E’ bizzarra la genesi dei miti. Un po’
come per la nascita degli dei e delle cosmogonie, e di ogni idolum in generale, essi sembrano
generarsi dalla volontà di dare un senso alle mancanze, per colmare un bisogno
impellente, quello di giustificare la
propria pochezza. Il confronto coi miti, infatti, a differenza di quello cogli
uomini e con la contingente quotidianità, non spaventa, in fondo ci fa
semplicemente sentire meno piccoli di ciò che siamo. Anche il mito Newton,
quello che, dopo Copernico, Keplero, ed il “nostro” Galilei, ha portato a
maturazione il processo scientifico seicentesco, non sembra fare eccezione.
In
realtà, volendo essere un tantino più disillusi e cinici, non è chiara nemmeno
la portata del suo contributo “scientifico”, né tantomeno l’alone di rispetto e
la sacralità che lo hanno accompagnato, sino a diventare, oggi, uno dei geni
più luminosi della scienza imperante.
Nato lo stesso anno della morte di
Galileo, si debbono all’inglese le tre fondamentali leggi della meccanica
(principio d’inerzia, legge sulla caduta dei gravi e della gravitazione
universale), l’applicazione della matematica allo studio dell’ottica e la
scoperta del calcolo infinitesimale (teoria delle flussioni). Questo il Newton
da manuale, quello autenticamente “scientifico” e depurato da qualsiasi scoria
che ne smorzi il mito e lo splendore. Ma Newton, a scanso di ogni qualsivoglia
invasato scientista “geniere”, non è stato semplice-mente un brillante
scienziato. A bene vedere si potrebbe addirittura sospettare che il movente di
ogni sua sedicente genialità fosse pretenzioso, ispirato dal bisogno di provare una credenza, poco scientifico.
Anzi, forse il suo più importante contributo alla scienza, e anche una delle sue
tante postume fortune, è stato quello di aver compreso in anticipo il valore della
matematica e del gretto numero (a differenza del suo sfortunato conterraneo Bacone), come
decisiva rassicurazione agli imprevedibili saliscendi della realtà in fieri (“il numero è il nostro grande mezzo per renderci il mondo maneggevole.
Comprendiamo tanto quanto possiamo contare” diceva, a tal proposito,
Nietzsche). In realtà, volendo essere un tantino meno “filosofici”, le fortune
dell’inglese si debbono forse ad altri fattori, più materiali, concreti e
terreni: nominato deputato nel 1689, Newton iniziò una brillante carriera
politica che lo portò prima ad essere direttore e poi governatore della Zecca
di Londra, e infine presidente della Royal Society.
Induttivista poco convinto (dai casi
particolari alla formulazione di una legge generale) e distratto empirista,
come vuole la tradizione inglese, il suo metodo, per “risultare” valido, a
scapito di qualsiasi es-perimentazione raccolta sul campo, presupponeva alcuni
principi generali, astratti, ipotetici, per dirla con Musil, che sulla malafede
scientista ci aveva visto lungo: “i
razionalisti sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò
s’impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema”.
Queste “regole del filosofare”, arbitrariamente assunte dal soggetto Newton
come “verità assolute”, finiscono quindi per convalidare ogni sua teoria
oggettiva, facendo tornare infine i conti del suo ragionare (semplicità,
uniformità della natura e meccanicismo, ossia la convinzione che le proprietà
fondamentali dei corpi possano essere calcolate basandosi su movimenti nello
spazio). La logica di Newton, da questo punto di vista, non è poi così tanto
logica, si potrebbe anzi sospettare che faccia acqua da tutte le parti. Anche lui
infatti, alla fin fine, come ogni scienziato che si rispetti, vuole avere
ragione di ciò che sostiene. E per ottenerla è disposto pure a truccare i dati,
a non vedere l’evidenza, a cambiare persino metodo alla bisogna, pur di trovare
infine la quadratura del cerchio: porre un’ipotesi e poi far concorrere ogni
sforzo analitico per il raggiungimento di un risultato finale, sembra la
premessa fondante ogni “neutrale” ricerca dell’evidenza, della “verità ultima”; per dirla con
Dostoevskij: “l’uomo è talmente attaccato
al sistema e alla deduzione astratta che sarebbe pronto ad alterare
premeditante la verità, e pronto a non vedere vedendo e non udire udendo, pur
di giustificare la propria logica”. Che infatti ogni presunto principio
genealogico sia un nulla autoreferenziale che vuole fondare una verità assoluta
esclusivamente sull’aderenza modello che si è voluto creare ad hoc per rallegrarsi poi della
“correttezza” della soggettiva ipotesi, ce lo comunica nuovamente Musil ne I turbamenti del
giovane Törless: “una maglia tiene su
l’altra, sicché l’insieme appare naturalissimo. Ma nessuno sa dove stia la
prima maglia che regge tutto quanto” (per fortuna Newton era quello che nei
Principia affermava: “hypotheses non fingo”).
Eppure il filosofo di Woolsthorpe ha fatto persino peggio del truccare le carte
in tavola per darsi, implicitamente, “la Ragione”. La legge per cui
universalmente gli siamo grati, quella della gravitazione universale, è talmente
ben congeniata ed “oggettiva” che non sta in piedi da sola: per farlo Newton si
è inventato ex novo le nozioni di
spazio e tempo assoluto, ossia l’esistenza di punti di riferimento indipendenti
da qualsiasi corpo, in rapporto ai quali si può stabilire se un oggetto
effettivamente si muove o sta fermo (ovviamente, proprio perché convinto
induttivista, non dimostrabili empiricamente!). Anzi, pur di comprovare un sub-jectum travestito da dogmatico assioma, egli finì addirittura con
l’ancorare lo spazio assoluto a Dio (“sensorio
di Dio”), unico possibile punto di riferimento esterno. Per Newton la
scienza era infatti soprattutto una modalità attraverso cui provare l’evidenza
che Dio ha creato l’universo (un Dio “ingegnere”, costruito ad immagine e
somiglianza del suo “perfetto” modello meccanico). Da questa prospettiva meno
genuflessa, Newton, più che uno scienziato, lo si evince da tutta la sua
produzione, è un deista e un fervente credente. E’ noto infatti, ma
alcuni manuali militanti preferiscono soprassedere, così come qualche inciuchito uomo di
fede ha deciso di tacere, Newton, ancor prima che studioso e filosofo, fu un
credente che si dedicava a studi alchemici, di magia e cabalistici. Un uomo pio
che sentì l’urgenza di riscrivere la Bibbia, commentandone il messaggio. Un
teologo che decise di scrivere un Trattato sull’Apocalisse perché credeva che “occorresse conoscere le profezie per
salvarsi” (tanto meglio se le vaticinazioni erano le sue: attraverso la matematica,
che è in fondo la mediazione tra la “perfezione” di Dio e quella sospirata dall’uomo
– entrambe sono infatti perfette, dogmatiche, astratte ed acritiche auto da fé -, previse che il mondo
sarebbe finito nell’anno 2060). Ma forse è proprio in questo suo latente
bisogno di prevedere, di salvarsi, di dimostrare costantemente la propria bontà
attraverso la manifestazione del favore divino, che viene fuori l’autentica forma mentis dello scienziato inglese.
Questa voglia di totale dipendenza dal risultato, così prossima al calvinismo,
sembra essere stato il dominus che ha
ispirato l’agire di ogni sua "scoperta", (per "coprire" la sua incapacità di autonomia; per non accorgersi dell'insensatezza del suo operato; per allontanare lo spettro dell'horror vacui; per far vedere, in fondo, quanto è stato bravo,
quanto Dio sia con lui!). Come quel l'uomo calvinista che aveva bisogno di testare coi propri occhi la grazia di Dio per
sentirsi convalidato, approvato, accettato, “nel giusto”, anche Newton abbisognava di dimostrare il proprio operato, affinché anche gli altri lo vedessero e ne potessero così apprezzare la bontà. Chissà, infatti,
quanto Newton ha cercato la sua oggettività prima d’imbattersi nella voglia di
doverla trovare per forza?