"New Hollywood" (10) Intro: Ci sono film che s'imprimono nell'immaginazione con una forza che e' persino difficile spiegare. "Apocalypse now" e' senza dubbio uno di questi. Proseguendo nel viaggio attraverso i territori della "New Hollywood" sbirciando nelle opere di coloro che hanno contribuito a renderli fertili, abbiamo deciso che era il caso di concederci una pausa più lunga (diversi episodi a cadenza settimanale) nel "cuore di tenebra" coppoliano, allo scopo di carpire dettagli utili a circoscriverne l'inimitabile fascino e l'inesausta capacita' di proporre interrogativi di tenore estetico, filosofico, morale, nonostante siano trascorsi oltre trent'anni dalla sua apparizione. Per tale motivo, lo sforzo e' stato orientato nella direzione di fornire un certo numero (si spera) vario e stimolante di spunti e suggestioni, dando un colpo al cerchio della meraviglia e uno alla botte della comprensione, e vedendo se dalla combinazione dell'una con l'altra scaturivano idee e parole capaci di affiancarsi ed interpretare, anche in parte, quell'originario stupore. Grazie e buona lettura. TFK "Apocalypse now". di: F.F.Coppola. con: M. Sheen, M. Brando, R. Duvall, F. Forrest, A. Hall, S. Bottoms, L. Fishburne, D. Hopper, G.D. Spradlin, H. Ford, S. Glenn, C. Wood, C. Camp, L. Carpenter, R. Lee Ermey, C. Marquand (vers. "redux"), A. Clement (vers. "redux"). fot: V. Storaro. scen.: D. Tavoularis. mont: R. Marks, W. Murch, G. B. Greenberg, L. Fruchtman. comm. narr.: M. Herr. - USA 1979 - durata: vers. 70mm/147'; vers. 35mm/153' e 140'; vers. "Apocalypse now redux", 197'. "We live as we dream: alone". - J. Conrad - - "This is the end/Beautiful friend/This is the end/My only friend, the end" - "Saigon... merda. Sono ancora soltanto a Saigon"/("Saigon... shit. I'm still only in Saigon"). I primi pensieri (questi, come tutti gi altri, redatti da Michael Herr, giornalista, scrittore e corrispondente dal Vietnam dal 1967 al 1969, collaboratore alla sceneggiatura anche per "Full metal jacket" di Kubrick) del più che esperto in "missioni laterali" capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), del 505/o battaglione, 173/a aviotrasportata, assegnato alle Operazioni Speciali, dell'esercito degli Stati Uniti, chiarificano in maniera esemplare il dettato di Coppola sullo stato d'ineluttabile cattività in cui si trovava, si trova (e con ogni probabilità finirà per spegnersi in una lunghissima agonia/declino, preconizzata per una parte dai versi di Eliot tratti da "The hollow men", 1925, con sul frontespizio, ancora una coincidenza ?, "Mistah Kurtz mori'", recitati da Kurtz (Marlon Brando) - "E' questo il modo in cui il mondo finisce/Non già con uno schianto ma con un piagnisteo" e ridicolizzata per l'altra dal funambolico reporter impersonato da Dennis Hopper - "E' così che va questo cazzo di mondo. Guarda in che cazzo di merda ci troviamo. Non con un bum. Un sospiro. E io con un sospiro mi levo dalle palle, ragazzo !"), la psiche, la coscienza, la cultura occidentale, in mai così più perfetta aderenza alla sua radice etimologica: "occidente", dal lat. "occidere", "cadere", fig. "tramontare", quindi "terra del tramonto". E più precisamente: "europa" - che in antico indicava l'occidente - dall'assiro "erebu" o "erabu", a dire "offuscato" nel senso di "in ombra", come e' l'Ovest al disparire della luce e come ricorda anche l'imbarcazione citata da Conrad in "Cuore di tenebra", l'"Erebus", una di "quelle navi i cui nomi sono come gioielli lampeggianti nella notte" anche se "dirette verso altre conquiste, ... non tornarono più" e pur richiamando divinità ctonie (gr. "Erebos", lat. "Erebus", 'tenebre'). Così ancora, in opposta simmetria, "oriente", "Asia", si accorda all'accadico "asu", "la' dove sorge il sole". Un luogo del corpo e della mente, insomma, che somiglia sempre più ad un non ricomponibile groviglio di pulsioni inconfessabili tanto quanto represse; di reminiscenze oniriche travisate; di stasi allucinatorie; di feroci orgogli infantili; di manie prevaricatrici; d'insaziabili ingordigie; d'esasperanti impotenze, di ottuse e spesso compiaciute efferatezze, sempre con maggior fatica dissimulate dall'esausta placenta dei "valori", dei "fardelli colonizzatori", le famigerate "tre C" di livingstoniana memoria, Commercio/Cristianesimo/Civilizzazione. E dei principi, dei codici e delle leggi: dei numeri e dei conti. Prima l'"espansione europea"; dopo il "neo-imperialismo" americano. L'apocalisse e' adesso, e' qui, per noi, come e' stata prima e come probabilmente sarà, perché alligna da sempre nel cuore di una Cultura, come un'ombra ("Heart of darkness", appunto e non per caso nell'idea, tante volte sottolineata ma già intuita da Conrad di "fine-che-non-finisce-mai-di-finire"); influenza/infetta la rappresentazione che essa ha di se' e del mondo; nutre e avvelena quel tanto da tenerla in vita la contraddizione col Corpo Naturale, nella forma di un dissidio perenne tra ossessione di predominio e nostalgia di ricongiungimento. L'ultimo scorcio degli anni '70 e' stato un periodo in cui si e' visto - tra l'altro - il consolidarsi delle "pretese" dei cosiddetti "movie brats"/"nuovi 'ragazzacci' del cinema": la New Hollywood, in altre parole. Tutto questo accadeva all'interno di un contesto sociale (siamo a cavallo tra le presidenze Ford e Carter), in cui non solo le ferite del conflitto vietnamita ma pure le delusioni e i ripiegamenti inerenti al sostanziale fallimento delle istanze utopico/libertarie/pacifiste della controcultura, nonché il sempre più avvertibile slittamento verso forme di comunità e relazione centrate sul lato materiale, disimpegnato, edonistico del vivere, erano tutt'altro che in via di guarigione. "Nickelodeon"/"Vecchia America" di Bogdanovich col suo slancio affettuoso per il cinema che fu, data 1976. De Palma, ancora in quell'anno, in "Obsession"/"Complesso di colpa", con un occhio all'amato Hitchcock e l'altro ben concentrato sui tempi, sperimenta la labilita' di confini tra apparenza e verosimiglianza. Scorsese - siamo sempre nel '76 - disintegra il mito della metropoli come culla delle opportunità del singolo tratteggiando di contro uno dei più sinistri apologhi sulla solitudine umana, in "Taxi driver"/id. Lucas e' ai primi passi nella creazione del "suo Idaho privato" e delle a lui relative "Star wars"/"Guerre stellari" (1977). Spielberg, di nuovo nel '77, imprime il sigillo della "meraviglia" nel progetto di una sorta di "fantascienza adolescente", incantata tanto quanto irrequieta, in "Close encounters of the third kind"/"Incontri ravvicinati del terzo tipo". Milius sposa l'elegia virile alla resilienza del disinganno in "Big wednsday"/"Un mercoledì da leoni" (1978). Cimino, ancora nel '78, anticipa le angosce e i dilemmi coppoliani privilegiando la devastazione operata dal conflitto indocinese nella sfera del senno e dei rapporti personali, insinuandosi con mano felice nei territori del melo' e nella sofferta alchimia generata da un lirismo intimista restio a cedere alle lusinghe del patetico, in "The deer hunter"/"Il Cacciatore" (affresco iniziato dopo ma finito di girare prima di "Apocalypse now")... In siffatto quadro, Coppola s'inserisce come una specie di fratello maggiore. Di nome - Lucas, ad esempio, ricorda senza problemi la sua ascendenza, il ruolo guida di uno che era stato "il primo che, uscito da una scuola di cinema, aveva fatto fortuna ad Hollywood. Per noi tutti, lui era un fenomeno. Uno che aveva aperto le porte" - e di fatto, anagraficamente: tranne Bogdanovich e Cimino, dei quali e' coevo, Coppola precede di qualche anno tutti gli altri. Un uomo, per dire, che ha già alle spalle successi importanti (i più grossi: i due "Padrino" e "La conversazione"); a cui sempre più calza la fama di regista "titanico" - per l'ampiezza di visione dei suoi progetti (e "Apocalypse now" e' in quella direzione che si avvia, con un impegno produttivo per i tempi spropositato, lievitato fino a circa $ 30 mln, che finisce quasi per mettere in ginocchio - ci penserà "One fron the heart/"Un sogno lungo un giorno", quasi a ruota - 1982 - a darle il bacio della morte - la si' cara Zoetrope e pretende in sovrappiù le sostanze personali dello stesso regista italo-americano. Del resto quello che sarebbe stato definito il suo "gigantismo autolesionista", nel tempo raccoglie e accantona sogni non meno favolosi di quelli che riposano nei cassetti di Kubrick) - e magniloquente - per la capacita' di raccontare sollecitando continuamente i generi, rimescolando i linguaggi e le influenze, nella direzione ampia e solenne di storie speziate dal sapore raro dell'epopea. - "Of our elaborate plans, the end/Of everything that stands, the end/No safety or surprise, the end/I'll never look into your eyes... again" - Uno dei "femori" su cui poggia il peso di un'opera come "Apocalypse now", complessa, discontinua (più compatta e suggestiva nella prima parte; più frammentaria, allucinatoria e metaforica nella seconda, caratteristica, quest'ultima, vieppiù evidente nella versione "redux"); ambiziosa, surreale (sfumatura simpaticamente "preconizzata" dalla piccola Sofia Coppola - quattro anni - che, giunta col resto della famiglia nelle Filippine "teatro delle operazioni", apostrofo' ciò che vedeva attorno a se' con un "Sembra la gìungla di Disneyland" e quasi riportata letteralmente nel film per bocca del surfista Lance, il personaggio più candido e "infantile" dell'equipaggio salpato alla volta di Kurtz, il quale commentando brani della sua corrispondenza, non esiterà ad esclamare: " 'Non esiste un altro posto come Disneyland. O forse esiste, dimmelo tu'. Jim... e' qui. E' proprio qui"/[" 'There can never be a place like Disneyland, or could there ? Let me know'. Jim... it's here. Really is here"]. E a concludere, poco dopo: "Cazzo, ma questo e' meglio di Disneyland" /["Disneyland. Fuck, man. This is better than Disneyland"]); stratificata (basterebbe a rendere l'idea, l'uso del sonoro, orchestrato su un tappeto di accordi - sovente per tastiere - usato di preferenza in crescendo ad accompagnare lo sciabordare dell'acqua del fiume sui fianchi dell'imbarcazione "fatale" o le riflessioni sempre più arrese di Willard: più in generale, la progressiva "manovra di accerchiamento" dell'intera opera da parte di uno speciale microcosmo di suoni e di timbri; lo sfilacciarsi senza tregua di un viluppo amniotico sempre più atro e atemporale, evocativo e ipnotico, tale da polverizzare gli usuali appigli della "narrazione" in filamenti di suggestioni sfuggenti, personalissime, affini all'"esperienza"); sofferta (diciassette mesi di riprese; più o meno ventiquattro di montaggio; set distrutti dai tifoni; Martin Sheen colpito da un attacco cardiaco; capricci da parte della "diva" Brando, le cui pretese e bizzarrie - una per tutte: non conosceva il testo conradiano e di primo acchito non aveva la minima voglia di conoscerlo - non erano meno smisurate della sua ingombrante stazza; periodi bui trascorsi tra sconforto e depressione; tentazioni suicide); spartiacque (apogeo e saturazione della stessa "New Hollywood"; macigno sul crinale che avrebbe finito per imporre, anche grazie alla sua comparsa, un'altra logica, quella del "blockbuster" a scapito della "nuova linea" degli autori); magnificamente irrisolta perché sempre aperta ad ulteriori suggestioni - essendo l'altro, come e' arcinoto, il racconto-lungo o romanzo-breve che dir si voglia, "Heart of darkness/"Cuore di tenebra" di Joseph Conrad, pubblicato per la prima volta integralmente nella raccolta "Youth, a narrative, and two other stories"/"Gioventù ed altre due storie", nel 1902, e oggetto dell'attenzione di uno come Orson Welles, autore di un personale adattamento per l'esordio sul grande schermo, neanche a dirlo rifiutato da Hollywood - e' la suggestione/intuizione, poi trasfusa nella sceneggiatura, balenata a John Milius e riportata da Karl French nel suo libro sul film, relativa alla vicenda del colonnello dei Berretti Verdi Robert Rheault. L'ufficiale nel '69 venne portato di fronte alla Corte Marziale con l'imputazione di avere eliminato sommariamente una guida vietnamita sospettata (pare a ragione) di giocare su due tavoli: l'accusa in aula non resse ma la carriera militare del colonnello Rheault da quell'istante non ebbe più un futuro. Soffermandoci, in particolare, sulle considerazioni di Milius a margine di questo episodio, e' possibile rintracciare senza esitazioni i primi sedimenti di una accumulazione narrativa/psicologica/emotiva che - nel caso, concorre assai alla sgrossatura del personaggio/totem del colonnello Walter E. Kurtz - ma, più latamente, si agglutina quasi senza attrito in rivoli e quantità diverse a compattare, tra ispirazione e costrutto, estro e analisi, la robusta fibra dell'intero film: "Ciò che accadde a Rheault", noto' Milius, "era estremamente interessante. Alla base c'era l'idea che le truppe USA si trovassero li' a mettere in atto la propria linea di politica estera... ... Quindi: quest'uomo fa il proprio lavoro, cioè, cerca di vincere. Alla fine viene incarcerato, viene fatto cadere per aver cercato di vincere". Del resto, come si vedrà, l'intero corpo del "monstum" (nel senso classico del temine) coppoliano e' animato da questi riflessi concordi sulla riga più o meno falsa, più o meno riveduta/trasgredita del testo di Conrad (linea che genero' non pochi attriti con l'amico Milius, incline ad una visione più personale e violenta della vicenda); gesto non così retrogrado che appartiene allo stesso modo anche all'altro polo di attrazione caratteriale/simbolico della vicenda: il capitano Willard. Ad esempio, ed in maniera molto elementare, tanto Marlow nel racconto dello scrittore anglo-polacco ripercorre i momenti salienti di quella parte del suo passato che ha ricevuto duratura impronta dall'incontro/scontro col Kurtz della Stazione Interna nel cuore equatoriale africano, parimenti, Willard, nell'itinerario di avvicinamento all'obiettivo di quella missione ultimata la quale "non ne avrei voluta più una" - a dire, il Kurtz soldato delle Brigate Aerotrasportate, ex V Forze Speciali dell'esercito degli Stati Uniti - affida alla sua voce narrante in bilico "sopra" gli avvenimenti il resoconto "razionale", puntuale e preciso (e qui ci s'imbatte, da subito, in una notevole trovata di Coppola, in grado di generare quasi a freddo uno straniamento/disagio a cavallo tra la sempre maggiore insensatezza di ciò che si svolge sullo schermo e lo sforzo, faticoso, doloroso, anch'esso a suo modo "insensato" in quel contesto, di comprensione, d'inquadramento logico secondo una qualunque forma di "ratio" come insegna lo schema tipico del pensiero occidentale, non tanto della guerra in quanto tale, che di quello schema e' una delle manifestazioni più concrete e ricorrenti ma banalmente della propria funzione e di quella del proprio, teorico perché ancora tutto da scoprire, antagonista: bisogno di "coerenza", di "delimitazione consequenziale" ribadita ancora nel pre-finale, allorché apostrofato da Kurtz: "I miei metodi sono malsani ?", Willard mormora, stranito ma deciso, ancora aderente o, forse, rassegnato, alla solita idea/illusione di "ordine", di "criterio" come "bene rifugio" a cui attingere o in cui ritrarsi: "Io non vedo alcun metodo, signore"), delle riflessioni in lui suscitate da tutto ciò che lo sta coinvolgendo. Avvisaglie angoscianti del "disagio della civiltà" rappresentato da Willard (alla stregua di Marlow) e che, in generale - in modo che sarebbe puerile se non fosse in realtà tragico - tutto l'Occidente si porta dietro come un male oscuro (ecco la "darkness" di Conrad) a spasso per il mondo e che tenta di esorcizzare/lenire anche mediante l'esportazione di se' (quindi anche della propria "tenebra", del proprio "orrore"), nel divincolarsi schizofrenico delle brutalità belliche ammantate di "sorti e progressive", intrappolano il personaggio sin dalle prime inquadrature a lui dedicate: scene brevi, a volte brevissime, alternate a primi piani e lenti movimenti laterali della mdp, blandi, tra nausea, prostrazione, visioni (un Buddha khmer) - spesso dissolventisi le une negli altri e viceversa - ci consegnano Willard in preda alla "cafard" - la malinconia di Saigon, secondo l'espressione lasciata in eredita' dai francesi - coi suoi demoni miserabili e autodistruttivi. "Talvolta non capivo se un'azione durava un secondo o un'ora o se l'avevo sognata o qualcos'altro. In guerra più che nelle altre cose della vita, per la maggior parte del tempo non sai veramente cosa stai facendo. Ti comporti come si deve e basta, e in seguito ci puoi costruire sopra tutte le balle che ti pare, dire che stavi bene o male, che l'hai amata o odiata, che hai fatto questo o quell'altro, la cosa giusta o quella sbagliata: comunque, quel che e' successo e' successo" - M.Herr "Dispacci" - Tornato da una fallimentare licenza che ha sancito la disgregazione definitiva dei suoi legami ("A mia moglie non dissi una parola sin quando non dissi 'si''al divorzio"/["I hardly said a word to my wife until I said 'yes' to a divorce"]), sdraiato anche riverso sul suo letto (ad impedire una totale immedesimazione tra il suo "punto di vista" esteriore e interiore ed il nostro), in attesa di un'altra missione ("Tutti ottengono tutto quello che vogliono. Io volevo una missione e per i miei peccati me ne hanno data una... Era una missione davvero eccezionale e quando l'avrei portata a termine non ne avrei voluta più un'altra") più che altro per drenare la disperazione e l'incipiente follia con l'attività, osservando gli spettri di un passato irrecuperabile (fogli sparsi, qualche libro, lettere, fotografie, in ultimo, la pistola d'ordinanza) immersi in un lucore opaco da natura morta, da paesaggio attonito tra Morandi e la carnalità respingente di L. Freud; immerso in un gorgo di segni anticipatori di dissociazione ("Quand'ero qui volevo essere la' [a casa]. Quand'ero la', non potevo pensare ad altro che a tornare nella giungla.../["When I was here, I wanted to be there. When I was there, all I could think of was getting back into the jungle"]... Ogni minuto che passo in questa stanza divento più debole e 'Charlie'... si', lo abbiamo chiamato amichevolmente così, il nemico. 'Charlie' ogni minuto che passa accovacciato nella giungla, diventa più forte... ... Ogni volta che mi guardavo intorno, le pareti mi stringevano sempre più da vicino..."/["Each time I look around, the walls move in a little tighter"]), col frullare delle eliche della ventilazione ad inchiodare nella testa, nel ricordo, il mulinare monotono e tetro dei rotori degli elicotteri in missione, il soldato inganna il tempo e gioca con la Morte... Al solito, Lei non impiega molto a trovare la porta giusta a cui bussare e a condurre "... a settimane di distanza e a centinaia di miglia su per il fiume, che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico col terminale inserito direttamente dentro Kurtz..."/("... weeks away and hundreds of miles up a river that snaked through the war like a main circuit cable and plugged straight into Kurtz"). "Quanto ai miei sogni, quelli che persi laggiù si sarebbero fatti strada più tardi, avrei dovuto saperlo. Certe cose, e' naturale, si limitano a seguirti finche' non hanno attecchito. Sarebbe giunta la notte in cui sarebbero stati vividi e persistenti, la notte d'inizio di una lunga catena, allora avrei ricordato e mi sarei svegliato con il dubbio di non essere mai stato per davvero in nessuno di quei luoghi" - M.Herr, op, cit. - Vibrazioni, oscillazioni quasi sincrone che avremmo ritrovato di li' a poco nel tessuto recondito della generazione a venire, gioventù non meno tormentata, non meno perplessa: "Guardando avanti nella morsa delle paure/Sembra la vita che conoscevamo/L'ombra che stava sul lato della strada/Mi fa ricordare sempre di te/.../Come posso trovare il giusto modo di controllare/Tutti i conflitti interiori, tutti/I problemi circostanti/Mentre sorgono interrogativi/E le risposte sono inadeguate/Nella mia situazione/Nella mia situazione..." - Joy Division, "Komakino" - Il conferimento della missione a Willard si svolge durante un pranzo di lavoro in un alone di formalità, convenevoli e falsa cordialità (a tavola, il generale Corman, interpretato da G.D. Spradlin, si rivolge in tono colloquiale a Willard sostenendo che assaggiando i gamberi di fiume che gli sta porgendo "non dovrà mai più dare prova del suo coraggio in altro modo"). Al fianco del generale si muovono un ten.col., impersonato da Harrison Ford - specie di subdolo cerimoniere travestito da ufficiale - e Jerry, enigmatico personaggio che sospettiamo appartenente ai Servizi e che per gran parte dell'incontro tace, scrutando di sottecchi Willard. L'ironia e il disappunto di Coppola si manifestano quando c'imbattiamo in alcune esplicite "occhiate in macchina" dei tre, ossia la protervia, la compassata sfacciataggine (sottolineata da un'atmosfera immersa in una luce chiara, piena, più vivida di quella fin li' mostrata, che parla il linguaggio sterile di un'ipotetico superamento dell'irrazionale/"darkness" attraverso la platealita', la "chiarezza" di una presunta disposizione fondata su una "logica assoluta" o su una qualche "necessita'"; in realtà un contorto inganno volto a dissimulare la tenebra nell'apparenza stordente dell'abbaglio) con cui il Potere - e dietro, la Politica, il Denaro - pretende, giocando tra saccenza e intercalare meditativo ("Era buono, arguto, spiritoso [Kurtz]... Entro' nelle forze speciali. Dopodiché i suoi metodi divennero... malsani. Malsani"; "In mezzo a questi indigeni si può essere spinti a prendersi per Iddio"; "A volte le cattive tentazioni hanno la meglio su quelli che Lincoln chiamava 'i migliori angeli della nostra indole', i buoni istinti morali") di renderci corresponsabili di un crimine allo scopo di auto assolversi, facendo leva sulla complicità e la "ragion di stato", nonché d'infliggere con i comportamenti conseguenti ferite profonde e durature al tessuto umano e materiale di tutto ciò che a quella volontà si oppone, vuoi l'universo misterioso dei Vietcong - non a caso, come visto, ridotto al nomignolo semplicistico/consolatorio di "Charlie" - vuoi la "wilderness" tutta, rompicapo inattaccabile per la Civiltà ("La Missione ci raccontava sempre di unita' vietcong impegnate in combattimento e annientate e poi riapparse un mese dopo al completo, cosa neanche troppo misteriosa, pero' quando attaccavamo il loro terreno, di solito lo prendevamo definitivamente, e anche se non riuscivamo a conservarlo si poteva sempre vedere che almeno c'eravamo stati" - M.Herr, op. cit.). Nei confronti di tale strategia, Willard assume un atteggiamento rispettoso/passivo ma ancora guardingo: il suo sguardo e' leggermente obliquo rispetto al piano della mdp, rifugge cioè, in parte, il nostro, l'ipocrisia che ne deriverebbe, cosa fatta invece senza mediazioni da Kurtz, anzi dalla sua voce registrata di straforo sul confine cambogiano ("Non dobbiamo ucciderli. Dobbiamo incenerirli. Un maiale dopo l'altro. Una vacca dopo l'altra. Un villaggio dopo l'altro. Un esercito dopo l'altro... Mi chiamano assassino... Come si chiama questo ? Quando gli assassini accusano l'assassino... Noi mentiamo. Mentiamo e dobbiamo essere clementi verso quelli che mentono... Questi... nababbi. Io li odio. Li odio a morte", parole che ricordano nemmeno troppo alla lontana certi strali rimbaudiani contenuti in "Una stagione all'inferno": "Si', ho gli occhi chiusi alla vostra luce. Sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Siete dei falsi negri, voi maniaci, voi feroci, voi avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, tu sei negro; generale tu sei negro; imperatore, vecchia prurigine, tu sei negro: hai brindato con un liquore non tassato, della distilleria di Satana". Come pure: "Cielo ! In quanti siamo dannati, quaggiù. Quanto tempo ho già passato con questa turba. Li conosco tutti. Ci riconosciamo sempre: ci facciamo schifo. La carità ci e' sconosciuta. Ma siamo beneducati: le nostre relazioni con la gente sono molto corrette"), per incrociarlo una sola volta, per qualche interminabile istante, alla fine della riunione, allorché al proprio freddo stupore - lo stupore inerme e ottuso di chi ha ceduto alla tenebra - "Porre fine... al colonnello ?"/("Terminate ? The Colonel ?"), biascica, si vede rifilare da Jerry, fino a quel momento silente, l'unica frase da lui pronunciata: "Porre fine. Senza scrupoli di sorta""/("Terminate with extreme prejudice"). TFK - prima parte - "New Hollywood" (10) "Apocalypse now" - "Can you picture what will be/So limitless and free/Desperately in need... of some...stranger's hand/In a... desperate land" - Avventurarsi nei meandri di noi stessi non e' dissimile dal risalire/ridiscendere un fiume. Soprattutto e' impossibile prevedere cosa si può trovare alla svolta di un'ansa, ai margini di un fondale basso, nell'intrico di una vegetazione particolarmente fitta. Decisivo e' essere pronti a misurarsi con delle sorprese. Qualunque tipo di sorprese. E magari avere intorno qualcuno: soli, potrebbe non bastare. Soli, ad esempio, come spiegare ? Come testimoniare ? Conrad: "Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all'indietro nel tempo, verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla Terra ed alberi immensi stavano come imperatori. Una fiumana deserta, un altissimo silenzio, una foresta impenetrabile. L'aria era calda, spessa, pesante, torpida". Alla foce del fiume Nung (toponimo di comodo a celare l'identità del Mekong), su un vasto delta di acqua fangosa, la luce e' radente, dai pieni riflessi oleosi. La vegetazione non vede l'ora di sottrarre centimetri alla spirale liquida che s'addentra nel continente. Ancora Conrad: "Si fece scalo in qualche altro luogo dal nome farsesco, dove la gioconda danza del commercio e della morte procede in un'atmosfera greve e terrosa come quella di una catacomba infuocata: qua e la' tutta quella costa informe con la sua perigliosa frangia di risacca, quasi la natura medesima avesse cercato di respingere gl'intrusi; fuori e dentro fiumi, correnti di morte in mezzo alla vita, le rive dei quali si stavano corrompendo in mota, e le acque, addensate in melma, invadevano il dominio dei manghi contorti, che parevano divincolarsi verso di noi nel parossismo di una disperazione impotente". Willard torna sugli sviluppi recenti ("Accettai la missione. Che altro diavolo avrei potuto fare ?"/["I took the mission. What the hell else was I gonna do ?"]), e guardandosi intorno fa il punto, a modo suo: "L'unico problema e' che non sarei stato solo. L'equipaggio era formato principalmente da ragazzini fanatici del rock'n'roll già con un piede nella fossa. Il motorista, quello che chiamavano "Chef" (Jay "Chef" Hicks/F. Forrest) veniva da New Orleans. Era troppo nervoso per il Vietnam. Forse lo era troppo pure per New Orleans... Lance (Lance N. Johnson/S. Bottoms), addetto alla mitragliera di prua, era un famoso asso del surf delle spiagge di Los Angeles. Non si sarebbe mai detto che avrebbe usato un'arma in vita sua... "Clean" (Tyrone "Clean" Miller/un ancora adolescente L. Fishburne), il signor "Clean" veniva da qualche posto di merda del Bronx e credo che la luce e lo spazio del Vietnam lo avessero scioccato... Poi c'era Phillips (George "Chief" Phillips/A. Hall), il "Capo". La missione poteva essere la mia ma la barca era sicuramente del "Capo"" (una "PBR", Patrol Boat River, vedetta della Marina in plastica, di ridotte dimensioni, nelle intenzioni un mezzo di facile impiego e di ridotta appariscenza per il nemico). Nemmeno il tempo di girarsi che e' già ora di mettersi in posa per un'istantanea-ricordo di un attacco o per staccare il biglietto per un inaspettato carnevale di morte (Willard: "Quei ragazzi [la Cavalleria dell'Aria, I reggimento, IX divisione] non riuscivano proprio a stare fermi"/["Well... Air Mobile. Those boys just couldn't stay put"]). "Elicotteri e gente che balza fuori dagli elicotteri, gente talmente invasata da correre per poter salire anche quando non c'era nessuna urgenza. Elicotteri che si alzano dritti sbucando da piccoli spazi sgombri nella giungla, che scendono oscillando verso le cime dei tetti della città, casse di razioni e di munizioni buttate giù, morti e feriti caricati su" - M.Herr, op. cit. - "E' possibile spettacolarizzare tutto ?" si/ci domanda Coppola allorché si appresta ad allestire la celebre sequenza relativa al bombardamento del villaggio di Vin Din Drop ("Come si chiama quel maledetto villaggio ? Din Rin... Dan Lap... Questi fottuti nomi sembrano tutti uguali"; "E' un posto cazzuto, quello. E' una base di 'Charlie'... 'Charlie' non fa il surf !/["'Charlie' don't surf !"] [Kilgore/soldato]. La risposta affermativa alla suddetta questione scaturisce "spontaneamente" dalla piega presa dagli avvenimenti sul "teatro" vietnamita una volta messa in moto l'enorme macchina bellica made in USA e constatato ancora e in parallelo il ruolo del cinema di consumo come veicolo "pesante" della diffusione su scala mondiale dell'"american outlook on life" (ricordiamo - en passant - che la sequenza in oggetto, della durata di circa otto minuti, "costo'" cinquanta giorni di riprese contrassegnate da interruzioni di ogni tipo; requisizione degli elicotteri Bell HU-1, detti "Hueys", da parte dell'allora dittatore filippino Marcos; ripetizioni; cambiamenti in corso d'opera et...). A dire: migliaia di uomini; tonnellate di attrezzature; giganteschi apparati logistici; centri di raccolta, smistamento e analisi delle informazioni; strutture di supporto e rifornimento, rappresentano di per se' (tendenza finita ampiamente fuori controllo negli scenari guerreschi che hanno visto coinvolta nei tempi a venire la prima potenza economico-militare del pianeta) uno smisurato set in perenne allestimento/trasformazione, alle cui primarie (?) ragioni strategico/politiche non e' mai del tutto estranea la componente rutilante, fantasmagorico/auto-celebrativa: cioè proprio la fisionomia di uno spettacolo in piena regola, qualcosa che galleggia costantemente fra Hollywood, Disneyland e - come vedremo - Playboy. In tal senso, i numeri ufficiali del conflitto aiutano a delimitare la configurazione di un meccanismo/apparato davvero colossale: tenendo sempre a mente i non meno di 2 milioni di morti tra militari e civili in campo vietnamita, stiamo parlando di quasi 600.000 soldati USA impiegati nel conflitto al momento del massimo coinvolgimento; oltre 58.000 i morti al termine delle ostilità: circa 170 i miliardi di dollari utilizzati al fine di scongiurare il timore per cui "la vittoria degli indipendentisti (vietnamiti) avrebbe compromesso l'equilibrio politico tra il blocco occidentale e quello sovietico e che, dopo la vittoria di Mao in Cina, il Pacifico Orientale avrebbe finito per diventare un oceano 'rosso'" - Maffi, Scarpino, Schiavini, Zangari, "Americana. Storie e culture degli Stati Uniti -. "C'erano installazioni grandi come città di trentamila abitanti. Una volta ci capitammo per portare le provviste a un solo uomo. Dio sa che razza di numeri alla Lord Jim redivivo stava facendo laggiù ... C'erano grossi campi eleganti con l'aria condizionata simili a confortevoli ambienti borghesi dove la violenza era inespressa, 'lontana'; campi dedicati alle mogli dei comandanti, l'eliporto Thelma, il Betty Lou..." - M.Herr, op. cit. - Sin dalla prima apparizione, ad esempio, di uno dei protagonisti assoluti di questo supershow - il cui convitato di pietra, ricordiamolo, e' comunque la Morte - il ten.col. William "Bill" Kilgore/R. Duvall (Willard: "Non era un cattivo ufficiale, penso. Voleva un gran bene ai suoi ragazzi. Ti sentivi al sicuro con lui. Era uno che aveva uno strano alone di luce attorno a se'... Era chiaro che non si sarebbe fatto neppure un graffio, qui") - inquadrato molte volte dal basso, a sancire, in una combinazione sarcastica di apologia, compatimento e critica, l'impressione di una statura epica a cui sottendere un'indiscutibile superiorità morale cara alla vulgata americana dell'eroe tutto-d'un-pezzo, alieno alle mezze misure (Kilgore non fa una piega nemmeno quando gli esplodono colpi di mortaio a pochi metri), supporto più che fermo alla visione imperialistico/egemonica che lo ha partorito/cresciuto ("Come ti senti oggi, Jimmy ?"; "Cattivo e figlio di puttana, signore !") - e' già possibile rintracciare una dismisura, un'altra piccola "apocalisse": la distanza - e l'intima violenza implicita in questa distanza - tra la monumentalita' ferale dell'apparato a stelle e strisce (di cui Kilgore e' una delle punte di diamante, una delle incarnazioni più "efficienti") e la silenziosa e modesta vita agreste del popolo vietnamita. Distanza che Coppola sottolinea e accresce frammentando di continuo il montaggio delle immagini che preludono l'incursione con, da un lato, l'adrenalina crescente sui volti e nelle posture "scomode" dei soldati, messa in circolo anche dalla musica di Wagner - la stranota e oramai "inconscia", nel senso che sembra di sentirla solo pronunciando il titolo del film, "Cavalcata delle Valchirie" - sparata a tutto volume (Kilgore: "Io 'uso' Wagner. Fa cacare sotto i vietnamiti. I miei ragazzi lo adorano"); dall'altro, la composta e ordinata linea difensiva approntata dagli abitanti (e dai Vietcong) presenti nel villaggio, capovolgendo in tal modo, la tipica struttura "western" di questo genere di sequenze che, per tradizione, vedeva spesso la conquista dello "spazio vitale", il "destino manifesto" dell'estensione della "frontiera" anche come eliminazione fisica di una popolazione locale (ritenuta) ostile e/o indomabile, qui, invece, caratterizzata da una nutrita compagine di umanità inerme, in aderenza più o meno stretta alla montante ondata "revisionista" che aveva cominciato a farsi sentire anche nel cinema a ridosso della fine degli anni '60 e all'inizio degli anni '70, promuovendo una rilettura più serrata e pessimista dei parametri d'interpretazione della Storia fin li' accettati o relativamente poco sindacati. Ecco, così, che l'azione militare propriamente detta si concentra - di sicuro - su un obiettivo controllato dal nemico ma - nei fatti - abitato più che altro da civili: donne, vecchi, persino una scolaresca, e sembra svolgersi secondo una prassi (ecco la tentazione spettacolare) che somiglia molto da vicino a quella che potrebbe vedere coinvolta una serie di squadre specializzate le quali, tra disboscamenti, rimozioni forzate e abbattimenti di ostacoli naturali (alberi, colline, avvallamenti et.) si appresta a rendere possibile l'esecuzione di un "numero" particolare, nel caso - dopo la messa in sicurezza delle zone limitrofe ad uno specchio d'acqua prescelto - le evoluzioni di un gruppo di soldati-surfisti (Kilgore: "A me piace finire presto le operazioni.../["I like to finish up operations early (and fly down to Vung Don for evening")] [in modo da dedicare più tempo, il tempo che "conta" davvero, al surf]; "'Barra'/["A good left slide"/anche "peak"] ? Perche' non me ne hai parlato prima ? Una buona 'barra'...Non ce ne sono mica tante in questo paese del cazzo. Solo risacche, in questa merda di posto... Diavolo, una 'barra' di due metri... eeehahaha... !). "Spettacolo" o "gioco di finzione" che Coppola spinge al limite, rendendolo esplicito (qualcuno ha detto persino troppo), quando Willard appena posto piede sulla spiaggia, ad attacco ancora in corso, si sente apostrofare da una mini-troupe - Coppola, Storaro e Tavoularis in carne ed ossa - che gli sbraita contro ordini categorici e reiterati: "Andate avanti ! Andate avanti ! [E' Coppola che parla] Non vi fermate ! Andate avanti ! Non guardate in macchina, non guardate in macchina ! Andate avanti ! 'Come se combatteste !' E' la televisione..."/["Don't look at cameras, don't look at cameras. Go on through... go on through. Don't look at cameras. 'Go by just like you're fighting...'"]. Fatto. Lo "spettacolo" della guerra. Il presupposto stesso di "Cavalleria dell'Aria", del resto, accarezza l'immaginazione, facendola viaggiare su sentieri mitici (non poi così lontani da Wagner e dalle sue Valchirie), "naturalmente" inclini ad una rappresentazione - vuoi di potenza, vuoi di magnificenza, di regale se non divina prerogativa di concedere la Vita o d'infliggere la Morte - che esula senza difficoltà l'ambito della narrazione di un "evento storico" e abbraccia connotati emotivo/simbolici profondi che trasfigurano l'episodio in una sorta di "super messinscena". In effetti, la guerra, se intesa in primis come gigantesca mobilitazione, si presta ad una visione, diciamo così, "scenografica". Le articolate riflessioni operate su questo specifico tema da un "geometrico" purissimo come Kubrick (il "suo" Vietnam, "Full metal jacket" - 1987 - e' integralmente "ricostruito", "e'", di proposito, una scenografia) mettevano spesso in evidenza, tra l'altro (con riferimento puntuale ad una delle ossessioni preferite - e deluse - del genio americano a dire lo "schema totale" - ecco un altro, per restare a noi, che, come Kurtz, aveva "progetti immensi"; un altro dei non molti che avrebbe potuto pronunciare l'inquietante frase vergata da Conrad: "I had immense plans" - di un "Napoleone" che prevedeva lo schieramento autentico, ossia non digitalizzato ed indipendentemente dalla fattibilità tecnica della sua realizzazione, di migliaia e migliaia di comparse per la ricostruzione/reinvenzione di battaglie celebri) proprio l'idea di guerra come "gioco supremo", le cui azioni/variazioni si svolgevano come su di una fantomatica scacchiera, il cui presupposto razionale (i piani, le astuzie, le trappole) era alla fine sistematicamente beffato e ridicolizzato dal Caso: palcoscenico di un desiderio sconfinato le cui quinte, per assurdo ma non troppo, potevano essere benissimo quelle del mondo intero. In una prospettiva del genere - la legittimità dei cui paradossi era nota tanto a Kubrick quanto, nei fatti, allo stesso Coppola - diventa persino "logica" un'altra delle tante celebri battute di Kilgore: "O fai il surf o combatti !"/["That's good, son. Cause you either surf or fight !"]. Perché, a ben vedere, non c'è tutta questa differenza, se l'impostazione e' quella del "gioco", dello "spettacolo"; nel nostro caso del gioco come tentativo di differimento/rimozione della "tenebra". L'occupante si porta dietro, assieme a uomini e cannoni, la propria Tradizione, qui (anche) il surf (e annessa componente spettacolare): orizzonti politico/militari e ludico/sportivi, cioè, si spostano su direttrici simboliche/formative, di appartenenza, "eroiche" - non così distanti fra loro. Gioco come sfida, quindi; sfida come spettacolo, spettacolo della Vita e della Morte, con tanto di contrassegno/talismano di riconoscimento - le carte - che sono "carte-da- gioco", appunto, e sulla scena diventano "carte-di-morte"- (Kilgore, mentre ne distribuisce sui cadaveri dei Vietcong appena uccisi: "In tutto il mucchio non ce n'e' nemmeno uno che valga un fante"). O come pure il ricorso a diversivi evanescenti e dai colori contundenti (le immagini stesse assumono da ora cromatismi via via sempre più accesi, in una sotterranea quanto lucidissima sottolineatura ponderata da Storaro al fine di rimarcare l'antitesi tra i colori "naturali" dell'Organismo Vivente della giungla e quelli "artificiali", saturi, violenti, pacchiani, della Civiltà e dei suoi strumenti), l'uso abbondante, a dire, di fumogeni dalle tinte vistose - giallo cromo, arancio, viola - che oltre a diffondere un alone ipnotico-psichedelico (anch'esso, mano mano che il film "affonda" verso Kurtz, cuore della tenebra, sempre più presente) rende avvertibile il malessere fin qui strisciante ("Strisciare verso Kurtz", diceva Conrad) verso un atteggiamento, nello specifico tipico del "modo di essere americano", per cui rischio, sprezzo, pericolo, guasconeria, lambire- la-morte, eccitazione, intrattenimento, sono contenuti nella stessa confezione "formato famiglia" ed hanno l'identico, aspro, odore/sapore dominante che azzera ogni sfumatura, ogni retrogusto, nonostante "prima o poi questa guerra finirà"/("someday this war's gonna end") (Kilgore): l'odore/sapore del napalm [Kilgore: "Lo senti ? Lo senti l'odore ? E' napalm, figliolo. Non c'è nient'altro al mondo che odora così... Mi piace l'odore del napalm, di mattina. Una volta, una collina la bombardammo per dodici ore. Finita l'azione, andai li' sopra. Non ci trovammo nessuno, neppure un lurido cadavere di Viet. Ma quell'odore... Si sentiva quell'odore di... benzina. Tutta la collina... odorava di... di vittoria..."/["You smell that. Do you smell that ? Napalm, son... Nothing else in the world smells like that... I love the smell of napalm in the morning... You know, one time we had a hill bombed for twelve hours. When it was all over, I walked up. We didn't find one of 'em... not one stinking dink body. (They slipped but in the night...) but the smell... that gasoline smell... the whole hill... it smelled like... victory)] ... ... All'eccitazione allucinatoria della "potenza" e della "vittoria" allestita come susseguirsi di effetti scenici e mirabilia di morte (Kilgore) fa eco - ed e' un sussurro languido, come un calore improvviso degno di un "viaggio" fuori programma ("A questo punto il film diventa lisergico; la guerra psichedelica... Sarà il primo film a vincere il Nobel", commento' Milius, il cui primigenio trattamento, dal quale sarebbe scaturito poi "Apocalypse now", s'intitolava non per vezzo "The psychedelic soldier") - il "rallentamento" altrettanto fantasmatico del "sesso", reso percepibile e quasi palpabile dalla presenza delle "Bunnies", le conigliette di Playboy nella località/magazzino a cielo aperto di Hau Phat, reclutate dallo USO, United Service Organization, organismo incaricato dell'allestimento degli intrattenimenti delle truppe. A tutta prima, col palco che si erge mezzo illuminato sullo sfondo del fiume placido nella notte e nell'oscurità ancora più nera della giungla, il giovane "Clean" non riesce a trattenersi: "Certo che questo e' uno spettacolo strano in questo cesso"/("This sure is a bizarre sight in middle of this shit"). Ma invece non lo e'. Perché e' proprio per lui e per tutti gli altri soldati che e' stato messo in piedi, allo scopo di convogliare la mente altrove - "La fica distrae", nozione elementare che i Comandi hanno sempre scaltramente amministrato - e rendere più smussata la possibilità tutt'altro che remota della "fine"/"the end". Le miss, come eiaculate da un elicottero il cui faro squarcia nell'occhio dell'obiettivo della mdp l'oscurità della notte, ridacchiano, ancheggiano, solleticano ciò che sta dietro i genitali delle giovani reclute, volto in apparenza gentile della tenebra che la guerra e il territorio selvaggio hanno risvegliato e che non tarda a palesarsi al momento di riversare all'inizio contumelie (del tipo: "you fucking bitch !"), poi direttamente se stesso contro le tre figure agghindate come comanda una bella fetta dell'immaginario erotico/pubblicitario americano: l'appetitosa ed esotica squaw, a cui risponde la ragazza soldato-dell'unione con la camicetta legata al petto. E al centro, in alto, la cow-girl bambina, grosse pistole nelle mani sottili e gran voglia di mettersi a cavalcare. Coppola alterna i movimenti rapidi della macchina da presa dal palco agli spalti inghirlandati per offrire campi più lunghi mano mano che la "festa" degenera; spinge sul rock ammiccante ("I like the way you walk, I like the way you talk..."); avvolge il campo visivo di fumi ed esasperazioni sonore cupe e stridule. Poi la mdp indugia sospesa, come stupefatta/atterrita sullo scomporsi della truppa libera di dar sfogo a ciò che gli si agita nel profondo nel mentre l'elemento femminile si ritrae, conscio del deja-vu che lo vuole in caduta libera entro il solito cliché di animale-da- sacrificio, di natura-violata: isola, mentre gli eventi precipitano, in silenziose inquadrature più strette e dal morbido movimento laterale, contadini vietnamiti ed alcuni ragazzini - aggrappati entrambi alle recinzioni dell'improbabile campo/magazzino/palco - testimoni attoniti di un bislacco rituale, ed infine Willard, gli occhi pero' meno increduli, adesso; il contegno non più prostrato, le riflessioni in sintonia con un distaccato disincanto. "'Charlie'", rimugina, "non aveva molti trattenimenti del genere. O s'imbucava nella terra troppo profondamente, o si muoveva troppo in fretta. La sua idea di meraviglioso passatempo era riso freddo e un po' di carne di topo. Aveva solo due strade per tornare a casa: la morte o la vittoria... Sfido io che Kurtz faceva rodere il culo ai suoi superiori. A condurre la guerra era un gruppo di clown a quattro stelle che avrebbe finito per dare via tutto il circo..."/("... No wonder Kurtz put a weed up command's ass. The war was being run by a bunch of four-stars clowns who where going to end up giving the whole circus away"). "I vietcong lavoravano dentro i campi come lustrascarpe e lavandai e raccoglitori di miele, ti inamidavano le tute, bruciavano la tua merda e poi se ne tornavano a casa a bombardare la tua zona... ... Tutto quello che potevi fare era guardarti intorno per vedere se anche gli altri erano spaventati e tramortiti come te. Se ti sembrava che non lo fossero, pensavi che erano matti; se avevano l'aria di esserlo, stavi pure peggio" - M.Herr, op. cit. - TFK - seconda parte - Quello che voglio dire e': proviamo a giocare con tutta una serie di rimandi che parlano della pellicola ma che pero' sollecitano pure altro; fanno cioè lavorare l'immaginazione dell'ipotetico lettore su contesti e piani diversi. Nel senso: a fianco di immagini "usuali" (ma fondamentali), la/le locandina/e, le inquadrature più belle o significative, le foto di scena, inseriamo (a seconda della cronologia narrativa, chiaro) pressoché "qualunque cosa": immagini dei Doors, per dire; ricerchiamo qualcosa in b/n di Milius/Coppola e compagnia; qualche "stranezza" di Brando, Sheen, Duvall o chi vuoi tu. Allarghiamo il campo ai surfisti degli anni '70; un bel dagherrotipo d'epoca di J.Conrad; una foto dal fronte di M.Herr; troviamo quell'immagine pazzesca (guarda che esiste davvero) di Coppola che si punta una pistola alla tempia; mettiamo due conigliette vere tratte da un Playboy dell'epoca (fine anni '70: mi raccomando, una deve essere una mezz'indiana); rubiamo un'istantanea dalle retrovie al generale Westmoreland e al generale Giap; o quell'espressione corrucciata al presidente Johnson. Facciamoci carico dello sguardo morente di Bob Kennedy o di quello di Martin Luther King senza omettere il primo piano spiritato di Charles Manson. E ancora: dammi qualche immagine della conquista dello spazio; un guizzo di chitarra di Hendrix; il fuggi-fuggi dei ragazzi della Kent State durante le rivolte studentesche; abbina un drappello di Marines che saltano fuori da un elicottero all'apparente impassibilità del paesaggio suburbano della provincia americana. E così qualche ghiribizzo psichedelico; le folle oceaniche ai concerti storici del tempo; gli hippy e il flower-power; l ghigno di Dennis Hopper e l'epitaffio di Morrison: "Good-bye America. I loved you". E così via... http://www.greenzblog.com/wp-content/uploads/heart-of-darkness.jpg http://www.wisdomportal.com/Evil/HeartOfDarkness%28500x400%29.jpg http://cdn.3oneseven.com/wp-content/uploads/HLIC/Apocalypse-Now-Brando.jpg http://i.ytimg.com/vi/TYVPfvWLF5w/0.jpg foto pistola tempia http://filmmakeriq.com/wp-content/uploads/2013/08/Francis-Ford-Coppola-7a203.jpg
Ci sono film che s'imprimono nell'immaginazione con una forza che e' persino difficile spiegare. "Apocalypse now" e' senza dubbio uno di questi. Proseguendo nel viaggio attraverso i territori della "New Hollywood" sbirciando nelle opere di coloro che hanno contribuito a renderli fertili, abbiamo deciso che era il caso di concederci una pausa più lunga (diversi episodi a cadenza settimanale) nel "cuore di tenebra" coppoliano, allo scopo di carpire dettagli utili a circoscriverne l'inimitabile fascino e l'inesausta capacita' di proporre interrogativi di tenore estetico, filosofico, morale, nonostante siano trascorsi oltre trent'anni dalla sua apparizione. Per tale motivo, lo sforzo e' stato orientato nella direzione di fornire un certo numero (si spera) vario e stimolante di spunti e suggestioni, dando un colpo al cerchio della meraviglia e uno alla botte della comprensione, e vedendo se dalla combinazione dell'una con l'altra scaturivano idee e parole capaci di affiancarsi ed interpretare, anche in parte, quell'originario stupore. Grazie e buona lettura.
TFK
"Apocalypse now".
di: F.F.Coppola.
con: M. Sheen, M. Brando, R. Duvall, F. Forrest, A. Hall, S. Bottoms,
L. Fishburne, D. Hopper, G.D. Spradlin, H. Ford, S. Glenn, C. Wood, C. Camp,
L. Carpenter, R. Lee Ermey, C. Marquand (vers. "redux"), A. Clement (vers. "redux").
fot: V. Storaro.
scen.: D. Tavoularis.
mont: R. Marks, W. Murch, G. B. Greenberg, L. Fruchtman.
comm. narr.: M. Herr.
- USA 1979 -
durata: vers. 70mm/147'; vers. 35mm/153' e 140'; vers. "Apocalypse now redux", 197'
"We live as we dream: alone".
- J. Conrad -
- "This is the end/Beautiful friend/This is the end/My only friend, the end" -
"Saigon... merda. Sono ancora soltanto a Saigon" /("Saigon... shit. I'm still only in Saigon").
I primi pensieri (questi, come tutti gi altri, redatti da Michael Herr, giornalista, scrittore e corrispondente dal Vietnam dal 1967 al 1969, collaboratore alla sceneggiatura anche per "Full metal jacket" di Kubrick) del più che esperto in "missioni laterali" capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), del 505/o battaglione, 173/a aviotrasportata, assegnato alle Operazioni speciali, dell'esercito degli Stati Uniti, chiarificano in maniera esemplare il dettato di Coppola sullo stato d'ineluttabile cattività in cui si trovava, si trova (e con ogni probabilità finirà per spegnersi in una lunghissima agonia/declino, preconizzata per una parte dai versi di Eliot tratti da "The hollow men", 1925, con sul frontespizio, ancora una coincidenza ?, "Mistah Kurtz mori'", recitati da Kurtz (Marlon Brando) - "E' questo il modo in cui il mondo finisce/Non già con uno schianto ma con un piagnisteo" e ridicolizzata per l'altra dal funambolico reporter impersonato da Dennis Hopper - "E' così che va questo cazzo di mondo. Guarda in che cazzo di merda ci troviamo. Non con un bum. Un sospiro. E io con un sospiro mi levo dalle palle, ragazzo !", la psiche, la coscienza, la cultura occidentale, in mai così più perfetta aderenza alla sua radice etimologica: "occidente", dal lat. "occidere", "cadere", fig. "tramontare", quindi "terra del tramonto". E più precisamente: "europa" - che in antico indicava l'occidente - dall'assiro "erebu" o "erabu", a dire "offuscato" nel senso di "in ombra", come e' l'Ovest al disparire della luce e come ricorda anche l'imbarcazione citata da Conrad in "Cuore di tenebra", l'"Erebus", una di "quelle navi i cui nomi sono come gioielli lampeggianti nella notte" anche se "dirette verso altre conquiste, ... non tornarono più" e pur richiamando divinità ctonie (gr. "Erebos", lat. "Erebus", 'tenebre'). Così ancora, in opposta simmetria, "oriente", "Asia", si accorda all'accadico "asu", "la' dove sorge il sole".
L'ultimo scorcio degli anni '70 è stato un periodo in cui si è visto - tra l'altro - il consolidarsi delle "pretese" dei cosiddetti "movie brats"/"nuovi 'ragazzacci' del cinema": la New Hollywood, in altre parole. Tutto questo accadeva all'interno di un contesto sociale (siamo a cavallo tra le presidenze Ford e Carter), in cui non solo le ferite del conflitto vietnamita ma pure le delusioni e i ripiegamenti inerenti al sostanziale fallimento delle istanze utopico/libertarie/pacifiste della controcultura, nonché il sempre più avvertibile slittamento verso forme di comunità e relazione centrate sul lato materiale, disimpegnato, edonistico del vivere, erano tutt'altro che in via di guarigione. "Nickelodeon"/"Vecchia America" di Bogdanovich col suo slancio affettuoso per il cinema che fu, data 1976. De Palma, ancora in quell'anno, in "Obsession"/"Complesso di colpa", con un occhio all'amato Hitchcock e l'altro ben concentrato sui tempi, sperimenta la labilita' di confini tra apparenza e verosimiglianza. Scorsese - siamo sempre nel '76 - disintegra il mito della metropoli come culla delle opportunità del singolo tratteggiando di contro uno dei più sinistri apologhi sulla solitudine umana, in "Taxi driver"/id. Lucas è ai primi passi nella creazione del "suo Idaho privato" e delle a lui relative "Star wars"/"Guerre stellari" (1977). Spielberg, di nuovo nel '77, imprime il sigillo della "meraviglia" nel progetto di una sorta di "fantascienza adolescente", incantata tanto quanto irrequieta, in "Close encounters of the third kind"/"Incontri ravvicinati del terzo tipo". Milius sposa l'elegia virile alla resilienza del disinganno in "Big wednsday"/"Un mercoledì da leoni" (1978).
- "Of our elaborate plans, the end/Of everything that stands, the end/No safety or surprise, the end/I'll never look into your eyes... again" -
- prima parte -
TFK