New Weds

Creato il 01 maggio 2011 da Robomana
Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sul matrimonio del secolo per un giornale per cui collaboro. Lo metto anche qui, scritto con uno stile un po' più paludato del solito:
Lei, sempre bellissima. Lui, affascinante. Entrambi, elegantissimi. La celebrazione, sobria. La regina, in giallo. La sorella di lei, la più fotografata. La folla, in visibilio. Il matrimonio, naturalmente, quello del secolo.
L’evento mediatico del 2011, l’unione in nozze di William e Kate, l’erede dell’erede al trono d’Inghilterra e la sua fortunata fidanzata borghese, è stato soprattutto un ripetersi di poche e scelte parole. Uno spettacolo già visto che tra espressioni di cortesia, luoghi comuni, frasi fatte vagamente fasulle e vagamente sincere, ogni commentatore sentiva l’ansia di considerare storico e vicino ai momenti capitali del romanticume novecentesco. Il riferimento costante erano alle nozze tra il principe di Monaco e Grace Kelly, modello insuperato e mai messo alla prova di bellezza, fascino, eleganza, sobrietà (e via di altri aggettivi), ma a trapelare era pure il fantasma benigno dell’unione tra Carlo e Diana, proiettato nel reame dell’immortalità mediatica e quindi ridotto a icona di classicità, senza troppi riferimenti a come poi andò a finire.
I media di tutto il mondo e le milionate di persone che hanno seguito il matrimonio tra le strade di Londra o nel salotto di casa, hanno ancora una volta dispiegato quello che Moretti, nel suo ultimo film Habemus Papam, ha individuato come una delle caratteristiche principali di questa nostra società smarrita: lo smodato amore per il potere.
Non per sudditanza da popolino imbonito, ché all’importanza politica (non economica) della corona inglese non ci crede nessuno, ma per riconoscenza nei confronti di uno show che per una volta soddisfaceva le esigenze di tutti. I giornalisti che alzavano la voce a ogni momento del cerimoniale, la folla che esultava all’apparizione dei new weds (i neosposi, come Antonio Caprarica di Raiuno avrà ripetuto un milione di volte durante la diretta), pure i commenti un po’ sdegnati del giorno dopo, erano tutti aspetti prevedibili e previsti di una rappresentazione che confermava uno status quo per una volta rassicurante.
Da una parte c’erano i ricchi, i belli, i potenti, e dall’altra, a guardare, i normali, i borghesi, i sudditi felici di esserlo. Non, come decenni fa sarebbe venuto normale pensare, noi contro loro, ma loro a nostra disposizione, attori su un palcoscenico di fronte a un pubblico pronto al battimani.
Esattamente come ha mostrato con (a questo punto) mirabile saggezza il film vincitore dell’Oscar di quest’anno, Il discorso del re, parabola regale ambigua e geniale che attraverso il carisma di Colin Firth esalta la moralità delle teste coronate solo per mostrarne la spaventosa vuotezza e l’inevitabile dimensione spettacolare.
In attesa, naturalmente, di nuovi e incomprensibili eventi storici e di altrettante conferme di un ordine fasullo al quale desideriamo spaventosamente credere: magari quando lo stesso William sarà finalmente incoronato o quando suo figlio, l’erede dell’erede dell’erede, sarà anche lui celebrato come new wed.

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