La nuova puntata di Letteratitudine Cinema contiene un pezzo "multiplo" con le recensioni di quattro film attualmente in sala che hanno tutti uno stesso comune denominatore: l'identità e l'apparenza.
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Recensione di Ornella Sgroi
Nessuno è come sembra. Nessuno è chi dice (o crede) di essere. Un tema intrigante, quello dell’identità, nella dissonanza tra realtà e apparenza. E sono ben quattro i film attualmente in sala che lo affrontano, ognuno a proprio modo. Quattro diverse divagazioni sul tema, firmate da registi altrettanto diversi. Per linguaggio, stile, narrazione, sentimento e atmosfera. Oltre che per nazionalità. Ognuno al comando di attori che lasciano il segno e che contribuiscono in modo impeccabile alla riuscita di ciascun film. Da non perdere, nessuno dei quattro, perché nessuna buona ragione sarebbe davvero una buona ragione.
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Un Tarantino insolito. Per la neve che fiocca sull’ispirazione dichiaratamente western del regista, dopo l’esperienza di “Django Unchained”. E per l’evoluzione in classico del giallo alla maniera di Agatha Christie e del suo “…E poi non rimase nessuno”. Anche se invece dei dieci piccoli indiani, Tarantino schiera otto assassini “odiosi” e irresistibili. Visivamente potentissimo, il nuovo film di Tarantino è scritto e girato con le parole ancora più che con l’azione cui il regista ci ha abituato, ma anche con la musica del Maestro Ennio Morricone, che escogita partiture da horror tra Dario Argento e John Carpenter, complici anche i suoni d’ambiente. Il vento, soprattutto e fuori di tutto, mentre dentro il rifugio i fiocchi di neve filtrano dalle fessure imbiancando la bellissima fotografia firmata da Robert Richardson. Dialoghi scoppiettanti e brutali, attori tutti in stato di grazia. Contagiati dal divertimento duro e puro che è tutto del regista statunitense e della sua banda di fuorilegge sempre in cerca di documenti che attestino una qualche verità. Un divertimento, quello di Tarantino, che fa scacco matto anche allo spettatore, costretto a fatica a mandare giù il coniglio uscito dal cilindro o, meglio, dalla botola che Tarantino avrebbe fatto bene a non aprire. Perché se giallo deve essere, allora bisogna giocarlo ad armi pari. Anche se i suoi “hateful eight”, probabilmente, non sarebbero d’accordo.
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Si intitola “Remember” ed è un film che non si dimentica. Nel suo gioco sottile e affilato tra memoria storica, quella della Shoah e dell’orrore di Awschwitz, e memoria personale, quella che ci fa ricordare cosa siamo stati e chi siamo. O chi crediamo di essere. Affidandosi ad un attore immenso e monumentale, Christopher Plummer, il regista canadese Atom Egoyan dirige 95 minuti di perfezione narrativa e cinematografica, mantenendo la tensione altissima e catturando lo spettatore fino a farlo precipitare con il protagonista in un intreccio forte dipanato con il contagocce in modo estremamente abile. Sì, “Remember” è un film che non si dimentica. Decisamente. Per la storia, potentissima. Per gli attori, magnifici. Per la regia, sapiente, impeccabile e misurata. E per la sceneggiatura, architettata con grande maestria. Fino all’ultimo colpo di scena che riavvolge la bobina e arriva dritto allo stomaco dello spettatore, come un pugno che sconquassa e stordisce. Impossibile da dimenticare.
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“A most violent year”. Il titolo originale ha più forza ed efficacia rispetto alla traduzione scelta per l’uscita italiana. Ma resta il fatto che il nuovo film di J. C. Chandor, già regista di “Margin call” e “All is lost”, sia girato con grande consapevolezza. Immerso in un’atmosfera metropolitana retrò, con un gusto classico e di genere, sta alle costole di un giovane imprenditore messo alle strette dalla piccola criminalità. E forse anche dai suoi concorrenti. In equilibrio liquido tra un Oscar Isaac contratto e sotto pressione e una Jessica Chastain manipolatrice insospettabile e magnifica, la regia dell’americano Chandor - tra Sydney Pollack e Sidney Lumet - è profonda, essenziale ma corposa, psicologica e tesa. Sul filo dell’etica, cercando a ritroso le radici americane della contaminazione tra potere economico, politica e legge.
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Addio agli scheletri nell'armadio, è tempo di fare un bel selfie-sorriso. E di immortalare una foto di gruppo tra amici di una vita e amori immuni da vacillamenti. Senza segreti, senza ombre, se non quelle capricciose di un’eclissi di Luna. Quella che manderà in frantumi (forse) le esistenze di sette “Perfetti sconosciuti”, maschere di oggi che Paolo Genovese assegna ai suoi attori per raccontare mondi familiari e personali "frangibili", tutti veri oltre la mera credibilità. Il regista dell’adorabile “Tutta colpa di Freud” torna con un film brillante e acuto, dinamico dentro la sua unità di tempo e di spazio, capace di adottare e restituire profondità di sguardo e di sentimento. Stavolta senza pietà. Puntando dritto ad un finale - la cosa più brillante del film - che lascia il vero amaro in bocca, molto più dell'apertura di tanti "cellulari di Pandora". Scatole nere delle nostre vite. E delle nostre infelicità.
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Leggi l’introduzione di Massimo Maugeri
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