Magazine Diario personale

Ninuccia e le scarpe degli Angeli: I Cap.: Ricordi lontani.

Da Gattolona1964

La CON-FINE editore di Lazzarini Nadia, ha letto tutto d’un fiato il mio Romanzo. Ai fini di una futura, probabile ma non certa pubblicazione da parte loro di questo intenso e laborioso manoscritto, la casa editrice sta effettuando un sondaggio di gradimento del pubblico a questo link:

http://www.con-fine.com/home/la-storia-di-ninuccia

Chi tra voi desidera lasciare un commento, un’idea, un suggerimento o un’emozione che ha provato nel leggere questi primi capitoli che ripubblicherò, lo può fare sul mio blog ma ancor meglio sul sito dell’editore.Buona lettura e vi aspetto numerosi, soprattutto i nuovi e gentili iscritti al mio salotto. fatemi sapere che cosa ne pensate, ma soprattutto scrivetelo sul link:http://www.con-fine.com/home/la-storia-di-ninuccia

Primo cap. RICORDI LONTANI.

Faceva un freddo polare quel mattino del quindici Gennaio duemilanove. Alle sette e quarantacinque, il termometro a Bologna toccava i meno otto gradi. Dalla terrazza del suo palazzo storico, Ninuccia poteva osservare con stupore e meraviglia, i rami degli alberi ghiacciati che formavano strane stalattiti e stalagmiti. L’acqua dell’antica fontana della piazza era completamente ghiacciata e lucente come uno specchio. I soliti bambini pattinavano come fossero su una vera pista, urlando di gioia. Ogni tanto qualcuno cadeva, dando una gran sederata, mentre gli altri ridevano di gusto, prendendo in giro il malcapitato di turno, infine si davano la mano per fare il girotondo. Questa scena si ripeteva davanti agli occhi di Ninuccia ogni inverno, ogni qualvolta la neve soffice si trasformava in ghiaccio e sempre alla stessa ora: le sette e quarantacinque del mattino, venti minuti circa prima dell’inizio delle lezioni a scuola. Com’erano belli i bambini di Bologna! “Chissà come sarebbe stato il mio bambino..”pensava Ninuccia, sentendo quella ben conosciuta rabbia ribollirle dentro. “Chissà se anche a lui, sarebbe piaciuto pattinare sul ghiaccio!”. Poi ricacciava in gola queste parole, deglutendo forte. Questi pensieri erano per lei amari, tristi e dolorosi come lame conficcate nel petto. Erano così forti da costringerla a prendere la solita compressa. E come ogni volta, si dava della stupida e della bimba ingenua, per permettere a tali ricordi di tornare ancora a galla. Che dolci e teneri i bambini di Piazza San Bertolasio! Con le loro gote arrossate per il gran freddo, i nasini gocciolanti, gli occhi che sprizzavano luce, erano un dono speciale che il buon Dio aveva voluto creare e mettere sui nostri traballanti cammini. Ancora una volta stramalediva sua madre benché le avesse insegnato a pregare. Le aveva insegnato a tacere sempre e ad accettare tutto in silenzio con rassegnazione: questo concetto scolpito nel suo cuore, Ninuccia lo aveva imparato a proprie spese. I bambini avevano la cuffietta di lana, i guantini coordinati, le giacche a vento ben imbottite, un carosello di allegri colori che danzava sui pattini! I passanti intirizziti dal gelo, camminavano con passo veloce osservandoli divertiti. Additavano ora l’uno, ora l’altra, felici di vedere quell’arcobaleno di colori! Per un attimo, complice la compressa che iniziava a fare il suo effetto, complice la scena, a Ninuccia tornò una specie di timido sorriso, facendole risaltare le labbra ancora piene e turgide, nonostante i suoi cinquantanove anni. “Avessi avuto io un simile e così caldo abbigliamento invernale! E magari anche un paio di pattini! Invece sempre mezza nuda e scalza, con addosso i vestiti usati e regalati dal nostro Parroco, quegli abiti che i ricchi signori scartavano come si trattasse di immondizia. Per me erano sempre troppo corti o troppo lunghi: ce ne fosse stato uno, uno solo della mia misura! E le scarpe? Chiamarle scarpe sarebbe stato un complimento, un grosso eufemismo. Le ricordo consumate e puzzolenti, con molti buchi e tanta colla per assemblare quel che restava di un paio di scarpe, prodotte nella Fabbrica di Mastro Raffaele. Ma quanto e come erano state usate? Quelle che un tempo forse erano scarpe di tela, o scarpe pulcine, “scarpe de’ cartune”,come venivano chiamate al mio Paese. Ricordo che contenevano una grande quantità di cartone che veniva adoperata come riempitivo nei tacchi. Erano molto sensibili all’umidità, all’acqua ed alla neve. Gli adulti, ma soprattutto noi bambini ci ammalavamo facilmente, dato che per tutto il lungo inverno avevamo i piedini bagnati e spesso ghiacciati. Poverini! Poveri miei piccoli amici che come me, chiedevate solo un buon paio di scarpe per correre lontano da lì. Dove siete ora teneri cuccioli? Come state?”. Ninuccia avrebbe voluto piangere, ma il pianto non era cosa per lei, non era ancora giunto il momento del tanto sospirato pianto. A parte la pelle di capretto, che era la più pregiata e veniva usata solo per produrre scarpe da cerimonia, le altre pelli che indossavano i meno abbienti come me erano durissime. Solo ad infilarci dentro un piede, ti usciva un grido di lamento per la durezza! Ci potevi anche trovare dei simici del dieci, messi lì apposta, per arrecare dolore a chi le avrebbe usate. “Sunu scarpe e Castrufrancu”, diceva Ninuccia con tono dispregiativo, per alludere alla scarsa ed economica qualità delle scarpe prodotte. Solo molti anni dopo le scarpe con la suola cucita con le tacce e le altre fatte con le gomme delle prime auto, furono sostituite dai carrarmati. Fu Tirotta Mafaldo, chiamato “lo storpio”, che ebbe quest’idea per primo. Egli voleva fare carriera nella Fabbrica e prendere il posto del primo marito di Ninuccia, Fornasetti Achille detto “il furbo”, che in quell’occasione si rivelò ancora una volta un perfetto ingenuo. Mafaldo astutamente ed in gran segreto, propose a mastro Raffaele di sostituire le suole dai chiodi rampini con i carrarmati, che altro non erano se non suole di caucciù incise con il disegno dei pneumatici. I carrarmati venivano così fissati sotto alla scarpa per tutta la loro lunghezza, garantendo una maggior durata delle stesse. La nomea che avevano ovunque “sunu scarpe e de cartune” stava piano piano spegnendosi e Tirotta divenne così Capofabbrica. “Ingegnoso”, disse a voce alta Ninuccia, altro che storpio! Quello era un demonio e ne sapeva già allora una più del diavolo! Il padrone doveva promuovere me, che seppur donna svolgevo le mansioni di due uomini messi assieme! Per non parlare di tutto il lavoro che mi portavo a casa la sera! Per fortuna ad aiutarmi c’era Rosina e dopo la parca cena insieme e con tanta buona volontà, tenevamo in ordine tutta la contabilità della Fabbrica, comprese le buste paga, a patto che Mastro Raffaele non mi sfiorasse più nemmeno con un dito. E lui sembrava rispettare il patto”. In seguito la durata e la robustezza delle scarpe, erano notevolmente migliorate. Le broncopolmoniti assieme alla pandemia di asiacella, che ebbe il suo picco massimo attorno agli anni ottanta, diminuirono pian piano, anche se avevano già fatto danni irreparabili alla salute. Ninuccia era molto nervosa, camminava su e giù per le stanze del palazzo, andando diritta verso gli armadi di ebano intagliato a mano. Apriva con foga le serrature degli stessi, ed osservava con braccia conserte e tutta la grinta che aveva in corpo, le centinaia di scarpe che aveva collezionato. Erano state numerate, divise per stagione e colore, collocate in ordine di altezza del tacco, facendo incidere nella propria scatola la data di acquisto ed il calzaturificio che le aveva confezionate per lei. Tutto questo lavoro immane da vero frate certosino, era stato svolto da Rosina, aiutata da Aristide, aiutato a sua volta da Laerte. Ci volle un mese circa prima di ordinare tutte quelle paia di scarpe. E che scarpe! Le migliori firme del mondo: da Paciotti a Prada, da Ferragamo a Sergio Rossi, Casadei e Pollini, le eleganti scarpe di Gucci, le mitiche Christian Louboutin, con la suola rossa, l’unico rosso che Ninuccia sopportava perché si trovava sotto al piede e lei lo poteva calpestare. “Certo che se mia madre, invece di passare tutte quelle ore in fabbrica, mi avesse dedicato un po’ della sua manualità, non mi sarei ammalata così tanto!”. Angelica, così si chiamava la madre di Ninuccia, era anche una brava sarta, ed avrebbe potuto confezionarle un abbigliamento adeguato. In questo modo la figlia non avrebbe avuto tutte quelle broncopolmoniti e pleuriti, che puntualmente ogni inverno bussavano alla sua schiena.”Febbri così alte e pericolose, che ogni volta mi facevano rischiare di andare a trovare il Padreterno!”, andava ripetendosi Ninuccia tra sé e sé. In casa soldi per le medicine non ce n’erano, latte caldo con i biscotti nemmeno a parlarne! Solo qualche tazza di brodo bollente, fatto con un pezzo di cappone regalato dalla Iones.Chissà, forse non avendo abortito per tempo, come ella desiderava, si auspicava che una volta o l’altra io chiudessi gli occhi per sempre”. “Una bocca in meno da sfamare”, diceva sempre con rabbia e occhi cerchiati da occhiaie spaventose. Se non fosse stato per Don Gaudenzio che ci regalava le medicine, in cambio di qualche lavoretto in sagrestia, non sarei qua a pensarci su ora.”. Questi erano i primi pensieri di Ninuccia, in quel gelido mattino, quando appena alzata guardava fuori dalla finestra, come ogni mattina era solita fare. Come ogni mattina aveva già acceso il maxischermo per seguire i telegiornali, dove non era infrequente ascoltare un servizio a lei dedicato. Come ogni mattina, appena scesa dal letto, si studiava il viso e si pesava. Abitudinaria, piena di fobie e di rituali, non rinunciava mai a nessuno dei suoi già prestabiliti gesti. Venivano eseguiti tutti in fila, come veri soldati sull’attenti, nessuno escluso. Conseguenza di un passato latore di manie ossessivo compulsive delle quali, assieme ai suoi soldi, Ninuccia era colma. Anche se Rosina le aveva acceso di buon’ora il caminetto nella sua camera come piaceva a lei, nulla poteva riscaldare il freddo che la percorreva da capo a piedi, procurandole brividi e tremori. “E’ il solito freddo psicologico, il freddo dell’anima che tu ben conosci e non è influenza, lo sai benissimo e non hai bisogno di sentirtelo dire da me ogni volta!”.Questo le ripeteva con voce ancora impastata per il sonno, il suo analista al cellulare, il professor Ugoletti Fortunato. Lei annuiva scocciata per la solita risposta, mentre con una mano teneva l’eterna tazzina del caffè, bevanda che adorava da sempre e nell’altra la prima sigaretta del mattino.“Sarà anche freddo psicologico” si diceva nervosamente tra sé e sé, “ma io sto gelando e tremo come una foglia”. Sono certa che tra poco mi verrà un attacco di panico, di quelli da farmi urlare!” Tutto questo mentre chiedeva a Rosina di aggiungere altra legna nel camino. Rosina le rispondeva, con la solita amorevole pazienza, di restare calma e di sorridere. Ninuccia se lo faceva ripetere sempre, almeno tre volte. Nonostante le consuete tre volte, stamane Rosina non riusciva a calmarla, né tanto meno a farla sorridere. La voce che Ninuccia si ritrovava ora, era cambiata anni prima, dopo un intervento alla tiroide durante il quale il chirurgo per sbaglio, le aveva toccato una corda vocale, facendole nascere questa specie di corvo gracchiante in gola. Certo che gliene erano successi di eventi dalla sua nascita, fino ad oggi! Come aveva fatto a sopportarli tutti? Ad arrivare così in alto, nonostante il destino le giocasse dei doppi tiri, barando in continuazione con lei? Queste risposte ancora non le era concesso conoscerle. Se da una parte il fato la riempiva di trionfi, successi personali, viaggi nel mondo e ogni bene voluttuario creato dal buon Dio, dall’altra le toglieva sempre un pezzo della sua anima e della sua salute. Era ancora avvolta nella sua vestaglia rosa di chiffon, mentre appoggiata alla finestra, guardava la neve cadere:ogni fiocco corrispondeva per lei ad una delle comodità e degli agi che stava volutamente per lasciare. Ogni fiocchetto che si depositava in terra, le faceva ritornare in mente un fallimento amoroso, o un premio conquistato a duro prezzo, con una tenacia ed una forza sorprendenti che non le appartenevano ma che inspiegabilmente, aveva dovuto tirar fuori. La decisione oramai era stata presa. Niente e nessuno l’avrebbe fatta desistere dal suo inconcepibile proposito, né tanto meno le avrebbe fatto cambiare idea. “Testarda come un mulo di montagna sei! Come una capra con il latte acido, come un montone rimasto solo per mesi e mesi!”, le diceva sempre l’adorata nonna materna, Nonna Divina. Divina di nome e di fatto per lei, avendola amata come sua madre non aveva saputo fare. Se avesse potuto l’avrebbe uccisa con le sue mani a poco a poco, facendola soffrire come aveva fatto la madre con lei per molti anni, amputandole un pezzetto di carne e di dignità per volta. Sarebbe stato troppo facile spararle un colpo in mezzo alla fronte! Troppo comodo e di nessun dolore per la madre. Una madre che avendo un cattivo ed ammalato rapporto con il sesso maschile, era stata capace di inculcarle solo nozioni fuorvianti ed estreme su di esso. Le aveva fatto credere che ogni marito o uomo in generale fosse un traditore per il solo fatto di possedere un pene tra le gambe, facendole il lavaggio del cervello su tutti gli uomini. La mandava sempre con il padre Biagio, al Bar del paese come guardia del corpo, o al mercato del martedì, con l’ordine ben preciso di riferirle se si appartava con qualche sgualdrina. Non poteva lasciarlo un attimo, nemmeno se le scappava forte la pipì. Come un fedele cane da guardia, doveva rimanere sempre incollata ai suoi pantaloni, che sapevano di scarpe e tabacco. Purtroppo, diverse volte arrivava a casa con le mutandine bagnate, ricevendo non solo due schiaffi da sua madre, ma anche un mare di insulti per come si era comportata. Ogni uomo che fosse veramente uomo per la madre che solo di nome faceva Angelica, era inevitabilmente indotto dalla sua virilità, ad avere un’amante ufficiale con la quale fare tutte quelle cose sporche, che di regola con una brava e devota moglie non si fanno. In più alcuni uomini, con una carica sessuale molto pronunciata, necessitavano anche di altre sciacquette di scorta, oltre naturalmente all’amante ufficiale. Tutto ciò senza implicazioni sentimentali o tanto meno ricompense in denaro. Questo Ninuccia aveva imparato fin da bambina: uomo uguale a traditore, sempre, dovunque e con qualunque femmina, fosse anche un animale a quattro zampe! Ninuccia era a conoscenza che queste pratiche orripilanti si svolgessero in certi sperduti paesini di montagna, dove non c’erano leggi ed umanità, dove l’uomo o la donna erano peggio degli animali stessi, dei quali abusavano per soddisfare impellenti e gravissimi bisogni sessuali. Con occhi tristi e prevenuti, osservava sul suo letto le innumerevoli valigie, i bauli, la ventiquattr’ore che conteneva il portatile, le agende ed i cellulari di ricambio. Guardava e si grattava il capo, pensando a che cosa se sarebbe servito tutto questo inutile armamentario firmato Louis Vuitton. Ninuccia spense di colpo la sigaretta nel posacenere e si fermò spaventata da tutta quella ferraglia.“Ma poi a cosa mi servirà tutta questa robaccia?”.Se voglio veramente ricominciare da zero, non posso portare con me un pezzo della mia attuale vita”. Aprì le valigie con una collera inaudita, le svuotò completamente e le scaraventò tutte in terra, facendo un gran rumore. Il rumore attirò Rosina in camera, che con aria tranquilla le disse”Che cosa ti avevo detto? Ti dovrò prendere la vecchia valigia di cartone, che ho riposto nell’armadio numero sei, quello che tu chiami il reliquiario, ci metteremo dentro solo gli indumenti indispensabili alla tua follia, le medicine e poco altro. Se vuoi compiere questa pazzia fallo pure a questo punto, ma almeno usa l’intelligenza. Sei d’accordo con me?” Aspettando l’ovvia risposta, Rosina si mise pazientemente a raccogliere gli abiti sparsi per terra e cercò di ripiegarli sul letto in attesa dei nuovi ordini di Ninuccia, che ancora pensosa le disse”Hai ragione tu come sempre in queste situazioni. Vai pure a prendermi la valigia marrone di cartone, ed io cercherò di fare mente locale, grazie Rosa”Intanto la tazzina del caffè era vuota e già ne voleva un altro, riflettendo a quando, tra pochi giorni non avrebbe potuto più berne uno così buono e cremoso, proprio come piaceva a lei. Posò delicatamente il piattino di Limoges, con incise le sue iniziali in oro, uno dei doni del suo secondo marito, salutandolo per l’ultima volta. Una smorfia di disappunto le disegnò una ruga sul viso, incredula, leccava l’angolino della bocca dove spuntava la ruga. Avrebbe voluto piangere, anche solo una lacrima le bastava, ma non vi riuscì. Non ricordava più quanti secoli prima era riuscita a versarne una. Cercò di concentrarsi solo sulle incombenze di lavoro, prese l’agenda di pelle scamosciata blu per leggere ed annotare, con cura e precisione, le ultime incombenze da eseguire prima della partenza. Chiamò ancora una volta Rosina, telefonò al Dottor Ambrosetti per accordarsi sull’azienda e sui compiti da assegnare. Mentre era sotto alla cascata d’acqua della sua sala da bagno, si rimirava beandosi di quanto vedeva riflesso nello specchio di Murano, trovandosi ancora molto bella e piacente, nonostante quelle rotondità causate dagli squilibri ormonali.“Non è poi così male avere due taglie in più di reggiseno, non è vero Rosina?” Chiese con fare civettuolo e voce stranamente dolce, alla sua fidatissima governante, l’amica di una vita intera nonché preziosa consigliera, che le allungava l’accappatoio bianco e le ciabattine di raso.“Te l’ho sempre detto che quando eri magra e secca come un chiodo, non eri così appetitosa come ora, ma tu sono ben più di cinquant’anni che non mi credi! Quindi, rinuncio anche ora e ti dico che non sei bella e morbida, anzi sei proprio una brutta befana!” disse Rosina ridendo di gusto, mentre riceveva in viso la spugna intrisa di sapone, che restituiva puntualmente a Ninuccia, iniziando il solito gioco di quando erano piccole. Si buttavano addosso acqua e schiuma sino a che anche Rosina era inzuppata fradicia. A furia di acqua, risate, spugne in viso e urla sembravano ritornare bambine, mentre Ninuccia si stava rilassando. Era talmente grande e salda l’amicizia ed i segreti che le univano, che solo a Rosina spettavano i compiti più importanti che riguardavano la vita vera di Ninuccia. Una Ninuccia segreta intima e molto dolce come solo Rosa Giudici conosceva, alla quale potersi rivolgere con fiducia assoluta. Solo Rosa aveva accesso a Ninni, così come, i loro nomignoli di quando erano bimbe. Ella non permetteva a nessuno di chiamarla così, ma Rosina poteva farlo: sorelle per sempre, per la vita e oltre. Questo si ripetevano nelle serate storte quando, dopo parecchi bicchierini di limoncello preparato da Rosina stessa, ridevano di tutto. Poi, all’improvviso si rabbuiavano, mentre affioravano i ricordi di quando per addormentarsi, si abbracciavano strette strette per il gelo e la paura, con lacrime calde a far loro compagnia. Piangevano sommessamente per non farsi sentire da Angelica,avevano sempre davanti agli occhi quello che era successo prima a Rosina, poi a Ninuccia. Il segreto terribile che condividevano, complice l’alcool che ambedue non reggevano molto, ritornava puntualmente a galla. “Lo so” disse Ninuccia, “Sono la solita rompiscatole, ma ti voglio bene e non ti cambierei con nessuna al mondo!” In quel momento Rosina le chiese se si era ricordata in mezzo a tutto quel caos, di stilare l’elenco completo dei gioielli, delle pellicce, dell’argenteria, delle proprietà immobiliari, delle auto, dei cavalli e quant’altro avesse accumulato. Soprattutto di specificare a quale delle due gemelle erano destinati uno per uno, non riuscendo a sapere con esattezza quale disdicevole quantità ne aveva accumulato negli anni! Questo nel caso di esito negativo del suo viaggio, se per qualche strano motivo non avesse più voluto ritornare a Bologna. “Perché strepiti così tanto?” Chiese Ninuccia, mentre aveva terminato di vestirsi e, con grandissimo stupore constatava di poter ancora entrare nei jeans di mezzo secolo prima, i famosi Roy Rogers, riuscendo anche ad indossare la sua maglietta preferita a manica lunga, comprata con i primi risparmi. “Strepito perché se per caso mi sono sbagliata e ho distribuito male le tue porcherie, le tue adorate figliole mi sbranano! Quelle sono veramente figlie del diavolo non tue, amano solo le cose materiali! Quelle due non sanno nemmeno da dove si comincia a guadagnarsi un pezzo di pane al latte, noi invece.., vero Ninuccia?”.“Hai ragione come sempre, sono veramente due ingrate pretenziose e non vedono l’ora di ereditare tutto quanto, anche se Pietro aveva già destinato loro una parte considerevole del patrimonio. Una parte enorme, per i miei gusti! Pover’uomo! Non essendo mai divenuto padre, le amava come fossero veramente figlie sue, ed ha fatto l’impossibile per loro! Meno male che gli hanno voluto bene per davvero e lo hanno sempre rispettato, se lo è meritato ampiamente, al di là delle sue ricchezze. Se solo sapessero che dovranno dividere con un’altra persona tutto questo immenso impero, forse se ne starebbero un po’ più buone. Ma penso ce ne sia più che a sufficienza, per tutti e tre i miei figli!” “Smettila Ninuccia!” disse Rosina, mentre si faceva seria, “Lo sai benissimo che è morto, non c’è più, piantala di rimuginarci sopra, è andata così e indietro non si può tornare”. Ninuccia divenne di colpo paonazza in viso e urlò”Non è vero, non è morto! Io so che è ancora vivo e lo troverò, dovessi morirci in quel paese”. Così dicendo, era tale la rabbia e la convinzione che mise nel pronunciare la sua sentenza, che si strappò senza accorgersene una manica della maglietta, rimasta intatta per tutti quegli anni. Questi indumenti erano stati conservati con cura e canfora da Rosina che prontamente, prese ago e filo dal cestino del cucito ed iniziò un rammendo ad arte, anche se fatto in gran velocità. Poi estrasse da un vecchio armadio che si trovava nella soffitta, un Loden verde un poco sbiadito, che però faceva ancora il suo uso. Le prese anche quattro gonne di tessuto scozzese a ruota, i pantaloni a zampa d’elefante e le camicette di cotone un po’ sgualcite, ma che tutto sommato si erano conservate bene. “Ma i maglioni di cachemire? Almeno un paio li metto nella valigia di cartone? Chissà che freddo sentirai laggiù e se come penso non troverai i termosifoni, per le tue emicranie saranno guai!”. “Ma non se ne parla nemmeno di cachemire, stai scherzando vero? Non vorrai che mi riconoscano, ci sono i televisori e le radio, ed il mio viso potrebbero riconoscerlo.



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