Ci sono film che s'imprimono nell'immaginazione con una forza che e' persino difficile spiegare. "Apocalypse now" e' senza dubbio uno di questi. Proseguendo nel viaggio attraverso i territori della "New Hollywood" sbirciando nelle opere di coloro che hanno contribuito a renderli fertili, abbiamo deciso che era il caso di concederci una pausa più lunga (diversi episodi a cadenza settimanale) nel "cuore di tenebra" coppoliano, allo scopo di carpire dettagli utili a circoscriverne l'inimitabile fascino e l'inesausta capacita' di proporre interrogativi di tenore estetico, filosofico, morale, nonostante siano trascorsi oltre trent'anni dalla sua apparizione. Per tale motivo, lo sforzo e' stato orientato nella direzione di fornire un certo numero (si spera) vario e stimolante di spunti e suggestioni, dando un colpo al cerchio della meraviglia e uno alla botte della comprensione, e vedendo se dalla combinazione dell'una con l'altra scaturivano idee e parole capaci di affiancarsi ed interpretare, anche in parte, quell'originario stupore. Grazie e buona lettura.
TFK
"Apocalypse now".
di: F.F.Coppola.
con: M. Sheen, M. Brando, R. Duvall, F. Forrest, A. Hall, S. Bottoms,
L. Fishburne, D. Hopper, G.D. Spradlin, H. Ford, S. Glenn, C. Wood, C. Camp,
L. Carpenter, R. Lee Ermey, C. Marquand (vers. "redux"), A. Clement (vers. "redux").
fot: V. Storaro.
scen.: D. Tavoularis.
mont: R. Marks, W. Murch, G. B. Greenberg, L. Fruchtman.
comm. narr.: M. Herr.
- USA 1979 -
durata: vers. 70mm/147'; vers. 35mm/153' e 140'; vers. "Apocalypse now redux", 197'
"We live as we dream: alone".
- J. Conrad -
- "This is the end/Beautiful friend/This is the end/My only friend, the end" -
"Saigon... merda. Sono ancora soltanto a Saigon" /("Saigon... shit. I'm still only in Saigon").
I primi pensieri (questi, come tutti gi altri, redatti da Michael Herr, giornalista, scrittore e corrispondente dal Vietnam dal 1967 al 1969, collaboratore alla sceneggiatura anche per "Full metal jacket" di Kubrick) del più che esperto in "missioni laterali" capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), del 505/o battaglione, 173/a aviotrasportata, assegnato alle Operazioni speciali, dell'esercito degli Stati Uniti, chiarificano in maniera esemplare il dettato di Coppola sullo stato d'ineluttabile cattività in cui si trovava, si trova (e con ogni probabilità finirà per spegnersi in una lunghissima agonia/declino, preconizzata per una parte dai versi di Eliot tratti da "The hollow men", 1925, con sul frontespizio, ancora una coincidenza ?, "Mistah Kurtz mori'", recitati da Kurtz (Marlon Brando) - "E' questo il modo in cui il mondo finisce/Non già con uno schianto ma con un piagnisteo" e ridicolizzata per l'altra dal funambolico reporter impersonato da Dennis Hopper - "E' così che va questo cazzo di mondo. Guarda in che cazzo di merda ci troviamo. Non con un bum. Un sospiro. E io con un sospiro mi levo dalle palle, ragazzo !", la psiche, la coscienza, la cultura occidentale, in mai così più perfetta aderenza alla sua radice etimologica: "occidente", dal lat. "occidere", "cadere", fig. "tramontare", quindi "terra del tramonto". E più precisamente: "europa" - che in antico indicava l'occidente - dall'assiro "erebu" o "erabu", a dire "offuscato" nel senso di "in ombra", come e' l'Ovest al disparire della luce e come ricorda anche l'imbarcazione citata da Conrad in "Cuore di tenebra", l'"Erebus", una di "quelle navi i cui nomi sono come gioielli lampeggianti nella notte" anche se "dirette verso altre conquiste, ... non tornarono più" e pur richiamando divinità ctonie (gr. "Erebos", lat. "Erebus", 'tenebre'). Così ancora, in opposta simmetria, "oriente", "Asia", si accorda all'accadico "asu", "la' dove sorge il sole". Un luogo del corpo e della mente, insomma, che somiglia sempre più ad un non ricomponibile groviglio di pulsioni inconfessabili tanto quanto represse; di reminiscenze oniriche travisate; di stasi allucinatorie; di feroci orgogli infantili; di manie prevaricatrici; d'insaziabili ingordigie; d'esasperanti impotenze, di ottuse e spesso compiaciute efferatezze, sempre con maggior fatica dissimulate dall'esausta placenta dei "valori", dei "fardelli colonizzatori", le famigerate "tre C" di livingstoniana memoria, Commercio/Cristianesimo/Civilizzazione. E dei principi, dei codici e delle leggi: dei numeri e dei conti. Prima l'"espansione europea"; dopo il "neo-imperialismo" americano. L'apocalisse e' adesso, e' qui, per noi, come e' stata prima e come probabilmente sarà, perché alligna da sempre nel cuore di una Cultura, come un'ombra ("Heart of darkness", appunto e non per caso nell'idea, tante volte sottolineata ma già intuita da Conrad di "fine-che-non-finisce-mai-di-finire"); influenza/infetta la rappresentazione che essa ha di se' e del mondo; nutre e avvelena quel tanto da tenerla in vita la contraddizione col Corpo Naturale, nella forma di un dissidio perenne tra ossessione di predominio e nostalgia di ricongiungimento.
L'ultimo scorcio degli anni '70 è stato un periodo in cui si è visto - tra l'altro - il consolidarsi delle "pretese" dei cosiddetti "movie brats"/"nuovi 'ragazzacci' del cinema": la New Hollywood, in altre parole. Tutto questo accadeva all'interno di un contesto sociale (siamo a cavallo tra le presidenze Ford e Carter), in cui non solo le ferite del conflitto vietnamita ma pure le delusioni e i ripiegamenti inerenti al sostanziale fallimento delle istanze utopico/libertarie/pacifiste della controcultura, nonché il sempre più avvertibile slittamento verso forme di comunità e relazione centrate sul lato materiale, disimpegnato, edonistico del vivere, erano tutt'altro che in via di guarigione. "Nickelodeon"/"Vecchia America" di Bogdanovich col suo slancio affettuoso per il cinema che fu, data 1976. De Palma, ancora in quell'anno, in "Obsession"/"Complesso di colpa", con un occhio all'amato Hitchcock e l'altro ben concentrato sui tempi, sperimenta la labilita' di confini tra apparenza e verosimiglianza. Scorsese - siamo sempre nel '76 - disintegra il mito della metropoli come culla delle opportunità del singolo tratteggiando di contro uno dei più sinistri apologhi sulla solitudine umana, in "Taxi driver"/id. Lucas è ai primi passi nella creazione del "suo Idaho privato" e delle a lui relative "Star wars"/"Guerre stellari" (1977). Spielberg, di nuovo nel '77, imprime il sigillo della "meraviglia" nel progetto di una sorta di "fantascienza adolescente", incantata tanto quanto irrequieta, in "Close encounters of the third kind"/"Incontri ravvicinati del terzo tipo". Milius sposa l'elegia virile alla resilienza del disinganno in "Big wednsday"/"Un mercoledì da leoni" (1978). Cimino, ancora nel '78, anticipa le angosce e i dilemmi coppoliani privilegiando la devastazione operata dal conflitto indocinese nella sfera del senno e dei rapporti personali, insinuandosi con mano felice nei territori del melo' e nella sofferta alchimia generata da un lirismo intimista restio a cedere alle lusinghe del patetico, in "The deer hunter"/"Il Cacciatore" (affresco iniziato dopo ma finito di girare prima di "Apocalypse now")... In siffatto quadro, Coppola s'inserisce come una specie di fratello maggiore. Di nome - Lucas, ad esempio, ricorda senza problemi la sua ascendenza, il ruolo guida di uno che era stato "il primo che, uscito da una scuola di cinema, aveva fatto fortuna ad Hollywood. Per noi tutti, lui era un fenomeno. Uno che aveva aperto le porte" - e di fatto, anagraficamente: tranne Bogdanovich e Cimino, dei quali e' coevo, Coppola precede di qualche anno tutti gli altri. Un uomo, per dire, che ha già alle spalle successi importanti (i più grossi: i due "Padrino" e "La conversazione"); a cui sempre più calza la fama di regista "titanico" - per l'ampiezza di visione dei suoi progetti (e "Apocalypse now" e' in quella direzione che si avvia, con un impegno produttivo per i tempi spropositato, lievitato fino a circa $ 30 mln, che finisce quasi per mettere in ginocchio - ci penserà "One fron the heart/"Un sogno lungo un giorno", quasi a ruota - 1982 - a darle il bacio della morte - la si' cara Zoetrope e pretende in sovrappiù le sostanze personali dello stesso regista italo-americano. Del resto quello che sarebbe stato definito il suo "gigantismo autolesionista", nel tempo raccoglie e accantona sogni non meno favolosi di quelli che riposano nei cassetti di Kubrick) - e magniloquente - per la capacita' di raccontare sollecitando continuamente i generi, rimescolando i linguaggi e le influenze, nella direzione ampia e solenne di storie speziate dal sapore raro dell'epopea.
- "Of our elaborate plans, the end/Of everything that stands, the end/No safety or surprise, the end/I'll never look into your eyes... again" -
"Uno dei "femori" su cui poggia il peso di un'opera come "Apocalypse now", complessa, discontinua (più compatta e suggestiva nella prima parte; più frammentaria, allucinatoria e metaforica nella seconda, caratteristica, quest'ultima, vieppiù evidente nella versione "redux"); ambiziosa, surreale (sfumatura simpaticamente "preconizzata" dalla piccola Sofia Coppola - quattro anni - che, giunta col resto della famiglia nelle Filippine "teatro delle operazioni", apostrofo' ciò che vedeva attorno a se' con un "Sembra la gìungla di Disneyland" e quasi riportata letteralmente nel film per bocca del surfista Lance, il personaggio più candido e "infantile" dell'equipaggio salpato alla volta di Kurtz, il quale commentando brani della sua corrispondenza, non esiterà ad esclamare: " 'Non esiste un altro posto come Disneyland. O forse esiste, dimmelo tu'. Jim... e' qui. E' proprio qui"/[" 'There can never be a place like Disneyland, or could there ? Let me know'. Jim... it's here. Really is here"]. E a concludere, poco dopo: "Cazzo, ma questo e' meglio di Disneyland" /["Disneyland. Fuck, man. This is better than Disneyland"]); stratificata (basterebbe a rendere l'idea, l'uso del sonoro, orchestrato su un tappeto di accordi - sovente per tastiere - usato di preferenza in crescendo ad accompagnare lo sciabordare dell'acqua del fiume sui fianchi dell'imbarcazione "fatale" o le riflessioni sempre più arrese di Willard: più in generale, la progressiva "manovra di accerchiamento" dell'intera opera da parte di uno speciale microcosmo di suoni e di timbri; lo sfilacciarsi senza tregua di un viluppo amniotico sempre più atro e atemporale, evocativo e ipnotico, tale da polverizzare gli usuali appigli della "narrazione" in filamenti di suggestioni sfuggenti, personalissime, affini all'"esperienza"); sofferta (diciassette mesi di riprese; più o meno ventiquattro di montaggio; set distrutti dai tifoni; Martin Sheen colpito da un attacco cardiaco; capricci da parte della "diva" Brando, le cui pretese e bizzarrie - una per tutte: non conosceva il testo conradiano e di primo acchito non aveva la minima voglia di conoscerlo - non erano meno smisurate della sua ingombrante stazza; periodi bui trascorsi tra sconforto e depressione; tentazioni suicide); spartiacque (apogeo e saturazione della stessa "New Hollywood"; macigno sul crinale che avrebbe finito per imporre, anche grazie alla sua comparsa, un'altra logica, quella del "blockbuster" a scapito della "nuova linea" degli autori); magnificamente irrisolta perché sempre aperta ad ulteriori suggestioni - essendo l'altro, come e' arcinoto, il racconto-lungo o romanzo-breve che dir si voglia, "Heart of darkness/"Cuore di tenebra" di Joseph Conrad, pubblicato per la prima volta integralmente nella raccolta "Youth, a narrative, and two other stories"/"Gioventù ed altre due storie", nel 1902, e oggetto dell'attenzione di uno come Orson Welles, autore di un personale adattamento per l'esordio sul grande schermo, neanche a dirlo rifiutato da Hollywood - e' la suggestione/intuizione, poi trasfusa nella sceneggiatura, balenata a John Milius e riportata da Karl French nel suo libro sul film, relativa alla vicenda del colonnello dei Berretti Verdi Robert Rheault. L'ufficiale nel '69 venne portato di fronte alla Corte Marziale con l'imputazione di avere eliminato sommariamente una guida vietnamita sospettata (pare a ragione) di giocare su due tavoli: l'accusa in aula non resse ma la carriera militare del colonnello Rheault da quell'istante non ebbe più un futuro. Soffermandoci, in particolare, sulle considerazioni di Milius a margine di questo episodio, e' possibile rintracciare senza esitazioni i primi sedimenti di una accumulazione narrativa/psicologica/emotiva che - nel caso, concorre assai alla sgrossatura del personaggio/totem del colonnello Walter E. Kurtz - ma, più latamente, si agglutina quasi senza attrito in rivoli e quantità diverse a compattare, tra ispirazione e costrutto, estro e analisi, la robusta fibra dell'intero film: "Ciò che accadde a Rheault", noto' Milius, "era estremamente interessante. Alla base c'era l'idea che le truppe USA si trovassero li' a mettere in atto la propria linea di politica estera... ... Quindi: quest'uomo fa il proprio lavoro, cioè, cerca di vincere. Alla fine viene incarcerato, viene fatto cadere per aver cercato di vincere". Del resto, come si vedrà, l'intero corpo del "monstum" (nel senso classico del temine) coppoliano e' animato da questi riflessi concordi sulla riga più o meno falsa, più o meno riveduta/trasgredita del testo di Conrad (linea che genero' non pochi attriti con l'amico Milius, incline ad una visione più personale e violenta della vicenda); gesto non così retrogrado che appartiene allo stesso modo anche all'altro polo di attrazione caratteriale/simbolico della vicenda: il capitano Willard. Ad esempio, ed in maniera molto elementare, tanto Marlow nel racconto dello scrittore anglo-polacco ripercorre i momenti salienti di quella parte del suo passato che ha ricevuto duratura impronta dall'incontro/scontro col Kurtz della Stazione Interna nel cuore equatoriale africano, parimenti, Willard, nell'itinerario di avvicinamento all'obiettivo di quella missione ultimata la quale "non ne avrei voluta più una" - a dire, il Kurtz soldato delle Brigate Aerotrasportate, ex V Forze Speciali dell'esercito degli Stati Uniti - affida alla sua voce narrante in bilico "sopra" gli avvenimenti il resoconto "razionale", puntuale e preciso (e qui ci s'imbatte, da subito, in una notevole trovata di Coppola, in grado di generare quasi a freddo uno straniamento/disagio a cavallo tra la sempre maggiore insensatezza di ciò che si svolge sullo schermo e lo sforzo, faticoso, doloroso, anch'esso a suo modo "insensato" in quel contesto, di comprensione, d'inquadramento logico secondo una qualunque forma di "ratio" come insegna lo schema tipico del pensiero occidentale, non tanto della guerra in quanto tale, che di quello schema e' una delle manifestazioni più concrete e ricorrenti ma banalmente della propria funzione e di quella del proprio, teorico perché ancora tutto da scoprire, antagonista: bisogno di "coerenza", di "delimitazione consequenziale" ribadita ancora nel pre-finale, allorché apostrofato da Kurtz: "I miei metodi sono malsani ?", Willard mormora, stranito ma deciso, ancora aderente o, forse, rassegnato, alla solita idea/illusione di "ordine", di "criterio" come "bene rifugio" a cui attingere o in cui ritrarsi: "Io non vedo alcun metodo, signore"), delle riflessioni in lui suscitate da tutto ciò che lo sta coinvolgendo.
Avvisaglie angoscianti del "disagio della civiltà" rappresentato da Willard (alla stregua di Marlow) e che, in generale - in modo che sarebbe puerile se non fosse in realtà tragico - tutto l'Occidente si porta dietro come un male oscuro (ecco la "darkness" di Conrad) a spasso per il mondo e che tenta di esorcizzare/lenire anche mediante l'esportazione di se' (quindi anche della propria "tenebra", del proprio "orrore"), nel divincolarsi schizofrenico delle brutalità belliche ammantate di "sorti e progressive", intrappolano il personaggio sin dalle prime inquadrature a lui dedicate: scene brevi, a volte brevissime, alternate a primi piani e lenti movimenti laterali della mdp, blandi, tra nausea, prostrazione, visioni (un Buddha khmer) - spesso dissolventisi le une negli altri e viceversa - ci consegnano Willard in preda alla "cafard" - la malinconia di Saigon, secondo l'espressione lasciata in eredita' dai francesi - coi suoi demoni miserabili e autodistruttivi. "Talvolta non capivo se un'azione durava un secondo o un'ora o se l'avevo sognata o qualcos'altro. In guerra più che nelle altre cose della vita, per la maggior parte del tempo non sai veramente cosa stai facendo. Ti comporti come si deve e basta, e in seguito ci puoi costruire sopra tutte le balle che ti pare, dire che stavi bene o male, che l'hai amata o odiata, che hai fatto questo o quell'altro, la cosa giusta o quella sbagliata: comunque, quel che e' successo e' successo" - M.Herr "Dispacci" - Tornato da una fallimentare licenza che ha sancito la disgregazione definitiva dei suoi legami ("A mia moglie non dissi una parola sin quando non dissi 'si''al divorzio"/["I hardly said a word to my wife until I said 'yes' to a divorce"]), sdraiato anche riverso sul suo letto (ad impedire una totale immedesimazione tra il suo "punto di vista" esteriore e interiore ed il nostro), in attesa di un'altra missione ("Tutti ottengono tutto quello che vogliono. Io volevo una missione e per i miei peccati me ne hanno data una... Era una missione davvero eccezionale e quando l'avrei portata a termine non ne avrei voluta più un'altra") più che altro per drenare la disperazione e l'incipiente follia con l'attività, osservando gli spettri di un passato irrecuperabile (fogli sparsi, qualche libro, lettere, fotografie, in ultimo, la pistola d'ordinanza) immersi in un lucore opaco da natura morta, da paesaggio attonito tra Morandi e la carnalità respingente di L. Freud; immerso in un gorgo di segni anticipatori di dissociazione ("Quand'ero qui volevo essere la' [a casa]. Quand'ero la', non potevo pensare ad altro che a tornare nella giungla.../["When I was here, I wanted to be there. When I was there, all I could think of was getting back into the jungle"]... Ogni minuto che passo in questa stanza divento più debole e 'Charlie'... si', lo abbiamo chiamato amichevolmente così, il nemico. 'Charlie' ogni minuto che passa accovacciato nella giungla, diventa più forte... ... Ogni volta che mi guardavo intorno, le pareti mi stringevano sempre più da vicino..."/["Each time I look around, the walls move in a little tighter"]), col frullare delle eliche della ventilazione ad inchiodare nella testa, nel ricordo, il mulinare monotono e tetro dei rotori degli elicotteri in missione, il soldato inganna il tempo e gioca con la Morte... Al solito, Lei non impiega molto a trovare la porta giusta a cui bussare e a condurre "... a settimane di distanza e a centinaia di miglia su per il fiume, che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico col terminale inserito direttamente dentro Kurtz..."/("... weeks away and hundreds of miles up a river that snaked through the war like a main circuit cable and plugged straight into Kurtz"). "Quanto ai miei sogni, quelli che persi laggiù si sarebbero fatti strada più tardi, avrei dovuto saperlo. Certe cose, e' naturale, si limitano a seguirti finche' non hanno attecchito. Sarebbe giunta la notte in cui sarebbero stati vividi e persistenti, la notte d'inizio di una lunga catena, allora avrei ricordato e mi sarei svegliato con il dubbio di non essere mai stato per davvero in nessuno di quei luoghi" - M.Herr, op, cit. - Vibrazioni, oscillazioni quasi sincrone che avremmo ritrovato di li' a poco nel tessuto recondito della generazione a venire, gioventù non meno tormentata, non meno perplessa: "Guardando avanti nella morsa delle paure/Sembra la vita che conoscevamo/L'ombra che stava sul lato della strada/Mi fa ricordare sempre di te/.../Come posso trovare il giusto modo di controllare/Tutti i conflitti interiori, tutti/I problemi circostanti/Mentre sorgono interrogativi/E le risposte sono inadeguate/Nella mia situazione/Nella mia situazione..." - Joy Division, "Komakino" -
Il conferimento della missione a Willard si svolge durante un pranzo di lavoro in un alone di formalità, convenevoli e falsa cordialità (a tavola, il generale Corman, interpretato da G.D. Spradlin, si rivolge in tono colloquiale a Willard sostenendo che assaggiando i gamberi di fiume che gli sta porgendo "non dovrà mai più dare prova del suo coraggio in altro modo"). Al fianco del generale si muovono un ten.col., impersonato da Harrison Ford - specie di subdolo cerimoniere travestito da ufficiale - e Jerry, enigmatico personaggio che sospettiamo appartenente ai Servizi e che per gran parte dell'incontro tace, scrutando di sottecchi Willard. L'ironia e il disappunto di Coppola si manifestano quando c'imbattiamo in alcune esplicite "occhiate in macchina" dei tre, ossia la protervia, la compassata sfacciataggine (sottolineata da un'atmosfera immersa in una luce chiara, piena, più vivida di quella fin li' mostrata, che parla il linguaggio sterile di un'ipotetico superamento dell'irrazionale/"darkness" attraverso la platealita', la "chiarezza" di una presunta disposizione fondata su una "logica assoluta" o su una qualche "necessita'"; in realtà un contorto inganno volto a dissimulare la tenebra nell'apparenza stordente dell'abbaglio) con cui il Potere - e dietro, la Politica, il Denaro - pretende, giocando tra saccenza e intercalare meditativo ("Era buono, arguto, spiritoso [Kurtz]... Entro' nelle forze speciali. Dopodiché i suoi metodi divennero... malsani. Malsani"; "In mezzo a questi indigeni si può essere spinti a prendersi per Iddio"; "A volte le cattive tentazioni hanno la meglio su quelli che Lincoln chiamava 'i migliori angeli della nostra indole', i buoni istinti morali") di renderci corresponsabili di un crimine allo scopo di auto assolversi, facendo leva sulla complicità e la "ragion di stato", nonché d'infliggere con i comportamenti conseguenti ferite profonde e durature al tessuto umano e materiale di tutto ciò che a quella volontà si oppone, vuoi l'universo misterioso dei Vietcong - non a caso, come visto, ridotto al nomignolo semplicistico/consolatorio di "Charlie" - vuoi la "wilderness" tutta, rompicapo inattaccabile per la Civiltà ("La Missione ci raccontava sempre di unita' vietcong impegnate in combattimento e annientate e poi riapparse un mese dopo al completo, cosa neanche troppo misteriosa, pero' quando attaccavamo il loro terreno, di solito lo prendevamo definitivamente, e anche se non riuscivamo a conservarlo si poteva sempre vedere che almeno c'eravamo stati" - M.Herr, op. cit.). Nei confronti di tale strategia, Willard assume un atteggiamento rispettoso/passivo ma ancora guardingo: il suo sguardo e' leggermente obliquo rispetto al piano della mdp, rifugge cioè, in parte, il nostro, l'ipocrisia che ne deriverebbe, cosa fatta invece senza mediazioni da Kurtz, anzi dalla sua voce registrata di straforo sul confine cambogiano ("Non dobbiamo ucciderli. Dobbiamo incenerirli. Un maiale dopo l'altro. Una vacca dopo l'altra. Un villaggio dopo l'altro. Un esercito dopo l'altro... Mi chiamano assassino... Come si chiama questo ? Quando gli assassini accusano l'assassino... Noi mentiamo. Mentiamo e dobbiamo essere clementi verso quelli che mentono... Questi... nababbi. Io li odio. Li odio a morte", parole che ricordano nemmeno troppo alla lontana certi strali rimbaudiani contenuti in "Una stagione all'inferno": "Si', ho gli occhi chiusi alla vostra luce. Sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Siete dei falsi negri, voi maniaci, voi feroci, voi avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, tu sei negro; generale tu sei negro; imperatore, vecchia prurigine, tu sei negro: hai brindato con un liquore non tassato, della distilleria di Satana". Come pure: "Cielo ! In quanti siamo dannati, quaggiù. Quanto tempo ho già passato con questa turba. Li conosco tutti. Ci riconosciamo sempre: ci facciamo schifo. La carità ci e' sconosciuta. Ma siamo beneducati: le nostre relazioni con la gente sono molto corrette"), per incrociarlo una sola volta, per qualche interminabile istante, alla fine della riunione, allorché al proprio freddo stupore - lo stupore inerme e ottuso di chi ha ceduto alla tenebra - "Porre fine... al colonnello ?"/("Terminate ? The Colonel ?"), biascica, si vede rifilare da Jerry, fino a quel momento silente, l'unica frase da lui pronunciata: "Porre fine. Senza scrupoli di sorta""/("Terminate with extreme prejudice").
- prima parte -
TFK