Nella Navicella (che fa anche rima)

Da Alberto Murru @Albob_Mu

Avevamo un vecchio Bx grigio, alcuni dei miei amici credevano fosse una macchina per lo spazio, lunga, bassa, quasi una casa con quattro ruote.  La domenica mattina la nostra navicella color cenere iniziava a sapere di sale, con il cofano colmo di plastiche colorate e polli arrosto; una leva al centro, proprio di fronte ad uno stereo che mangiava solo cassette dei Nomadi, trasformava la macchina in un aggeggio per viaggiare nel cosmo, i miei amici avevano ragione.

I paesaggi scorrevano uno dietro l’altro sul vetro del finestrino, il pomello della sicura era stato abbassato per precauzione, le nostre facce schiacciate a supplicare il sonno troncato da una giornata di mare. La navicella sembrava quasi volare, i piccoli quadrati arancioni appesi a bordo strada si schieravano una dietro l’altra in un’infinita striscia arancione, un orizzonte artificiale che non potevamo non seguire con i nostri occhi; solo mia sorella non poteva rimanere ipnotizzata dallo scorrere e dall’interrompersi di quella scia arancione, oggi nel sedile centrale toccava a lei! Dal sedile centrale non si vede niente, la macchina sembra andare più lenta e i nastri dei Nomadi sembrano essere interminabili; dopo qualche decina di minuti si cede alla voce di D’Aolio e ci si poggia sulla spalla del fratello sfortunato.

“Metti la radio!” “Non prende, lo sai.”

“Mi sto annoiando!” “Guarda il paesaggio!”

“Tra quanto arriviamo!?” “Il tempo necessario!”

“Oh, ti svegli?” “Mmmmm, no!”

Quando l’astronave si incanalava in una strada che non aveva più quattro corsie significava che eravamo davvero vicini; le distese di riso verdissime iniziavano a trasformarsi in campi gialli ritmati da enormi palle di fieno e forme che somigliavano a delle Lego, gli alberi perdevano la chioma bassa e diventavano sempre più alti con un ciuffo di aghi sulla punta. Niente pecore, solo enormi mucche bianche e nere, come quelle della pubblicità, a guardarti là dentro la navicella!

“Che puzza, chiudi!”

“Mà, perché quando arriviamo al mare c’è questo odore di uovo?”

“La cassetta non finisce? La sappiamo a memoria!”

Il giallo dei campi era ridiventato verde, le piantagioni di granturco e le case ci avevano catapultato in qualche area lontana che ci ricordava i film delle quattro del pomeriggio. L’odore di uovo era davvero insopportabile. (Al semaforo dobbiamo andare dritti papà, ricordatelo! Non come l’altra volta che poi arriviamo al mare all’ora di pranzo) Eravamo ormai sul rettilineo che a poco a poco sarebbe scomparso per lasciare spazio ad un orizzonte celeste, i venditori di angurie e pomodori rossissimi erano sempre meno radi, 700 al kg, 800 al kg e via salendo all’avvicinarsi della riva. Dietro nessuno faceva più domande, aggrappati ai sedili di fronte a noi cercavamo di scorgere il mare in lontananza, ancora niente!

A poche centinaia di metri dalla pineta, un ponte fatto male ci faceva mancare il respiro, era il segnale. In silenzio e volenterosi ci suddividevamo il bagaglio, era una sfida a chi avrebbe toccato per primo l’acqua; io ero il più lento e mi piaceva guardare gli altri correre.