Nino Manfredi: ricordo di un attore

Creato il 30 marzo 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

(Nino Manfredi e Giovanni Berardi)

A marzo cadeva il compleanno di Nino Manfredi. Esattamente il ventuno avrebbe compiuto novant’anni. Purtroppo, invece, il 4 giugno 2004 ci lasciava. Quando lo incontrai per la prima volta nella casa delle vacanze a Scauri, in provincia di Latina, un privilegio tra l’altro concesso a pochi, era il 27 agosto 1990. Però già in precedenza ero stato suo ospite nel sontuoso rifugio dell’Aventino a Roma. Erano, questi, i giorni in cui Nino stava interpretando per il cinema la maschera di Ponzio Pilato per il film di Luigi Magni  Secondo Ponzio Pilato. Ebbene, appena ricevuto sulla porta mi sono trovato dinanzi Ponzio Pilato. Nino Manfredi non smetteva mai di essere, proprio fisicamente, il personaggio che in quel momento stava interpretando. Ha detto Giuliano Montaldo, nella nostra recente intervista al regista, che Nino Manfredi era un attore, come pochissimi in Italia, che sapeva restare sempre concentrato nella maschera che stava interpretando. Parlava come loro, pensava come loro, camminava come loro. Infatti era successo così con molti personaggi memorabili che aveva interpretato, tutti molto caratterizzati anche fisicamente, e non solo per Geppetto in Le avventure di Pinocchio (1972) di Luigi Comencini o per Gino Girolimoni per Girolimoni, il mostro di Roma (1972) di Damiano Damiani, ma anche nei personaggi più anonimi del mondo borghese o del proletario (pensiamo a film come Brutti, sporchi e cattivi, 1976, di Ettore Scola, o a Il giocattolo, 1979,   di Giuliano Montaldo) aveva dato caratteri somatici profondi e linguaggi precisi.

Nell’estate del 1990 a Scauri l’incontro era nato in previsione della redazione di un libro, il  Castigat Ridendo Mores. Il cinema di un attore, anche se da allora anni ed anni erano passati prima di dare davvero forma alle ipotesi e le ragioni concrete del lavoro, un lasso di tempo che ha offerto però l’opportunità per fare nascere tra noi una solida, affettuosa, concreta amicizia. Ricordo ancora la telefonata di quella estate, nel giorno dell’Assunta: l’incontro non era possibile nell’immediato, perchè Nino era sul piede di partenza, a Roma era in piena lavorazione il film di Luigi Magni  In nome del popolo sovrano. Manfredi interpretava Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, un capopopolo dell’ ottocento, fucilato insieme al figlio di tredici anni solo per aver mantenuto la propria dignità. I personaggi che affollavano il film di Magni erano tanti, Ciceruacchio certamente il più corposo. Nino era particolarmente contento per questa nuova occasione che il romanissimo “Giggi”, e il cinema italiano, di cui l’attore rimane un caposaldo, gli avevano offerto. “È un personaggio difficile. Ciceruacchjo fa ormai parte della storia risorgimentale di Roma” confidava Nino.  Dirà infatti: “Solo l’amicizia con Magni e la validità di questo copione mi hanno spinto ad abbandonare le vacanze a Scauri. Giro questo film perchè è l’unica offerta seria che abbia ricevuto recentemente dal cinema. Leggo ormai solo cose inutili e brutte, allora meglio fare altro”.

Quell’altro era il teatro, e Nino deve la sua formazione di attore proprio al teatro, a Rugantino (1962), la commedia che ha fatto esplodere la sua immensa popolarità, trasportandola subito dopo anche nel cinema. Ricordo, di quei giorni, il suo interessamento alle mie continue esternazioni; mai colto, allora ed in seguito, un solo segno che in qualche maniera mi confermasse quello che di lui mi avevano raccontato le persone che si vantavano di conoscerlo bene: un soggetto scontroso, irritabile, facilmente disinteressato alle problematiche ed alle felicitazioni altrui. Certo, sul set o sul palcoscenico, Manfredi era un esigentissimo professionista, capace di furie imprevedibili e temibili quando coglieva cialtronerie o disattenzioni e, pur essendo stato un convinto assertore della sacralità e dell’impegno nel suo mestiere d’attore, difendeva continuamente il carattere ludico della sua professione. Ogni artista è sicuramente imprendibile per le vie della razionalità, e Nino era un attore che non si abbandonava all’auto contemplazione da divo, ma considerava il proprio iter esistenziale soprattutto come un dono della volontà e della dea bendata.

Un altro ricordo ancora vivissimo: Nino che sfoglia i giornali che io gli ho portato, il mensile di politica, società, cultura, Dossier, di cui ero redattore e la copia di Latina oggi, che avrebbe pubblicato l’incontro. Lo rendo partecipe dei miei progetti, trovo anche motivo per esternargli la mia contentezza per essere in quel momento al suo fianco, io così incapace di dimostrare e manifestare fino in fondo i miei sentimenti, i miei affetti. Gli parlo dei miei ideali cinematografici, dei miei idoli e delle mie ricerche artistiche, Nino mi sta a sentire proprio con interesse. Manfredi era un attore che poneva, tra i suoi valori artistici principali, la comunicazione, assolutamente doveva semplicemente comunicare, sempre. Il castigat ridendo mores significava, come spiegava, raccontare cose drammatiche facendo nascere un sorriso, base in fondo su cui ha poggiato tutto il suo cinema, almeno quello più congeniale alle sue corde, il momento più alto della comunicazione.

Diceva: “Lo spettacolo non deve essere soltanto un modo di esprimerti, una tua soddisfazione personale, interiore, ma deve arrivare a tutti: lo spettacolo per essere utile deve avere questa forza”. Per grazia ricevuta (1971), una delle sue tre regie cinematografiche, ad esempio, ha vinto a Cannes il premio per la migliore regia. Eppure era stato stroncato, ad una prima ed assoluta visione, pensiamo, da critici autorevoli. Questi gli avevano riservato solo una lettura assai superficiale ed a una sola via, quella assolutamente comica. Ed invece l’alta, precisa, elementare comunicabilità del film, voluta e trasmessa dal regista Manfredi, ha creato i presupposti per l’importante premio, così come aveva favorito, in precedenza, anche lo spunto per una critica frettolosa, rientrata in parte dopo l’annuncio della vittoria a Cannes, dovuta alle solite tendenze opportunistiche e conformiste di certa critica italiana. Cosa affrontava Per grazia ricevuta? Il problema di Dio, la sua ricerca attraverso l’uso dell’ironia, l’unico modo autentico per restituire la tonalità ed il peso essenziale del problema.

Diceva Nino: “La perdita della fede io l’ho vissuta come un problema, con dolore, non come un fatto culturale, una moda culturale. Dopo aver fatto Per grazia ricevuta, uno spettatore incontrato a Milano mi dice (e Nino raccontando l’aneddoto ne imitava proprio la parlata lombarda): uè, Manfredi, ho fatto tanto di quel ghignare vedendo Per grazia ricevuta, ma tanto di quel ghignare… Poi si ferma, ci pensa su un pochino, sente di non avere detto tutto e mi fa: e poi è un film molto intelligente…”  E proprio attraverso questi piccoli resoconti, questa tendenza a voler entrare come in un palcoscenico, servendosi anche di voci imitate, personalizzate, ed inclinazioni inverse alla sua personalità, si comprendeva come la teatralità scorreva decisa e quotidiana nelle vene di Nino Manfredi. Si toccava davvero con mano questa sua forza.  C’era poi l’accanimento, la foga, la rabbia, per poter capire, comprendere, combattere per come vanno le cose del mondo, testimoniando la partecipazione dell’attore nella rappresentazione del grande spettacolo che è la vita dell’uomo, proprio minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Nelle attenzioni, anche pignole, che metteva nel spiegare le cose, nell’essere il più impossibile informato, infine proprio nel realizzarle, si capiva quanto lavoro aveva speso affinchè il perfezionamento della sua arte, della sua cultura, del suo essere uomo raggiungessero un obiettivo il più possibile congeniale alle aspettative prefissate dall’artista e a quelle radicate nell’uomo.

Detto questo, oggi dubito ancora, e fortemente, che Nino abbia raggiunto delle piene soddisfazioni personali. Manfredi si sentiva in gioco continuamente, tanto da fargli ammettere che “l’ultima replica dello spettacolo è sempre la migliore”. E questa sensazione di insoddisfazione che trasmetteva penso che ne rivelava appieno l’io marchiato a fuoco, l’ego profondo, quasi narcisistico, la personalità concreta, quella che poi sarà l’ansia di voler capire tutto, di conoscere a fondo: “io voglio capire”. Mi è capitato sovente di sentire questa frase allorquando era alle prese con uno dei tanti collaboratori che giorno dopo giorno incontrava per dare vita alle sue cose. Sul lavoro di sceneggiatura, ad esempio, molto importante nel cinema, ancora più fondamentale nel suo: “non puoi dire cose a cui non credi”. Questa frase riassumeva, in forte sintesi, il quadro dell’attore che non finiva nemmeno un attimo di essere l’uomo. Raggiunto ormai da una magrezza fisica, che era il più possibile matura, il suo viso, la sua maschera, il suo colore, davvero si avvicinavano all’attore scolpito nell’immaginario: Eduardo De Filippo, Buster Keaton e la sua tristezza, Totò in alcune maschere inventate per Steno, per Mario Monicelli, per Pier Paolo Pasolini. Guardandolo in viso, quando era concentrato, il volto di Nino assumeva un atteggiamento duro, in apparenza decisamente scontroso. E la concentrazione era quasi costante negli attimi che componevano le giornate della sua vita; era concentrato quando rammentava qualche episodio, quando pensava alle scene di un testo, quando raggiungeva il telefono, quando rispondeva ad una qualunque domanda, anche per la più scontata in apparenza la sua risposta partiva da lontano e raggiungeva mete insperate per un qualunque interlocutore; persino quando fumava, e fumava parecchio, Nino era una maschera di concentrazione. Mi spiegava le sigarette erano dovute alle grandi emozioni, “guai a non emozionarsi più” ricordava, dandogli il valore di un insegnamento. Ed era un insegnamento davvero pratico il suo, vitale, dettato proprio dal cuore, visto che davvero metteva a dura prova i suoi polmoni, che furono colpiti dal terribile bacillo di Koch. Gli occhi castani, anzi, che sembravano neri oltre misura, guardavano in una maniera che sapeva di astuzia e di ingenuità insieme, come a confessare le due personalità dei personaggi interpretati: ingenui come Otello Cucchiaroni di Guardia, ladro e cameriera (1958) di Steno, astuti come il Michele Abbagnano di Cafè express (1980) di Nanni Loy, due film citati a testimonianza della grandezza di una carriera, base e vetta della commedia all’italiana. Le lavorazioni dei film interpretati da Manfredi spesso sono state irte di difficoltà o di incomprensioni. Gli urti con i registi o con i produttori erano tali da creare dei casi giornalistici dai toni spesso infimi, qualche volta anche polemici o, addirittura, scandalistici. Ma in Manfredi, da serio professionista qual’era, l’intenzione primaria era sempre quella di migliorare l’opera cui stava regalando così tante energie, quasi sempre per non affossarla  nei meandri cari alla commercialità dei produttori, altre volte per non lasciarla sprofondare nei freddi labirinti dell’arte pura che alcuni registi andavano decantando e realizzando, con il risultato poi di negare all’opera la comunicabilità necessaria a renderla utile allo spettatore.

In questo contesto netti sono stati i conflitti con i registi Franco Zeffirelli, sul set di Camping (1957), con Franco Brusati, nel tormentatissimo set di Pane e cioccolata (1973), con Alberto Bevilacqua in Attenti al buffone (1975), con Alberto Lattuada per Nudo di donna (1981). Questo ultimo caso è addirittura atipico, in quanto il regista Lattuada, per le forti discussioni con l’attore, non portò a termine nemmeno le riprese del film, scegliendo di lasciare la regia all’attore stesso.

Dirà infatti Nino Manfredi; “Non c’era niente da fare, si trattava di due culture differenti: io volevo raccontare la mia storia e Lattuada ne pensava un’ altra, smorzando, tra l’altro, tutti i toni umoristici. Il divorzio è stato inevitabile”. Intanto è interessante notare come i decenni deputati, gli anni sessanta, così come i settanta e gli ottanta, si siano aperti per l’attore Manfredi con una sua regia, regie tutte sostenute da profonde e serie motivazioni. Nel 1962 Nino ha diretto L’avventura di un soldato, episodio del film L’amore difficile, al solo scopo dichiarato di prendere confidenza con il mezzo cinematografico, una sorta di misura che l’attore voleva creare con la macchina da presa. Il risultato è stato, peraltro, perfettamente centrato. L’avventura di un soldato risulterà l’episodio che darà lustro, significato, interesse a tutto il film. Oggi, infatti, si ricorda il film L’amore difficile, che vede alla regia degli altri tre episodi Sergio Sollima, Luciano Lucignani, Alberto Bonucci, proprio nella prospettiva unica di quell’episodio. Grandi, naturalmente a conferma, le recensioni dei critici. Una su tutte ci piace ricordare, quella dello scrittore e regista Mario Soldati, quando, a conclusione del suo intervento critico, accosta Manfredi al grande Charlie Chaplin: “Quel treno che passa e cancella vita è degno di Chaplin e di nessun altro”. Poi nel 1971 Manfredi dirige ed interpreta il suo secondo film  Per grazia ricevuta, palma d’oro per la migliore regia al festival di Cannes, che certamente è il film che più gli appartiene, una sorta di autobiografia sul pensiero religioso dell’attore. Piace ricordare come al cinema Barberini di Roma il film restò in programmazione un’intera stagione, inaugurando per il sabato lo spettacolo di mezzanotte. Ma Manfredi ripeteva che la regia non lo aveva mai, fino in fondo, appassionato, tanto che il suo terzo film come regista, Nudo di donna, lo avrà solo in sostituzione del regista Lattuada che preferì, per le ragioni che abbiamo già descritto, abbandonare preventivamente quel set. Cosa significa questo se non la conferma della statura dell’attore, la consacrazione sempre più radicale e profonda di una carriera, la necessità, in ultimo, di non dare mai vite a figurine blande? Questi erano i suoi dati costanti. Magari qualche trama, in qualche suo film, potrà anche risultare banale, oltremodo ridanciana o semplicistica, (Carmela è una bambola (1958), Gianni Puccini, ad esempio, Caporale di giornata (1958), Carlo Ludovico Bragaglia o Audace colpo dei soliti ignoti (1959) di Nanni Loy), ma l’interpretazione dell’attore non era mai fiacca, monocorde, negativa, priva di sangue, slanci, fervore. Infatti, critici stimati diranno spesso, tra le righe delle proprie recensioni o interventi, che “l’interpretazione dell’attore Manfredi è sempre superiore al film che interpreta”.

Definito, ma noi pensiamo proprio in maniera riduttiva, un attore della commedia all’italiana, Nino Manfredi in realtà era molto di più. Il paletto di “attore della commedia all’italiana”, issato, questo anche, da critici e da enciclopedie autorevoli, per delimitare, tutto sommato, il campo di indagine, era così rigorosamente pertinente? Tale definizione, se da un lato testimonia il valore di identità legittimamente riconosciuto al genere della commedia all’italiana per il nostro cinema, dall’altro riduce e sminuisce quello che è il valore dell’attore, imprigionandolo nel genere. Se questo può essere abbastanza vero per Alberto Sordi, riconosciuto un padre autentico della commedia cinematografica italiana, proprio perchè nella commedia egli stesso riconosceva l’autenticità, l’ispirazione, la natura e la poesia della sua arte, per Nino Manfredi ciò non corrisponde alla verità. Nino Manfredi è stato piuttosto un attore che ha fatto anche la commedia all’italiana, così come lo sono stati, in definitiva, anche Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni. Nino Manfredi si era calato in veri e propri personaggi che non sono, propriamente, personaggi della commedia all’italiana. Manfredi già nei primi anni settanta cercava un sorpasso dal genere, i suoi film del periodo, infatti, entravano proprio a fatica, quasi con forza,in questa categoria: pensiamo, tra i tanti, a film quali  Rosolino Paternò, soldato (1970) di Nanni Loy, Roma bene (1971) di Carlo Lizzani, Trastevere (1971) di Fausto Tozzi, Lo chiameremo Andrea (1972) di Vittorio De Sica, Girolimoni, il mostro di Roma (1972) di Damiano Damiani, Pane e cioccolata (1974 di Franco Brusati, C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, Attenti al buffone! (1975) di Alberto Bevilacqua, Il giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo, Cafè express (1980) di Nanni Loy.

Nino Manfredi aveva ormai ottantadue anni, ma nessuno però associava a questa età il tempo della vecchiaia, tanti erano i progetti ancora inevasi e la forza, la lotta, con cui affrontava sempre il quotidiano. E in quegli incontri, i cui ritmi ormai avevano preso ad essere a cadenza settimanale, i suoi ricordi, come in una catena di montaggio, poiché insistiti dalle mie continue domande, uscivano fuori, uno dopo l’altro, talora adombrati ma sempre gestiti con la massima sincerità, la massima disciplina. Nino Manfredi era davvero una autentica scuola.

Giovanni Berardi


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