Nero Wolfe, una buona fiction

Creato il 14 aprile 2012 da Af68 @AntonioFalcone1

Il personaggio di Nero Wolfe nasce nel 1934 (il romanzo Fer- de- Lance, La traccia del serpente), ad opera dello scrittore Rex Stout, che da qui in poi renderà il corpulento investigatore protagonista di altri settantadue romanzi (compresi quelli brevi), ambientati per la maggior parte nella città di New York, in un periodo che va dagli anni ’30 ai ’70, delineandone le sue caratteristiche, contraddittorie ma affascinanti, e specificandone anche i natali, originariamente Trenton, New Jersey, e poi, definitivamente, un villaggio del Montenegro.

A descriverne abitudini, vezzi ed idiosincrasie, il suo assistente tuttofare, Archie Goodwin, braccio destro ed alter ego: è lui a recarsi sul luogo del delitto, procedendo ai consueti interrogatori, raccogliendo prove ed indizi e “portandoli a casa”, mentre Wolfe si interessa al caso sottopostogli con un certo distacco, apparentemente senza alcun interesse che non sia quello di guadagnare il denaro necessario a mantenere i suoi vizi, la buona cucina e il giardino pensile con le orchidee, coadiuvato rispettivamente dal cuoco svizzero Fritz Brenner e dal giardiniere Theodore Horstmann.

Scorbutico, misantropo e misogino, Wolfe si muove praticamente solo all’interno della sua abitazione in pietra arenaria (al numero 918 della 35ma strada ovest), impegnandosi, ad orari rigidamente prestabiliti, nel consueto tragitto cucina, studio e serra, una ritualità quotidiana estremamente cadenzata e scandita, che sembra infondergli sicurezza e la lucidità necessaria, pur con più di un’estrosità, a far sì che il suo intuito si dispieghi genialmente nella soluzione degli enigmi che man mano gli vengono presentati, intervallando il tutto a suon di coloriti battibecchi con Archie, spesso provocatore marpione, intercalati da salaci commenti esistenziali.

Mettendo da parte una volta tanto la mia veste di archeologo di una tv che non c’è più, novello Indiana Jones alla ricerca dello sceneggiato perduto, mi sono accinto alla visione della fiction Nero Wolfe, 8 episodi in onda su Rai Uno in prima serata da giovedì 5 aprile (La traccia del serpente, mentre il 12 è stato trasmesso Champagne per uno), lasciando da parte i ricordi, per quanto piacevoli (nelle mie “campagne di scavo” ho avuto modo di vedere ed apprezzare la serie tv del ’69, protagonisti Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, foto), con lo stesso spirito, scevro da inveterata spocchia, con il quale mi sono accostato a varie riletture, in salsa moderna o meno, delle gesta di altri celebri investigatori, come lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie o, sempre per lo stesso personaggio, ma restando sul piccolo schermo, la recente serie tv della BBC.

Devo dire che, superato lo stupore iniziale per il comunque felice escamotage messo in atto dal team di sceneggiatori (Piero Bodrato, Grazia Giardiello, Roberto Janone), il trasferimento dell’ambito d’azione di Wolfe dalla Grande Mela nella Roma di fine anni ’50 in seguito a dissidi con l’FBI e per evitare la relativa inchiesta, la mia impressione è nel complesso positiva: un buon lavoro di scrittura, volto sia a dare nuova identità a personaggi già esistenti (Andy Luotto nella parte del cuoco, ora d’origine amalfitana) o a crearne di nuovi, come la giornalista Rosa Petrini (Giulia Bevilacqua), figura molto importante per mitigare l’aura misogina che aleggia, si associa alla ferma regia di Riccardo Donna, a suo agio nella visualizzazione di tecniche spesso abusate, come il flashback, qui abbastanza fluido e funzionale, così come nei primi piani o nelle visioni d’insieme, con una certa attenzione ai particolari.

Il resto lo fanno gli attori, a partire da Francesco Pannofino negli “ingombranti” panni di Wolfe, cui offre pinguedine e carattere, giocando anche sulla mimica facciale per evidenziare tutte le spigolosità del personaggio, concedendo un tocco sornione alla nota scontrosità che sa di valore aggiunto e mai stridente, riuscendo a coniugare leggerezza ed umorismo, passando per Pietro Sermonti, Archie Goodwin, un bel mix di ironia e disincanto. Comunque, tutti gli interpreti mi sono sembrati all’altezza, pur se, in vista della ricerca di un facile consenso, alcune caratterizzazioni aderiscono ad ormai classici stereotipi (il commissario siculo, Graziani, interpretato da Marcello Mazzarella, o il poliziotto Lanzetta, Michele La Ginestra, romano verace).

In definitiva, siamo abbastanza lontani dalle consuete nozze con i fichi secchi che caratterizzano spesso i parametri qualitativi di molte fiction nostrane (unica traccia residua, oltre le suddette facili caratterizzazioni, una certa insistenza della musica a sottolineare inutilmente alcune scene), ma ancora non propriamente vicini ai livelli delle serie tv americane: riuscire però in un non facile adattamento di un classico della letteratura investigativa, coniugando eleganza, buon gusto e coerenza di stile, in nome della gradevolezza complessiva, mi sembra un buon risultato e, almeno è quanto mi auguro, un valido punto di partenza.


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