Nino Iacovella: all’altezza del pianto

Da Narcyso
22 dicembre 2013

Nino Iacovella, LATITUDINI DELLE BRACCIA, deComporre edizioni 2013

A volte vogliamo trovare un appiglio nelle parole, un viatico per la giornata piovosa, tenuta malamente in piedi da pensieri che fuggono da tutte le parti e ognuno si porta via un brandello della nostra scarsa resistenza a durare, quel poco che rimane per stridere ancora nelle strade della città, lasciare qualche traccia di noi, qualche parola.
A volte vorremmo, dalla poesia, la semplice resa, restituiti in un corpo e in un parola, corpo che naturalmente si disfa e vive, parola che ci viene incontro, che ci chiede di esistere nella resa, nella perdita.
Ecco, apro così, a caso, il libro di Nino Iacovella, e leggo:

Time

I

Quelle volte in cui rientriamo
dal freddo, vene implose dalle mani
e il buio delle scale ancora
aggrovigliato negli occhi

Il cuore a nudo della risalita
non trova pace e duole
come una caduta dai piani alti

di giornate rotolate una ad una, sfuse
come si fossero aperte all’improvviso
da una confezione in offerta speciale

II

Varcata la soglia, si depone l’insieme
delle cose andate a male:
le chiavi dell’auto in sosta vietata,
le ali dimenticate sul pianerottolo,
come ombrelli disfatti dal vento invernale

Apriamo la porta come se davvero
potessimo accedere a qualcosa,
che il corpo abbia spazio da occupare
con una pelle che non sia solo involucro
corazza destinata a scaglie dure

III

Adesso è tutto in ordine

La bottiglia del vino,
i bicchieri e la carne
preparata a freddo

Ho chiuso la porta?
Sì, chiusa tutta l’apertura
di queste fughe rimaste
impigliate tra i denti

Tutto il fiato che viene a mancare
ispira l’aria delle circostanze

mentre la finestra svela il dettaglio
di un cielo vivido
di traiettorie sprecate

p. 79

È esattamente così questa giornata, questo procedere fino al limitare della porta, per resistenza, per assuefazione alla vita: i versi dicono di noi, la voce ci ascolta, ci medica.
E poi ancora ci addentriano nel buio, stiamo un po’ vicini all’intimità e al silenzio delle cose. Il buio è abitato dal nostro sguardo bambino, dalla promessa di una nascita, dall’animale braccato e primordiale, dalle mani che si cercano per dirsi, almeno, “ci sei”, “sono qui”.

Cortocircuito

Cala il buio come un taglio:
solo nero dentro le stanze,
suoni d’allarme nell’aria,
le nostre frasi interrotte

Con uno strappo improvviso il telone
della scenografia mostra lo squarcio
della finzione

Prima che il miracolo della vista
torni a riappropriarsi dei corpi
sembriamo come morti

la vita rimane più sottile

non sappiamo sino a quando

p. 115

C’è dunque il desiderio di un “dentro” in queste poesie, di una custodia necessaria dove non si grida, non ci si espone, non si indossa il vestito della festa e della seduzione – e si veda quanta indisposizione dei corpi nei centri commerciali, nella separazione ingannevole dei vetri; luoghi in cui il grido non è contemplato perché tutto è esposto e potrebbe rompersi la certezza di essere la merce inconsapevole che siamo, la nostra natura di oggetti che credono di essere soggetti senzienti.
Questo il clima riflesso da queste poesie, attraversate da un necessario e civilissimo insegnamento: ogni volta che attraversiamo qualche esperienza della vita, forse ne siamo inconsapevolmente attraversati. E allora il lavoro da fare è la consapevolezza ad essere per essere migliori, a respirare insieme come il bambino nel ventre della madre, noi e gli altri, tutti devastati da una separazione che genera morte e dolore nel grande cerchio della terra.

Over

Anche oggi sento i tonfi,
le risa del quinto piano

Tutto mira all’assedio:
l’occhio della portineria
scruta al buio
dalla tromba delle scale

Spalle alla porta contemplo
la solidità dell’intelaiatura,
la felice soluzione
di una vita blindata

Mai guardare all’altezza dello spioncino:
meglio buttarsi a terra per lasciare
un’impronta sul pavimento

Lasciarsi cadere, accedere al filo
di spazio sotto la porta, come per vedere
affiorare il proprio viso scivolato
all’altezza del pianerottolo

Nella sua imponenza il vuoto
appare rovesciato, una voragine
poggiata sul marmo delle scale

Con la faccia schiacciata al suolo
bacio la paura che ammicca
nitida alla mia parte

e a bocca chiusa mastico i denti
e lascio scorrere piano il dolore,
il freddo della sua sostanza

***

Starsene appartati in un angolo del bar
non dire niente, fino a quando tutto
si rovescia sul tavolo

e tu non sai cosa fare, trattieni il fiato
con la fiera miseria del rifugiato

Giustificarsi è buona norma
almeno per il temporale:
c’è chi si è arreso sotto un balcone
chi dentro un posto caldo dove stare

Ma eccoti a nudo, dopo la pioggia
dilaga anche il vino sulla tovaglia

Il barista è un Dio senza parola
che raggela tutti dal banco

Strofina l’orlo di un bicchiere
con un movimento circolare del panno,
come la luce che ruota nella notte
da una terra di guardia

p. 76

Questo è guardare, essere guardati in una terra di conquista, non per essere semplicemente, ma per difendersi dal nulla e dal male.
Esiste il male? È una domanda che la nostra adolescenza aveva travisato, perché bene e male sono parole ambigue, e noi le conosciamo per resistenza, non per passività; resistenza ad essere nella pienezza delle parole, delle azioni – le parole non dovrebbero mai appassire nel loro insensato narcisismo, nel desiderio di uno splendore assoluto -
Quante morti, e sopraffazioni, e violenze dietro un pezzo di pietra chiamato diamante, dietro a un paio di jeans, un tappeto tessuto dalle dita sottili dei bambini. Qual è il pegno che paghiamo in nome di una parola che s’inerpica, altissima, verso il suo creatore, per rilucere?
La parola urta, è baluardo, ogni poeta deve trovare il suo modo. Qui il modo è la resistenza della memoria, la caparbietà a non dimenticare le scene crudeli, le bandiere straccione della rivolta – la rivolta è sempre, perché sempre è l’assuefazione – Vive di me la Storia, dell’immenso accumulo di macerie: cose distrutte, corpi dilaniati, spazzatura commerciale, avanzi di un benessere in cui stiamo comodi.

Lettera
(Battaglia di Nikolajewka)

Abbracciami, come vedi il mondo
mi ha tranciato l’osso
che sostiene la carne
per questo chiama da sotto i piedi
e mostra il vuoto
inesorabile dello squarcio

Attraverso le vene, prendimi,
prendi tutto quello che rimane

Se la mia faccia resta senza cielo
e gli ultimi sogni ad occhi aperti
soffocati nel fango
chiudili con la delicatezza della neve

e rivolgi il mio corpo
all’altezza del pianto

p. 39

Non è possibile, dunque, disquisire del senso metafisico dei centri commerciali senza aver ascoltato la Storia dei libri, dei superstiti, di quell’immenso archivio sonoro e visivo che è il novecento. Solo allora il vetro che ci separa dall’aria può farsi occasione della parola a capire che mondo abitiamo, gli inganni che ci abitano. Noi stessi inganni, immagini di una fotografia. Ed è questo dialogo sofferto tra ciò che è stato veramente, ciò che passa e l’impressione di abitare una fotografia, una realtà distante, che attraversa tutto il libro. Ma anche il rapporto tra l’essere singolo e l’appartenere a qualcuno attraverso l’arma della cura, dell’accoglienza, del contatto infine.

La poesia non può cambiare l’ordine
del dolore

Quella polvere non si poserà altrove,
piuttosto ricuce addosso la presenza
delle lapidi, insinuando al funambolo
che osa lo sguardo oltre la corda
che sovrasta le proprie rovine

Cercare ricordi, tra i muri anneriti
e le case abbandonate, noi tra le notti ancorate
con le unghie che vanno a fondo
ai bordi del materasso, avessimo visto i volti,
le madri tra i vuoti delle stanze,
avremmo un taglio più vistoso al collo
e come parole un filo di voce

Per questo lanciamo solo segnali di fumo
da posti sicuri e abbandonati

e se apriamo nascondigli
nutriamo un vuoto da formaldeide,
un lascito di brace che toglie il respiro

Lasciamo tepore, ma con parole di cenere
dopo ogni bivacco

p. 63

Questo libro, insomma, con serietà, è immerso nell’umano: noi, soli, e noi in mezzo agli altri, pensanti davanti alle azioni, pietosi, infine, verso noi stessi, gli altri, gli inganni di un tempo terribile.

Sebastiano Aglieco
Somendenna, ottobre 2013