Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque)

Creato il 19 novembre 2014 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Cent'anni fa l'Europa si stava dilaniando a colpi di cannone e baionetta e, più ci allontaniamo dai sanguinosi eventi della Grande Guerra, più sarà difficile rendersi conto dell'enormità e della pervasività di tale conflitto. Per questo sono fondamentali le testimonianze di chi ha vissuto i terribili anni dei conflitti mondiali e per questo ho ripreso in mano proprio in questi giorni un testo che lessi anni fa durante il primo anno di liceo: Niente di nuovo sul fronte occidentale, romanzo in larga parte autobiografico scritto da Erich Maria Remarque nel 1929 per dar sfogo agli incubi e alle inquietudini che lo assalivano da anni, da quando era riuscito a scampare alle trincee.

Dì lì a pochi anni il libro venne messo al rogo dal governo di Hitler perché considerato antipatriottico, l'atto di un traditore che, fortunatamente, avrebbe lasciato lasciato la Germania in tempo per sfuggire all'altro grande incubo che sarebbe stato il nazismo. Ma cos'ha il libro di Remarque di tanto antinazionale, al punto da fargli guadagnare un simile trattamento? Come molti altri testi incorsi nella censura e nella condanna di autorità politiche, racconta una scomoda verità. Remarque non si allontana da Emilio Lussu quando descrive la dura vita della trincea, una realtà in cui i proclami patriottici suonano vuoti e ipocriti, in cui ci si attacca alla vita - e alla terra che la può salvare - con le unghie e con i denti, un'esistenza fatta di malattia, ferimenti, sangue e sporcizia che ha ben poco del sogno della libertà e tutto di una vergognosa operazione di governi che cercano la gloria sulle spalle dei miseri soldati mandati a morire.
Il romanzo descrive i mesi trascorsi al fronte da Paolo Baümer e dai suoi compagni Alberto Kropp, Tjaden, Müller e Katzinski, improvvisamente strappati ai banchi di scuola e ad un mondo di ciechi professori idealisti e mandati nelle Fiandre, lungo una delle linee più calde del primo conflitto mondiale. Per loro diventa immediatamente chiaro che la guerra non è la gloriosa impresa al servizio della nazione, ma una carneficina inutile, in cui persone comuni, deboli e povere uccidono altre persone comuni, deboli e povere.

Rifletti un po'che qui siamo quasi tutti povera gente. E anche in Francia la gran maggioranza sono operai, manovali, piccoli impiegati. Perché mai un fabbro o un calzolaio francese dovrebbe prendersi il gusto di aggredirci? Credi a me, sono soltanto i governi . Prima di venir qui, io non avevo mai visto un Francese, e per la maggior parte dei Francesi sarà andata allo stesso modo quanto a noi. Nessuno ha chiesto il loro parere, come non hanno chiesto il nostro.

Giorno dopo giorno i ragazzi vengono mandati all'assalto, tornano feriti, subiscono imboscate, guadagnano a fatica qualcosa da mangiare e dimenticano progressivamente loro stessi. Il grande disagio espresso da Paolo non è solo nell'onnipresente paura della morte, ma nella convinzione che, anche se tutti loro dovessero sopravvivere, non saranno più quelli di prima e troveranno un mondo completamente diverso da quello che avevano creduto di conoscere. Per questo l'autore antepone al primo capitolo un'epigrafe:

Questo libro non vuol essere né un atto d'accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale - anche se sfuggì alle granate - venne distrutta dalla guerra.


Rileggendo queste pagine non mi tornavano alla mente solo i ricordi del precedente incontro con le figure di Paolo, Alberto e gli altri soldati, ma anche quelle, recentemente lette, di Un anno sull'Altipiano. Torno a citare Lussu non per essere ripetitiva, ma perché ritrovare nelle riflessioni di due autori che hanno vissuto gli stessi eventi combattendo in due schieramenti opposti pensieri comuni, espressi con la stessa intensità e lo stesso dolore, è significativo, spiazzante. Certo, non occorre un libro per farci capire che la guerra porta sofferenza a chiunque, indipendentemente dalla bandiera sotto la quale combatte, ma, a cent'anni di distanza, confrontando queste testimonianze, sembra di sentir echeggiare da un lato all'altro del campo di battaglia un comune grido di ribellione, dolore, infelicità e paura.
Entrambi appaiono disgustati dalla retorica dello Stato maggiore e dei governi, così lontana dalla morte e dalla miseria della trincea e delle bombe:

Mentre essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza del servire lo Stato, noi sapevamo che il terrore della morte è più forte. Non per ciò diventammo ribelli, disertori, vigliacchi - espressioni tutte ch'essi maneggiavano con tanta facilità; - noi amavamo la patria quanto loro, e ad ogni attacco avanzavamo con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo ad un tratto imparato a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del loro mondo non sopravviveva più nulla. Improvvisamente, spaventevolmente, ci sentimmo soli, e da soli dovevamo sbrigarcela.

Non è il legame con questa Patria lontana, che, rappresentata dalle autorità prese dai loro cerimoniali (significativa è la rivista con la divisa buona di fronte all'imperatore), appare indifferente, quello che interessa al soldato, ma un attaccamento ad una terra ben più autentica, quella che può salvargli la vita o costituire la sua tomba:

A nessuno la terra è amica quanto al fante. Quando egli vi si aggrappa, lungamente, violentemente; quando col volto e con le membra in lei si affonda nell'angoscia mortale del fuoco, allora essa è il suo unico amico, gli è fratello, gli è madre; nel silenzio di lei egli soffoca il suo terrore e i suo gridi, nel suo rifugio protettore essa lo accoglie, poi lo lascia andare, perché viva e corra per altri dieci secondi, e poi lo abbraccia di nuovo, e spesso per sempre.

I rari momenti di spensieratezza di cui godono i giovani protagonisti, che riescono a corteggiare delle ragazze francesi, conquistandole con i cibi serviti alla mensa o si impadroniscono della dispensa di un casolare abbandonato cucinando ghiottonerie sotto il fuoco nemico, non regalano sollievo, ma accentuano la malinconia, perché ci danno l'idea dell'enormità della gioia che segue la momentanea sospensione del conflitto. Nelle parole di Paolo si percepisce riga dopo riga tutta la sofferenza di un soldato che, per non essere schiacciato dal terrore e dal dolore, trova nell' oblio l'unico modo per sopportare una sorta cui non si può ribellare.

Questa forza dell'abitudine è anche quella che ci fa, in apparenza, dimenticare così presto. L'altro ieri eravamo ancora sotto il fuoco, oggi facciamo delle buffonate e gironzoliamo nei dintorni in cerca d'avventure, domani saremo nuovamente in trincea. In realtà non dimentichiamo nulla. Finché siamo in guerra, le giornate del fronte, a mano a mano che passano, precipitano, ad una ad una come pietre, nel fondo della nostra coscienza, troppo grevi perché pel momento ci si possa riflettere sopra. Se lo facessimo, esse ci ucciderebbero; infatti ho sempre osservato che l'orrore si può sopportare finché si cerca semplicemente di scansarlo: ma esso uccide, quando ci si ripensa.

E la cosa certamente più triste di questo oblio è che gli affetti e le realtà più intime e familiari non bastano a colmare l'enorme vuoto lasciato dalla guerra, come quando Paolo, in licenza, torna a casa e ritrova i libri della sua giovinezza, che gli sembra così lontana da apparirgli quasi come l'esistenza di un altro ragazzo, non la sua:

Sono inquieto: ma non vorrei esserlo, perché non è giusto. Voglio invece risentire dentro di me quella silenziosa attrazione, quel fascino potente e misterioso che provavo sempre quando mi avvicinavo ai miei libri. Voglio che la ventata di desideri, che si levava dalle loro copertine, mi investa come allora, e sciolga questo pesante, plumbeo, morto peso che porto dentro di me, non so dove, per restituirmi l'impazienza dell'avvenire, l'alata gioia del mondo del pensiero... e mi ridoni il perduto slancio della mia giovinezza. [...] Voglio sentire che il mio posto è qui; e ascoltare questa voce, perché tornando al fronte io possa dire a me stesso: la guerra si sommerge, sparisce sotto l'ondata del ritorno; la guerra passa, non ci consuma, non ha altra potenza che esteriore. [...] Nulla, nulla. La mia inquietudine cresce. Un terribile senso di desta in me, quello di essere un estraneo qui dentro. Non so ritrovare il passato, sono escluso da questa vita. [...] Sono un soldato, a questa cosa certa mi devo tenere.

La guerra non si sommerge, ma è un fiume in piena che travolge ogni cosa, è la massa di fango in cui affondano i soldati e che non distingue le persone, ma solo le divise. Eppure ciascun militare si rende conto di essere più diverso dal governante della sua nazione di quanto non sia dal suo diretto avversario nascosto nella trincea opposta. Ed è ancora l'impressionante segno di un' umanità più profonda di qualsiasi proclama nazionalistico il comune pensiero di Emilio Lussu e Erich Maria Remarque di fronte all'avversario, non appena questi è abbastanza vicino da lasciarsi osservare nel suo essere un uomo come tanti. Se Emilio descrive il nemico avvistato durante la sortita nei pressi del campo austriaco, Paolo può vedere chiaramente il suo solo dopo averlo massacrato:

Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un'altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un'idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire... perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello, come Kat, come Alberto. Prendi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare.

Di fronte a testimonianze come questa e alle tante riflessioni che costellano Niente di nuovo sul fronte occidentale come Un anno sull'Altipiano non possiamo restare indifferenti, non possiamo pensare di cancellare dalla nostra memoria un avvenimento che ha causato tanti milioni di morti e distrutto per sempre anche la vita di coloro che sono tornati a casa. Libri come Niente di nuovo sul fronte occidentale ci impongono di ricordare, insegnandoci ad essere consapevoli di cosa significhi essere uomini, a prendere coscienza degli orrori di cui l'umanità si è macchiata e dei sentimenti che ha calpestato costringendo tante persone a uccidersi a vicenda.

Dimenticare tutto ciò non sarebbe solo un grande insulto a tante vite perdute, ma anche una rinuncia a noi stessi e ai nostri doveri umani.


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