Neverlake

Creato il 25 giugno 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

La camera delle bestemmie, un’infuocata domenica pomeriggio di metà giugno.

Colonna sonora: Firestarter dei Prodigy.

E via si parte!

La mia rituale estate da brivido è iniziata!

Anzi, se devo essere sincero c’è stata anche una falsa partenza.

Infatti, con lo spirito organizzativo che mi contraddistingue, avevo clamorosamente sbagliato i giorni in cui si svolge il Fantafestival di un mese esatto.

E avevo iniziato a baccagliare con la nostra addetta stampa, perché a due giorni da quello che io pensavo fosse l’inizio del festival, ancora non mi erano arrivati gli accrediti, quando lei con il sofistico distacco senza il quale le sarebbe impossibile trattare con elementi come me, mi fa notare il mio errore temporale.

Tre sono i pensieri che attraversano la scatola cranica più vuota di una storiella zen:

1-Cristo, che figura!

2-Ho bisogno di una vacanza!

3-Bhe, visto che il pezzo su Cozzi l’ho consegnato in extremis, magari mi abbuonano la consegna di giugno e mi riposo un po’…..

Ma essendo io la dimostrazione vivente delle validità delle leggi di Murphy, i miei progetti vengono puntualmente smontati dalle contingenze.

Come detto e ridetto fino alla nausea, l’estate è la stagione dei festival cinematografici, delle anteprime per la prossima stagione e dei bilanci sull’anno in corso.

Normale quindi che la redazione di una rivista che si occupa della settima arte in questo periodo sia sotto pressione come non mai.

Quindi come al solito sono precettato, questa volta per assistere alla proiezione ufficiale per la stampa di Neverlake che si è svolta il 9/06/2014 presso la Casa del Cinema di Roma.

Scansafatiche come sono, avevo cercato di preservare un ricco mese di fancazzismo assoluto adducendo improbabili scuse legate ai miei turni in negozio, ma il problema viene aggirato inviandomi il lavoro direttamente a casa, con il link per le previews-stampa, così da potermi guardare il film e scriverne la recensione nella calda intimità della camera delle bestemmie.

Anzi visto il clima, più che calda, l’intimità è proprio torrida.

Rompiamo dunque gli indugi e andiamo a parlare di Neverlake, una coproduzione tutta pizza, spaghetti e mandolino targata One More Picture e Rai Cinema, per la regia di Riccardo Paoletti.

Ora, sarà per la debolezza dovuta al caldo, ma nel momento in cui scrivo mi sento particolarmente corretto, così vi rivelo un trucco da critici un po’ bastardi.

Quando in un lavoro visionato ci sono sia degli appunti negativi che delle innegabili note di merito, se si vuole essere carogne, in genere si tengono le critiche pesanti per ultime, in modo che siano quelle che alla fine rimangano più impresse nella memoria di chi legge.

Non sarò così buonista da dire che io sia sempre stato esente da questo comportamento, anzi forse questo è il tratto deontologico che mi avvicina di più ad un serio professionista del giornalismo – in fondo anche tenere la penna dalla giusta parte del manico può essere un modo come un altro per sfogare le proprie frustrazioni represse!

Però in questo film, in cui comunque parecchie cose non mi sono piaciute, ho trovato del buono.

Considerato poi che trattasi di una produzione in cui, dopo ere geologiche, finalmente anche mamma Rai decide di aprire il borsellino per una produzione fantastica nostrana, credo sia doveroso valorizzare gli elementi buoni presenti nell’opera.

Pertanto inizierò subito togliendomi dalla scarpa il sassolino più grosso, per poter parlare del resto con più serenità.

In fondo non è nulla di apocalittico, ma è una costante che ho ritrovato spesso nei lavori dei giovani italiani della nuova onda del cinema di genere – e che non manca mai di infastidirmi.

Mi chiedo da tanto tempo e temo che continuerò a chiedermelo per parecchio ancora, perché mai i film italiani di genere fantastico, di autori italiani, con attori italiani e con soldi italiani, debbano tutte le sacrosante volte essere girati in Inglese?

Questa è una critica che non faccio solo a Paoletti.

Non ho mai mancato di farla in primis ai miei amici cineasti che mi hanno sottoposto i loro lavori.

Certamente è una mia opinione, ma costringermi a guardare una prima italiana in inglese, lingua che conosco, ma non amo, lo trovo irritante.

In primo luogo perché mi fa fare la figura del nazionalista, quando non lo sono affatto (in realtà ho sempre deriso gli atteggiamenti patriottardi); in secondo la vedo come un calarsi le braghe ad un colonialismo culturale che mi sa molto di provinciale.

La spagnola fantasy factory o la vastissima produzione francese girano nelle loro lingue d’origine e sottotitolano in inglese.

Se c’è una volontà di resuscitare il nostro cinema di genere, come molti auspicano a parole, sarebbe ora che anche noi si cominciasse a fare come i nostri cugini di Oltralpe.

Ora che mi sono tolto questo dente passiamo ad occuparci del film nello specifico.

La storia è ambientata in Toscana. La studentessa americana Jenny (Daisy Keeping) va a trovare il padre (David Brandon) nella sua casa tra boschi, vicino ad un lago.

Si può dire che sia la classica trama del consueto horror thriller.

Una serie di eventi porteranno la giovane protagonista a frequentare dei misteriosi bambini rinchiusi dentro un fatiscente nosocomio che alla fine la metteranno a conoscenza degli arcani del lago abitato dagli spiriti degli antichi Etruschi e la salveranno da una morte crudele, quanto dolorosa.

Durante la storia emergono i contrasti con la matrigna, gelosa custode dei misteri celati dietro le molte porte chiuse della casa paterna.

Come non pensare ad un rimando alla tremenda direttrice della scuola di ballo di Suspiria?

Fatto anche con molto garbo e gusto oserei dire.

La stessa figura paterna muta col dipanarsi della trama, trasformandosi da affettuosa e amorevole a efferata caricatura di se stessa via via che il suo orribile segreto viene svelato.

Il prodotto in sè non è nulla di nuovo, anzi, per larga misura è una serie di citazioni più o meno dotte, tratte da grandi capolavori del genere, però bisogna ammettere che tale collage è fatto con molta maestria.

Che Paoletti sappia usare la macchina da presa è manifesto: resiste alla tentazione di strafare col digitale, salvandosi dallo scadere in un’orgia di effetti hi-tech che ormai annoierebbe chiunque, la fotografia è curata e denota gusto e attenzione per i particolari.

Forse sono i dialoghi a peccare, a tratti, di banalità, lasciando intuire l’essere stati messi lì solo per far da collante tra una sequenza e l’altra.

Il regista dimostra anche una notevole conoscenza del sottobosco autoriale del genere fantastico/horror, oltre che dei classici.

Per la figure dei bambini non può non essersi ispirato al misconosciuto, ma originale La vendetta degli innocenti di J. S.  Cardone.

L’onirismo è a sprazzi quello del miglior Michele Soavi del bel tempo che fu, mentre le sequenze subacquee rimandano a L’ultima onda di  Peter Weir.

Così come la scena finale della bambina malata in un letto d’ospedale e il controcampo del padre, maniaco omicida, non potevano non farmi pensare al finale di Murderock del mio amatissimo Fulci.

Solo questo basterebbe per lisciarmi e farmi promuovere il titolo a pieni voti.

Però per essere giusto, devo anche essere crudele, quindi non sarei onesto se non denunciassi diversi momenti di stanchezza nella pellicola.

Azzarderò un’ipotesi, ma credo che tutto sia dovuto a una scarsa fiducia che il regista ha in se stesso.

Intendiamoci, le citazioni vanno bene, gli omaggi sono sempre cosa gradita, però non basta fare un lavoro di copia e incolla per tirar fuori il “filmone”.

Bisogna anche sapersi mettere in gioco e camminare con le proprie gambe, altrimenti si rischia di cadere  nel grottesco.

In certi punti, ad esempio, non ho potuto fare a meno di pensare che questo eccessivo calcare sull’elemento del lago, ambiente naturale e selvaggio, posseduto da spiriti ancestrali, mi ricordasse più Il bosco 1 di Andrea Marfori che non il luogo di sepoltura indiano di Cimitero vivente, come forse era invece nelle intenzioni di Paoletti.

Un’altra forzatura che volevo sottolineare è stata quella di voler far interpretare la controparte maschile di Jenny, ovvero Peter (Martin Kashirokov), alla fotocopia vivente di Robert Pattinson.

Se già l’originale mi crea emicranie e cefalee, condite da violenti attacchi di dissenteria, vi lascio immaginare che effetto può avere su di me il suo clone. Ma questo è un mio giudizio personale, ci tengo a precisarlo.

In realtà capisco bene che, per quanto ardente, il sacro fuoco dell’arte di per sé non riempie la pancia. Quindi qualche ammiccamento “pop”, per convincere i produttori ad allargare i cordoni della borsa ci sta tutto.

Anzi, se fatta consapevolmente è un’operazione smaliziata e non priva di meriti.

Tralascio il fatto che mi sembra quantomeno inusuale che un gruppo di bambini, sperduti nei boschi  appenninici, abbiano tutti nomi americani, egiziani, cingalesi e aztechi ma nemmeno uno italiano.

Concludo con una nota positiva sull’idea del doppio finale, con la madre/incubatrice di pezzi di ricambio umani rinchiusa in una soffitta.

Tutto sommato per quello che mi riguarda il film è promosso.

Non verrà citato sul Teo Mora come una pietra miliare del cinema, ma è più che buono per passare una piacevole serata in compagnia su un divano o in una sala di proiezione.

Quello che col cuore mi sento di consigliare a Paoletti è di credere di più in se stesso, e magari rischiare un pochino contando sulle sue capacità che non sono poche.

Dovrebbe mettere da parte il provincialismo e liberarsi dal complesso del brutto anatroccolo rispetto al cinema americano contemporaneo a cui non ha niente da invidiare e contribuire anche lui a far brillare di nuovo la gloriosa tradizione del cinema di genere italiano.

Colonna sonora: Tu vuò fa l’AmericanoRenato Carosone.

Master Blaster


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :