Non vi è un comportamento socialmente apprezzato, psicologicamente sostenibile, razionalmente progettabile, nella società ‘liquida’ di baumaniana memoria, che permetta di dire a sé stessi: “Se mi comporterò così, sarò felice, starò bene nella vita”; abbiamo tutti la sensazione che ciò che abbiamo ci possa essere tolto, dal governo, dagli altri, dalla Natura, persino dai propri cari (ad esempio tramite il divorzio e relative cause): non vi è un progetto di vita che metta al riparo, al di là di sventure imprevedibili da sempre, dall’infelicità, dal dolore, dal rimorso.
Abbiamo bisogno di ignorare questa instabilità dell’animo, rifugiandosi nell’incessante brulicare caleidoscopico della frenesia dei giorni, che si vogliono diversi, anche solo per lo shopping, per un viaggio. Ma in realtà stiamo fuggendo da questa insicurezza dei sentimenti, degli affetti, della fiducia nell’altro, nello Stato, nei valori tradizionali ormai dissolti nel melting pot degli ideali. Figli di una società che ha abbracciato il consumismo ed il capitalismo sistemico come unico motore reale del vivere associato, siamo meteore in cerca di un Sole che ci abbracci e ci influenzi a tal punto da sentirci parte di un sistema che ci trascenda, e ci faccia sentire finalmente parte di qualcosa di grande.
Certo, sono sensazioni, chiamatela analisi qualitativa: ma sono sicuro che, dietro la comunicazione frenetica e superficiale dei nostri tempi, si nasconda la mancanza di radici in una dimensione veramente umana, che l’essere umano non può veramente ignorare: abbiamo bisogno di linfa vitale, non siamo ‘macchine felici’, non possiamo esserlo. Dietro ogni vita programmata da ideali che non sentiamo nostri o sentiamo vuoti, come quelli micro o macroeconomici, c’è già il germoglio dell’infelicità del nostro io. Ecco perché gli individui si rifugiano, sempre di più, pur nella società globale, nel locale, nelle ‘tribù’ gruppali, negli affetti strettamente familiari.