Noah: il polpettone biblico che non ti aspetti (specie da Aronosfky)

Creato il 09 aprile 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

9 aprile 2014 • Recensioni Film, Vetrina Cinema

Abbiamo l’occasione di vedere Noah in anteprima al Bari International Film Fest. Attenzione: il seguente articolo non contiene spoiler, perché conoscete tutti la storia più antica del mondo (Noè-arca-diluvio universale), ma contiene forte dose di delusione da parte di fan sfegatata di Darren Aronofsky. Se anche tu che leggi fai parte della categoria, prosegui con cautela. E ricorda: ci sono bei film targati Aronofsky. Non vuoi proprio rivedere il memorabile Il cigno nero? Il cupo e disturbante Requiem for a dream? Il dolente The Wrestler? Neanche l’immaginifico L’Albero della vita? E va bene, l’hai voluto tu: preparati a una delusione biblica.

Noah, Noè, capitolo zero. In principio fu la creazione. Poi Adamo ed Eva, Caino e Abele, i giganti di pietra - un momento, i giganti? Se ha un merito l’ultimo film di Darren Aronosfky è quello di costringerti a risfogliare l’opera d’arte più diffusa al mondo, il bestseller millenario mondiale: la Bibbia. E lì i giganti, i Grigoni per la precisione, in effetti sono citati. Ma la fedeltà filologico-storiografica non ci interessa: torniamo a Noè. Lo incontriamo nel film la prima volta con un primo piano poco azzeccato sul faccione del buon Russell Crowe. Il quale firma – diciamolo subito – una discreta interpretazione. Nulla di straordinario, ripete performance già viste (il cruccio e la ferocità che aveva ne I miserabili, la determinazione e la lotta di Il gladiatore), ma fa il suo. E ci sta. Meno Jennifer Connelly, più espressiva che mai in Requiem for a Dream, e qui  relegata ad un ruolo piatto e banale, la moglie dell’eroe che ne subisce il volere. Solo in una scena – l’unica dove la mano registica di Aronofsky è davvero riconoscibile – dà sfogo alla sua visceralità. E’ lo scontro, breve ma intenso, moglie e marito, in cui lei lo maledice e, piangendo, gli sibila il suo anatema (“Resterai solo e odiato da tutti”) con voce strozzata.

Il Noè raccontato da Aronofsky è, in sostanza, un soldato di Dio pronto a uccidere (letteralmente, anche se si preoccupa di salvare orde di animali “innocenti”), uomo granitico, padre autoritario, religioso fanatico, duro a muovere a compassione. I suoi figli sono interpretati da tre volti noti da blockbuster: Logan Lerman (Piercy Jackson), Emma Stone (vedi alla voce Harry Potter) e Douglas Booth (il fusto che faceva perdere la testa a Miley Cyrus in LOL). In tre non fanno un figlio credibile, presi come sono ognuno dal proprio caso umano – la colpa è di nuovo di una sceneggiatura priva di spunti d’interesse e di approfondimento-. Non risolleva le sorti Anthony Hopkins, mesta versione di un Gandalf malandato e bacche-dipendente.

E arriviamo al punto. Sono anni che Aronosfky rifiuta o salta grosse produzioni hollywoodiane. Per le mani gli sono passati progetti su progetti, da Man of Steel a Robocop, l’appuntamento con il banco di prova blockbuster doveva arrivare prima o poi. E Noah è un polpettone commerciale a tutti gli effetti: ha il cast fatto apposta per attirare gente in sala, propone una storia epica e strappalacrime (e semplice semplice) ed è visivamente potente, con panorami immaginifici alla Signore degli Anelli (ma, appunto, c’è già stata la trilogia fantasy, con relative imitazioni) e inserti di contaminazione grafica alla Danny Boyle (la suggestiva metamorfosi continua di animale in animale, il corso d’acqua che attraversa il mondo etc). Bene, ma il punto è che Aronofsky proprio non è un regista commerciale. E quando i registi non sono portati per questo tipo di prodotto, il risultato o è un capolavoro (vedi Nolan, da Memento a The Dark Knight), perchè vi inseriscono dentro tutto il loro stile e la loro anima, oppure un ibrido da evitare (The Green Hornet di Michel Gondry).

Noah, purtroppo, si avvicina più all’ultimo caso: la mano di Aronofsky si percepisce pochissimo, rispetto al resto della sua cinematografia qui la messa in scena è anonima e poco originale, la narrazione troppo semplicistica e lineare, i personaggi monodimensionali e stereotipati. Non c’è pathos, non c’è sperimentazione, e neanche quella ricerca squisitamente estetica, visiva, visionaria che pure aveva mostrato per The Fountain. Quello sì, un film a suo modo epico, rivoluzionario, in grado di proporre nuovi mondi e visioni sorprendenti.

Di Claudia Catalli per Oggialcinema.net

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