Un marchio esiste davvero solo se ha un rapporto vivo con i propri consumatori, con le persone. Se certamente gli attributi funzionali di prodotto e i benefici sono elementi distintivi, ciò che crea valore aggiunto è la risonanza emotiva che ha con i suoi consumatori. In altre parole, semplificando per sintesi, un marchio non è un vero e proprio marchio fino a che non è amato da qualcuno.
Si tratta di un aspetto che oggi è assolutamente vero e valido anche per l’industria dell’informazione, per i quotidiani che si evolvono sempre più in newsbrand.
Quindi il valore di un giornale online è, e sarà sempre più, direttamente proporzionale alla sua capacità di dimostrare di avere, oltre ai soliti “numeri”, anche quelli relativi ad una comunità di lettori realmente coinvolti e attenti, ovvero che abbiano voglia di condividere idee, contenuti, che desiderano dialogare con gli autori degli articoli, che partecipino agli eventi organizzati da quel giornale, che si sentano insomma coinvolti concretamente nel progetto editoriale, lo amino e quindi lo percepiscano come un valore.
Spiegava tempo fa Katharine Viner, di recentissima nomina come direttrice del Guardian, che “Il web ha cambiato, in maniera molto chiara, il modo in cui organizziamo le informazioni: dal formato fisso e solido di libri e giornali si è passati a qualcosa di liquido e con un flusso libero, dalle possibilità illimitate”. Possibilità di cui i social, con Facebook in prima fila, fanno parte a tutti gli effetti.
Diversi miei contatti attraverso i social mi hanno segnalato [qui, qui, qui e qui. GRAZIE!] il caso del Messaggero che sulla propria pagina Facebook, rispondendo alle obiezioni poste da più persone relativamente alla scelta di pubblicare un post sui rumors di un’eventuale separazione tra Belen e Di Martino, scrive a più riprese, seppure in modo diverso, “Questo non è il Messaggero. Questa è la pagina Facebook del Messaggero”.
Si tratta di una risposta, ribadita ahimè anche su Twitter da Davide Desario, responsabile del sito del quotidiano in questione, che evidentemente presenta più di un vizio di forma.
È la miopia che si dimostra del volere dal lettore solamente un click su un titolo. Niente, assolutamente niente di più.
È la dimostrazione di quanto scarsa sia la comprensione della Rete come ecosistema. Dove il limite, o il vantaggio, non sta ovviamente nella disponibilità illimitata di spazio, come viene affermato, ma nella disponibilità ad avere attenzione da parte dei lettori, delle persone.
Soprattutto, è l’evidenza di non aver capito che la pagina Facebook è a tutti gli effetti parte della testata. La gestione, in termini di dialogo ma anche a livello di proposte di contenuti, è assolutamente una parte, sempre più rilevante, della reputazione, dell’immagine di marca, di un giornale.
La gestione di un brand, anche quello dei giornali, appunto definiti newsbrand, passa sempre più dalla relazione, dalla conversazione, come si suol dire. Immaginare che la presenza social di una testata non sia elemento integrante della stessa, molto spesso senza gestirla, significa accompagnarne il decadimento, la perdita di valore. Torneremo a parlarne al prossimo Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, pare ce ne sia davvero un grande bisogno…