfuggiva ai più, ma non a Marcello: Paul, che da oltre vent’anni aveva eletto Trastevere a sua seconda patria, voleva vivere tranquillo, come un uomo comune, evitando le noie della celebrità.
Già molti anni prima dello scandaloso successo del “Codice da Vinci” di Dan Brown, aveva cominciato a sfornare i suoi polpettoni fantastorici, zeppi delle più inusitate fandonie sul conto dei Templari, dei Catari, della setta degli Assassini e con tutto il campionario di “loci communes” di quello che Marcello considerava tra i più spregevoli generi letterari.
Non gli piacevano più i romanzi, innanzi tutto, e in particolar modo quelli esageratamente lunghi. Si chiedeva se fossero più masochisti gli scrittori nello scriverli o i lettori nel leggerli: “Come facevano a prendere sonno prima di aver scritto la parola fine o di aver letto l’ultima pagina?-
Anche lui era uno scrittore, ma non si sarebbe mai sobbarcato all’improba fatica di por mano a un romanzo. Come avrebbe fatto a sopravvivere per mesi se non addirittura per anni, all’ossessione di arrivare alla fine o, peggio ancora, di non riuscirci affatto, a causa della sua incapacità o di qualunque accidente l’avesse costretto a lasciare il suo lavoro incompiuto?
Anche Cechov e Poe, del resto, universalmente stimati fra i più grandi narratori, non erano andati oltre “La steppa” e “Il Corsaro” che, al massimo, si sarebbero potuti definire romanzi brevi o, meglio ancora, racconti lunghi. Con al fianco simili padrini, si sentiva autorizzato a sparlare del romanzo senza incorrere nel pericolo di essere preso per un mentecatto.
In fatto di letteratura, del resto, aveva sempre avuto opinioni a dir poco originali: agli esami di maturità, nonostante il suo brillante curriculum, aveva rischiato di farsi bocciare negando che Leopardi fosse un romantico e definendolo un miserabile piagnone con velleità pseudofilosofiche.
Anche se non lo apprezzava come scrittore, trovava stimolante conversare con Paul, l’unico tra i suoi amici col quale potesse impegnarsi in interminabili dispute intorno all’età medievale, materia nella quale era profondamente versato.
Quella sera si parlava della I crociata, che faceva da sfondo all’ultimo romanzaccio di Paul.
-…Appena succeduto a Gregorio VII, Urbano II…-
-A Vittore III, vorrai dire!- lo corresse Marcello, che gongolava ogni qualvolta gli capitava di cogliere in fallo il suo amico al quale, in quanto a presunzione e arroganza intellettuale, non aveva nulla da invidiare.
-Ma kosa tici?- gli rispose Paul, scandendo quelle parole con durezza teutonica.
In altre occasioni avrebbe ingaggiato un duello all’ultimo sangue col suo avversario perché, senza dubbio, Urbano II diventò papa tre anni dopo la morte di Gregorio VII. Nel mezzo, schiacciato fra quelle due figure gigantesche, vi fu l’oscuro pontificato di un monaco benedettino che prese il nome di Vittore III e che la storia ricorda, anzi dimentica, come uno tra i papi più insignificanti, del tutto inadatto a sedere sul soglio di Pietro in quei tempi calamitosi. Ma quella volta non se la sentì di contraddirlo, perché l’alcool cominciava a renderlo euforico –continuava a bere grappa- e rischiava, com’era già accaduto, di infervorarsi in modo eccessivo, cosa che urtava maledettamente la garbatissima Livia alla quale, per giunta, di Gregorio VII, di Urbano II e soprattutto di Vittore III, non importava un fico secco.
Non se la sentiva proprio, una volta tornato a casa, di sentirsi chiamare ancora ubriacone attaccabrighe e, contravvenendo alla regola che gli imponeva di mostrarsi accondiscendente con gli umili e implacabile coi superbi, pose fine alla questione ammettendo, ignominiosamente, di essersi sbagliato.
A casa, mentre si toglieva i calzoni cercando di non perdere il suo precario equilibrio, si rese conto di aver bevuto un po’ troppo –Steinegge gli avrebbe tirato gli orecchi- e soprattutto di non aver affatto risolto il contenzioso col suo stomaco.
Livia, per grazia ricevuta, gli risparmiò ogni rimprovero e lui, anziché compiacersene, si sentì ancor più umiliato, pensando al caro prezzo che aveva dovuto pagare per ottenere clemenza.
Prese sonno a fatica e, in un incubo infausto, attraversò ignudo la navata centrale di San Pietro, fra le anime dei 261* pontefici defunti, disposti in due file ai suoi lati, che lo sottoponevano a un crudele “Sant’Antonio”. Il più accanito fra tutti era Vittore III, il quale brandiva una verga di inusitata grandezza. Attraversato il corridoio, di fronte all’altare della Confessione, c’era ad attenderlo l’orribile megera, col suo ghigno sdentato.
*Benedetto IX regnò tre volte.
Federico Bernardini
Illustrazioni:
1 – Papa Vittore III
2 – Altare della Confessione, San Pietro