Magazine Diario personale

Ninuccia e le scarpe degli Angeli: V Cap.(Parte il treno).

Da Gattolona1964

Parte il treno:(Quinto capitolo)

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Erano le diciotto e trenta, quando Ninuccia vestita come una ragazza ma con i capelli cortissimi e bianchi mise i piedi nel taxi.“Dove andiamo bella signora?”Chiese il tassista con occhio distratto e la sigaretta  penzoloni tra le labbra spenta”.“Andiamo alla Stazione Centrale, in fretta per favore!” “Ochei” rispose il tassista, “Se vuole fumi pure mi farà compagnia. Poi scrutandola dallo specchietto retrovisore, le chiese a bruciapelo:” Scusi la domanda, ma lei non è la dot..“No!” rispose secca, “Non lo dica nemmeno per scherzo, io non sono quella là” E aspirò ad occhi chiusi la sua prima boccata di fumo da donna nuova e libera. Fuori il termometro segnava ancora meno sei, si strinse nel loden verde e mise le gambe sopra la valigia, guardando fuori dal finestrino semi aperto. Si era ripromessa che non lo avrebbe fatto, che non avrebbe guardato fuori dal finestrino, ma non mantenne fede alla promessa. Guardò per l’ultima volta il suo Palazzo, le case, i vialetti, le piante gelate, i bambini, i percorsi che aveva fatto per decenni e che conosceva a memoria. Via via che il taxi procedeva divenivano sempre più piccini, alla fine erano ridotti a dei puntini adimensionali. Sapeva con precisione assoluta, dove si trovava ogni cartello stradale, ogni buca, ogni tombino, avendo percorso migliaia di volte Bologna a piedi per mantenere la linea e per scacciare la depressione. Mentre la sigaretta stava terminando, si accorse che il tassista guardava in continuazione dallo specchietto retrovisore con aria di curiosità e le richiese con fare più deciso:”Ma scusi è proprio lei: lei è la dottoressa Ercolani, sarò anche un tassista e basta, ma non sono rimbecillito, lei è lei!” “Senta, se non la smette, io scendo e vado a piedi, tanto manca poco alla stazione, non è vero?”.

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Ad occhio e croce, se la strada non è troppo ghiacciata e se lei avesse messo le gomme termiche, in otto minuti e mezzo ce la faremmo ad arrivare in stazione, tutto sommato farei prima io a piedi, non fosse per questa pesante valigia.!” “Le gomme termiche ce le ho, sono un tantino logorate questo è vero, ma non la farò scivolare sul ghiaccio, stia serena! Il suo bel sedere ridanciano non ne risentirà, lo potrà usare ancora. E comunque ora che ci penso bene lei non è lei, non può essere, i suoi modi di fare non sono gentili ed eleganti come quelli della Dottoressa Ercolani, ci assomiglia come viso, ma per il resto.. ehm, non sarà mai come lei. Le rare volte che è salita su un taxi, mi dicono i miei colleghi che è sempre elegantissima e perfetta in ogni gesto che compie, fosse anche fare uno starnuto. A prescindere dall’abbigliamento, che non è come quello che indossa lei ora, fuori moda e con la puzza di canfora, cioè sembra una figlia di ….. cioè una figlia dei fiori, anche se un po’ attempata! Nemmeno se campasse cento anni potrebbe essere lei!”E così dicendo sputò fuori dal finestrino, in segno di disprezzo per quella donna arrogante e maleducata. “Finalmente hai capito, disse passando al tu, “Non sono lei e non voglio esserlo, parola mia, io sono Dora.” “Dora e poi?” le chiese l’uomo con occhio sospettoso e il sopracciglio rialzato a dismisura. “Dora e basta” rispose Ninuccia, scocciata ma oramai tranquilla per non essere stata riconosciuta. Si accese un’ultima sigaretta, felice che quel piccolo viaggio stesse per terminare, si rimise il loden, annodando bene sciarpa e colbacco di visone, logoro quel tanto che bastava per sembrare di lapin ma ancora funzionale. Era pronta per scendere da quell’auto e dal quell’uomo curioso e puzzolente. Finalmente intravide la grande vetrata della Stazione Centrale di Bologna, fortunatamente il tassista accostò proprio davanti alla porta principale, dato che un poco per l’orario, ed un poco per il freddo, non c’erano molte auto in coda. Guardando il tassametro sputo’ di nuovo fuori dal finestrino e Ninuccia mentre aprì la portiera chiese con fare appositamente scontroso”Quanto ti devo per questo viaggio penoso? La prossima volta che fai salire una signora, ti consiglio di lavarti, altrimenti sul tuo taxi, a Bologna non sale più nessuno”. L’uomo per poco non imprecò, ma strinse forte le nocche e rispose”Sono cento euro, sarebbero stati cinquanta, ma data la tua maleducazione ne voglio cento, altrimenti ti investo e con il cavolo che prendi il tuo treno!” Ninuccia mise in tasca dei jeans una mano ed estrasse due biglietti da cento, glieli buttò nell’auto dicendo “Tieni il resto e vaffanculo!”

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Voleva essere sicura che non gli rimanesse nemmeno un piccolo dubbio sulla sua identità. Ma lei non era più lei da questo momento, ora diventava Dora: Dora e basta. Lui le urlò di fermarsi per prendere il resto, ma era già scomparsa con la sua valigia nella sala d’attesa della stazione. Fece appena in tempo ad andare allo sportello, per prendere il biglietto del treno dalle mani di un’impiegata distratta che ripeteva come un giradischi rotto, la solita frase di rito. Naturalmente voleva viaggiare in seconda classe, che aveva prenotato al telefono. “E’ in partenza tra cinque minuti, sul binario numero otto, poi lo dovrà cambiare a Roma, poi lo dovrà cambiare a.. si sbrighi!” le disse l’impiegata, “o lo perderà”. “Non lo perderò, stia tranquilla,” rispose, mentre un altro biglietto da cento euro scivolò al di sotto della feritoia di vetro, dove la donna di stucco le urlò “Ma questi sono troppi, prenda il resto Signora”. Mentre Dora correva, la voce rimbombò nell’atrio, “Lo tenga lei, ora non perderò il treno, ho già perso troppe cose e persone nella mia vita”. Il capostazione fischiò, il capotreno rifischiò alzando la paletta, le porte si chiusero e Dora salì al volo, perdendo una Clark mentre si avvinghiava alla scaletta. Rimase impigliata tra le porte e si sentì tirare dentro da una mano possente per non ricadere all’indietro. Non fece in tempo a girarsi, per ringraziare la persona che l’aveva aiutata a salire, che questa era già sparita dentro ad uno scompartimento, confondendosi tra le nuvole di fumo degli stretti corridoi.
Si appoggiò per un istante alla parete per riprendere fiato, si tolse il colbacco, il cappotto, la sciarpa ed i guanti, ma si accorse che aveva un piede senza una scarpa. “Accidenti, come faccio ora, con questo freddo, ma dove è andata? Ora guardo nella valigia se ne ho un altro paio di scorta: accipicchia! Cominciamo bene! Almeno per le scarpe, problemi non ne dovrei avere. Cercando di non dare troppo nell’occhio, visto che zoppicava per la mancanza della scarpa, cercò il suo scompartimento, con il posto prenotato. Dovette percorrere quasi tutto il treno in lunghezza per trovarlo, notando l’ alto numero di persone che si servivano di questo mezzo di trasporto. Per un attimo pensò alla comodità delle sue auto, ai suoi amici autisti con i quali, durante i lunghi tragitti per lavoro si faceva delle interminabili e grasse risate. Anche se era un mezzo di trasporto lussuoso e veloce questo Eurostar non era una delle sue Ferrari o Lamborghini o l’ultima Porsche, avuta in regalo dal marito. E non era nemmeno la sua prima auto da lei acquistata:un’Alfa Romeo Spider duetto, modello coda tronca, della quale andava particolarmente fiera, avendola pagata con i proventi della vendita del suo primo libro pubblicato. Se con Rosina, decidevano di trascorrere un week end al mare, da sole senza uomini, senza telefoni o computer attorno, usavano la Spider! Solo Aristide Paolini, veniva invitato a quei goliardici week end al mare per ridere di niente ed abbronzarsi tranquilli! Ari, così come lo chiamavano in privato, era il fidatissimo maggiordomo del defunto Cavalier Sangalli, responsabile di tutto il Palazzo e del Castello di South Staffordshire, che Ninuccia aveva comperato anni prima. Era l’unica figura maschile della quale sia lei sia Rosina si fidavano ciecamente, senza riserva mentale alcuna. D’altro canto Aristide da sempre innamorato di Rosina, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, compreso amare Ninuccia e le sue ossessioni. Aristide le diceva scherzosamente, che quei sassi d’epoca, avrebbero avuto bisogno di una massiccia ristrutturazione non solo storica, ma anche umana.
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Per Ari, era stato il compito più delicato che aveva dovuto portare a termine per Ninuccia, da quando era al suo servizio. Tutte le beghe burocratiche ed i ritardi per ottenere il consenso alla ristrutturazione da parte della sovrintendenza ai Beni Culturali, la lingua inglese che Aristide mal digeriva, le regole ferree ben diverse da quelle italiane, avevano portato Paolini ad una stanchezza fisica e mentale non indifferente. Motivo per cui, Ninuccia e Rosina lo invitavano sovente a distrarsi con loro al mare. Al termine dei lavori, eseguiti egregiamente anche se esausto, Paolini era fiero ed orgoglioso di ciò che era riuscito ad ottenere. Dopo diversi anni di duro lavoro e di voli da Bologna all’Inghilterra, ora il Castello “Ben’ s Family”splendeva anche di luce emiliana. Ogni arredo era stato restaurato e rimesso al suo posto, con qualche importante pezzo di eleganza ruspante Bolognese. Come le grandi madie per fare il pane, sistemate nelle enormi cucine del Castello,i Rolini trovati per mercatini nelle zone reggiane da Rosina e Ninuccia, durante le loro incursioni per svuotare il mercato e comperare di tutto. Dopo questi flash, la mente di Ninuccia, si destava e tornava alla nuda e cruda realtà. Continuava mentalmente a darsi della stupida, riflettendo che aveva uno scopo ben preciso:non era su quel treno per una gita premio, lo sapeva bene, quindi niente rimpianti di nessun genere, tanto meno di tipo lussuoso. Finalmente dopo aver percorso qualche decina di metri, stremata e assonnata trovò il suo scompartimento ed il suo seggiolino che l’attendeva: si trovava quasi nella coda del treno. Nello stesso scompartimento, vi era seduto solo un uomo sulla cinquantina, che con occhi abbassati fissava il linoleum del pavimento, lei gli chiese con fare stanco ma gentile”Non vorrei importunarla signore, ma devo sedermi al posto che mi hanno assegnato.” Lui scocciato per essere stato disturbato, rispose con un filo di cortesia, ma solo un filo “Se proprio deve si segga, ma se ne stia zitta e non mi arrechi disturbo in nessun modo.” Pensando che era sicuramente la giornata del maleducato, sfinita per tutti gli avvenimenti, non appena si sedette, mise la valigia nel bauletto porta oggetti, raggomitolò il loden e la sciarpa come un cuscino, appoggiandoli sotto alla testa e cercò subito il sonno. Fece appena in tempo a dare un’ occhiata a quell’uomo dall’aria distinta, ma vestito in modo trasandato, con la barba incolta, i capelli arruffati e sporchi, un profumo non proprio di pulito: sembrava una via di mezzo tra un poveraccio ed un nobile. Lei penso che questa contrapposizione era certamente inconsueta. Prima di chiudere gli occhi, fece in tempo a pronunciare qualche parola, anche se con la mente iniziava già a sognare. “Le chiedo se mi sveglia per favore, quando siamo a Napoli, cioè tra circa quattro ore, se il treno farà il suo dovere, non le chiederò null’altro.” “Se proprio devo, lo farò, visto che scendo anch’io” e riprese a fissare il linoleum con aria inebetita. Dora finalmente si addormentò. Ninuccia era morta per ora, Dora era viva, Beniamino pure e con questi pensieri iniziò a sognare. “Presto fai bollire tutte le pezze di cotone bianche che trovi Rosina, prendi gli stracci per pulire in terra e sul tavolo, sbrigati! Prepara la suglia, le corde e il filo dell’otto, fallo bollire prima mi raccomando, non vorrei che mi morisse di setticemia. Ninuccia urlava nel letto, urlava e sudava, sembrava stesse per morire, povera bambina! “Resisti Ninni, ci sono qua io con te non ti lascio! Vedrai supereremo anche questa follia, ti aiuto io, spero solo tu possa perdonarmi un giorno.”“Non lo uccidere, mamma, nessuno lo verrà mai a sapere, lo daremo in adozione, ma lascialo vivere.” Mentre le doglie erano sempre più forti e Angelica le allargava le gambe, toccandola e palpandola senza delicatezza e senza umanità né tanto meno competenze ginecologiche, controllava di quanto si era dilatata, come si fa con una scrofa che sta per partorire. Ella non aveva nessun rispetto e amore, per quella figlia così sfortunata. “Era molto meglio se ti facevo abortire, ora non avrei tutto questo fastidio e non dovrei tenere un omicidio sulla coscienza e nel mio cuore. Ma come al solito è tutta tua la colpa, sei tu che provochi sempre gli uomini. Con quei seni così prepotenti e quelle labbra da donnaccia! Che cosa credevi, che quel maiale di mastro Raffaele, rimanesse insensibile alla tua procacità? Te l’ho spiegato mille volte che gli uomini sono tutti dei porci, dovevi vestirti di più e coprirti anche il viso, quando andavi alla Fabbrica, dovevi mettere una delle mie velette nere da Messa!” Angelica compiva ogni gesto come fosse in trance, parlava da sola e si muoveva come un automa. Ninuccia, legata sul tavolo operatorio di cucina, si dimenava come un animale e voltava gli occhi verso Rosina, supplicandola di non permettere che sua madre le uccidesse il bambino. “Fa che non lo uccida, Rosina, aiutami, prendilo tu mentre l’ultima spinta fu così forte, che si vide la testina bionda sbucare e Angelica facendosi il segno della Croce, disse”Ecco il diavolo che esce” e girandolo su se stesso come si fa per dare un giro di vite, lo strappò per sempre dal grembo di Ninuccia, provocandole una lacerazione talmente profonda che un lago di sangue rosso vivo uscì dalla vagina di Ninuccia. La bambina urlava talmente forte, che i vicini, preoccupati da tali strazianti urla e gemiti, bussarono alla porta per chiedere che cosa stava succedendo. Angelica, legandola ancora più stretta e mettendole in bocca un tappo usato nelle damigiane dell’olio per impedirle di parlare, rispose loro con voce acida “Non è nulla! Stiamo cercando di estrarre due denti marci a Ninuccia, poverina! Le hanno provocato degli ascessi e se non interveniamo subito morirà di febbri alte. Non vi preoccupate e tornatevene a casa, qua non serve nulla oramai, abbiamo quasi finito. Anzi, se proprio volete rendervi utili, portatemi del ghiaccio e molto per favore, così lo metteremo sulle gengive. Ve ne ringrazio fin d’ora ed in cambio vi regalerò una gallina da brodo.” Poi prese il braccio il nipote e sparì nell’altra stanza, con il piccolino che sbraitava come un indemoniato emettendo vagiti non umani. Sicuramente quelli non erano i primi vagiti di un bambino, erano urla premonitrici di morte. Egli era sporco di sangue, di catarro e di ogni nutrimento che Ninuccia era riuscita a dargli, “E’ anche bene in carne”, pensò Angelica “Con quelle sue guanciotte tonde e rosee anche se non pulite, sembrava un Cherubino. “Sarebbero due buone braccia per la Fabbrica, questo essere peserà almeno quattro chili e mezzo!” Disse con rabbia cieca la donna, che in quel momento donna e madre più non era, ma un’ invasata che stava per compiere un omicidio sull’infante. Il coltello luccicava sul letto, sembrava una spada ed era pronto per il delitto, la lama era bene appuntita, non ci sarebbe voluto molto, per una creatura così piccola, un colpo ben sferrato come Angelica faceva con i tacchini e via, niente più umiliazione e vergogne, niente più timore di avere una figlia rovinata per sempre. L’unica figlia, femmina peraltro, perciò fonte di disastri e guai per tutta la vita. La cassettina per le mele con il canovaccio a quadretti bianchi e rossi, era a lato del letto, pronta anch’essa e sarebbe stata la sua piccola bara. Dall’altra stanza le urla di Ninuccia e di Rosina oramai erano mescolate insieme, dato che Rosina le aveva tolto il tappo dalla bocca, almeno poteva sfogarsi ed il sangue oramai era ovunque: sui muri, sul tappeto, sulla porta, persino sul viso di Rosina. Ovunque vi erano le tracce del massacro. Ninuccia oramai, se qualcuno non fosse intervenuto ad aiutarla, rischiava di morire dissanguata, povera creatura di Dio! Ad un certo punto, si senti bussare alla porta, era Martino che portava la cesta del ghiaccio, Rosina la prese in un attimo chiudendosi velocemente la porta alle spalle, lo mise sulla natura sanguinante di Ninuccia, cercando di alleviarle il dolore e di rallentare un poco il flusso, che non accennava a diminuire la sua portata. Vedendo che il sangue invece di diminuire aumentava, decise di buttare nella sua vagina tutto in una volta, il ghiaccio della cesta. Piano piano, adagio adagio, il flusso del lago rosso, diminuiva d’intensità ed anche il dolore sembrava leggermente attenuato. Ninuccia, sfinita e madida di sudore dalla testa ai piedi, i lunghi capelli attaccati alla schiena ed al viso era trasfigurata, aveva perso in un attimo i suoi meravigliosi connotati e anche Rosina si spaventò nel vederla così. In quel momento non era più una bambina di quattordici anni, che avrebbe dovuto giocare, ma una donna adulta, privata in un attimo del suo amore più grande: il suo bambino.
Chiese a Rosina un bicchiere d’acqua e la pregò di metterci dentro un cubetto di ghiaccio, semmai ne fosse rimasto un poco. Mentre nonna Angelica continuava a soppesare il bambino, due occhi neri la fissavano seri dal finestrino della camera che per la concitazione e la fretta, aveva dimenticato aperto. La voce e la sagoma alta e nera le urlò: “Ma che fate Donna Angelica? Vi ordino di mettere giù il coltello in nome di Dio, ve lo ordino!” A questa voce familiare Angelica si scosse ed un tremito la pervase tutta, lasciò cadere a terra il coltellaccio e disse” Sì, ora lo posso mettere giù il coltello, non temete. Quel che dovevo fare l’ho già fatto, ora entrate pure Don Gaudenzio, è nato mio nipote, il figlio di Ninuccia, dovrei essere molto felice ma così non è. Porgendogli con dolcezza e un filo d’umanità il bambino ancora sporco di sangue e coperto con uno straccio per lavare il pavimento, disse “Prendetelo voi ora e dategli un’ultima benedizione. Noi non sapremmo cosa farne, è vostro: seppellitelo, bruciatelo o fatene ciò che è meglio per lui e per Ninuccia. Io, questa carne non la voglio in casa mia.”
Don Gaudenzio, con le lacrime agli occhi guardava il bambino incredulo, lo prese in braccio, prima che l’altra cambiasse idea e lo guardò con occhi benevoli. Lo benedì subito, facendogli il segno della Croce sulla fronte e se lo strinse forte al petto, per proteggerlo nonostante il bambino fosse morto. Don Gaudenzio anch’egli padre, divenne d’improvviso tenero ed affettuoso come solo un papà saprebbe fare, lo avvolse in una copertina scura per far sì che non si vedesse il sangue ed uscì da quella casa del demonio, con l’angelo biondo in braccio. Se ne andò dal retro, da una porticina di servizio e per fortuna, non era stato visto da nessuno. Prima di uscire sussurrò nell’orecchio di Angelica”Non crediate che sia finita qua, appena avrò sistemato il corpo del bambino, mi occuperò anche di voi! Mi dovrete dire tutto per filo e per segno, dovrete spiegarmi perché avette commesso questo orribile gesto e se non mi fornirete una risposta esauriente, in quel momento sarà la Madonna a dovermi fermare, perché io non mi fermerò”. Martino Ponzi e gli altri vicini di casa, erano sulla porta della casa di Ninuccia, con altro ghiaccio ma nessuno riuscì a vedere o a comprendere che cosa stava succedendo tra quelle mura. Anche se le urla ed i rumori che provenivano quel mattino da via dei Tigli numero otto, erano tali, che i paesani non li avrebbero dimenticati facilmente. La faccenda dei denti marci, non aveva convinto Martino che continuava a portare altro ghiaccio. Si chiedeva come mai Ninuccia la sua migliore amica, non gli aveva parlato di quei denti che le procuravano un dolore insopportabile, visto che da buoni amici si confidavano sempre tutto. La versione raccontata da Angelica non lo convinceva molto, e decise che avrebbe indagato. Ora però non c’era tempo, ora doveva aiutare Ninuccia. Nel divanetto del treno, Dora si girava e si rigirava all’impazzata. Iniziò anche a singhiozzare nel sonno, disturbando l’uomo che era di fronte a lei. Non trovava pace, i fantasmi del passato venivano ancora a farle visita. Sudava come una fontana, l’uomo per pietà le asciugò la fronte con un fazzoletto di lino ricamato. Sopra vi erano le sue iniziali: GMA. Ninuccia riprese il respiro regolare e calmo di chi dormiva all’apparenza beato, aveva solo qualche leggero tremito e piccole scosse che la facevano sobbalzare, ma l’uomo notava che si stava calmando e le scendevano lacrime dagli occhi. Egli pensò “Ma guarda, esiste ancora una persona che sa piangere, beata lei! Deve essere fortunata se ce la fa, anche se dormendo così profondamente non se ne può rendere conto.
In quel momento la squadrò da capo a piedi e si rese conto, che non doveva essere una barbona, come aveva pensato poc’anzi, ma una donna per bene, anche se l’abbigliamento e il bianco dei capelli cortissimi, potevano far pensare a tutt’altro. “Forse è scappata da una casa di cura, i capelli cortissimi glieli devono aver tagliati in clinica”. pensò grattandosi la barba ispida. Poi però concluse che non erano affari suoi e riprese a fissare il pavimento. Rosina accarezzava la fronte di Ninni che si stava calmando e beveva acqua di continuo, le aveva tolto i lacci alle braccia ed il tappo sulla bocca e le disse”Appena torna di qua la uccido io, con una padellata in testa, che ne dici Ninni?”. “Non ci riusciresti mai da sola, io in queste condizioni non ho nemmeno più il fiato per respirare e tu sei troppo piccolina per avere la forza che ha lei. Lascia perdere, preghiamo che finisca tutto in fretta, altro che padelle! Qua ci vorrebbe un miracolo, dimmi piuttosto dov’è Beniamino? Dove lo ha portato?Sei riuscita a strapparglielo di mano e a darlo a Martino, o a Dinetta, o a qualcun’ altro? Dimmi che lo hai salvato Rosina, ti supplico! Il viso di Rosina si fece serio e si mise una mano sulla bocca, mentre si inginocchiò di fronte a Ninuccia; tra mille singhiozzi le disse”Non ce l’ho fatta, aveva già preparato il coltello e poi l’ha messo nella cassettina.. e poi.. qualcuno che non ho fatto in tempo a vedere, l’ha portato via.
Non c’è più nulla da fare, Beniamino è morto: non c’ è più Ninni, dobbiamo rassegnarci, occorre farsene una ragione, dobbiamo dimenticare tutto e scappare via da qui al più presto”. A queste parole pronunciate come una sentenza irrevocabile, la vista di Ninuccia iniziò a sdoppiarsi, i contorni le apparivano deformi mentre una nube grigia e nera si impadronì della sua mente. Complice anche l’emorragia che aveva avuto poc’anzi, tutto girava vorticosamente e cadde all’indietro, perdendo i sensi. In quell’attimo si aprì la porta, ed entrò Angelica con un viso diverso, ma con in mano ago e filo pronta per ridare dignità alla figlia disonorata. “Aiutami Rosina a ricucirla, svelta! Mentre è svenuta non sentirà male, sbrigati o uccido anche te.” Mentre lo diceva però, le parole si incespicavano nella bocca di Angelica che perdeva saliva da un angolo, ma all’occhio attento di Rosina non sfuggì questo particolare. Angelica iniziò così a cucire la fessura tra le gambe di sua figlia, che ora era più lunga e profonda, anche per l’ episiotomia praticata in modo brutale, per far uscire il bambino molto grosso. Voleva ridare la verginità alla figlia, ma Rosina non riuscì a resistere a questa ennesima scena cruenta e perdette i sensi, sbattendo la testa su una sedia. “Queste due bambine non dovevano subire e portare nei loro cuori e nelle loro menti una disgrazia del genere: è tutta colpa mia e sarò punita per il resto dei miei giorni, lo so con precisione. Ma che cosa ho fatto? Come ho potuto uccidere il bambino? Come ho potuto violentare così mia figlia e farle tutto questo male? Lei non lo meritava e non se l’è cercato, non ha colpa di nulla se quel disgraziato di mastro Raffaele ha abusato di lei, come fece con me quando avevo diciotto anni. Era lui da eliminare dalla faccia della terra, non mio nipote, quell’angioletto biondo che ho massacrato: Dio non mi perdonerà mai: come potrebbe? Non c’è scusa e non c’è penitenza adeguata per ciò che ho commesso. Signore, ti supplico fammi morire adesso, non indugiare oltre, dammi la punizione che merito!” Angelica farneticava, pronunciava le parole in modo sconnesso mentre la saliva continuava a scendere dai lati della bocca. La sua mente ottenebrata e confusa continuava a ripeterle che aveva ucciso suo nipote. Terminò di ricucire Ninuccia come faceva in fabbrica con le scarpe, tagliava e cuciva, poi faceva i nodi fini fini, doveva sembrare ancora illibata e vergine quando un eventuale futuro marito, l’avesse chiesta in sposa. Angelica si accorse che nel proferire le ultime parole, faticava a scandire le sillabe perché d’improvviso, la sua bocca scappò da un lato del viso e non c’era verso di riportarla al proprio posto. Corse a prendere uno specchio rotto in camera da letto, vide che la sua bocca era storta, la mandibola bloccata e lo zigomo alzato a dismisura le arrivava a sfiorare quasi l’occhio. Il suo viso ora, sembrava una maschera diabolica, ed era serrato in un ghigno orribile. Anche il suo braccio sinistro era immobile, se ne accorse perché le caddero di mano all’improvviso le forbici. Cercò di aprire la porta di casa per chiamare aiuto, ma non vi riuscì. Nel frattempo Ninuccia e Rosina si stavano riprendendo dallo svenimento e con estrema fatica, cercavano di aprire gli occhi.



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