A descriverne abitudini, vezzi ed idiosincrasie, il suo assistente tuttofare, Archie Goodwin, braccio destro ed alter ego: è lui a recarsi sul luogo del delitto, procedendo ai consueti interrogatori, raccogliendo prove ed indizi e “portandoli a casa”, mentre Wolfe si interessa al caso sottopostogli con un certo distacco, apparentemente senza alcun interesse che non sia quello di guadagnare il denaro necessario a mantenere i suoi vizi, la buona cucina e il giardino pensile con le orchidee, coadiuvato rispettivamente dal cuoco svizzero Fritz Brenner e dal giardiniere Theodore Horstmann.
Scorbutico, misantropo e misogino, Wolfe si muove praticamente solo all’interno della sua abitazione in pietra arenaria (al numero 918 della 35ma strada ovest), impegnandosi, ad orari rigidamente prestabiliti, nel consueto tragitto cucina, studio e serra, una ritualità quotidiana estremamente cadenzata e scandita, che sembra infondergli sicurezza e la lucidità necessaria, pur con più di un’estrosità, a far sì che il suo intuito si dispieghi genialmente nella soluzione degli enigmi che man mano gli vengono presentati, intervallando il tutto a suon di coloriti battibecchi con Archie, spesso provocatore marpione, intercalati da salaci commenti esistenziali.
Devo dire che, superato lo stupore iniziale per il comunque felice escamotage messo in atto dal team di sceneggiatori (Piero Bodrato, Grazia Giardiello, Roberto Janone), il trasferimento dell’ambito d’azione di Wolfe dalla Grande Mela nella Roma di fine anni ’50 in seguito a dissidi con l’FBI e per evitare la relativa inchiesta, la mia impressione è nel complesso positiva: un buon lavoro di scrittura, volto sia a dare nuova identità a personaggi già esistenti (Andy Luotto nella parte del cuoco, ora d’origine amalfitana) o a crearne di nuovi, come la giornalista Rosa Petrini (Giulia Bevilacqua), figura molto importante per mitigare l’aura misogina che aleggia, si associa alla ferma regia di Riccardo Donna, a suo agio nella visualizzazione di tecniche spesso abusate, come il flashback, qui abbastanza fluido e funzionale, così come nei primi piani o nelle visioni d’insieme, con una certa attenzione ai particolari.
In definitiva, siamo abbastanza lontani dalle consuete nozze con i fichi secchi che caratterizzano spesso i parametri qualitativi di molte fiction nostrane (unica traccia residua, oltre le suddette facili caratterizzazioni, una certa insistenza della musica a sottolineare inutilmente alcune scene), ma ancora non propriamente vicini ai livelli delle serie tv americane: riuscire però in un non facile adattamento di un classico della letteratura investigativa, coniugando eleganza, buon gusto e coerenza di stile, in nome della gradevolezza complessiva, mi sembra un buon risultato e, almeno è quanto mi auguro, un valido punto di partenza.