Noah: pro e contro

Creato il 12 aprile 2014 da Veripaccheri
Noah
di Darren Aronofsky
con Russell Crowe, Jennifer Connelly, Emma Watson, Logan Lerman, Douglas Booth
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 138'


Ci sono luoghi che sarebbe meglio evitare e stati d’animo estranei ad ogni tipo di certezza. Territori oscuri e poco illuminati da cui il cinema di Darren Arofosky è inevitabilmente attratto, ed ai quali finisce per ritornare con la nevrosi delle ossessioni rimaste insoddisfatte.
Non è un caso che dopo un prologo piuttosto dilatato e solo in parte giustificato dalla necessità di introdurre la storia secondo i dettami del cinema mainstream, visibile soprattutto nella ricerca della grandeur scenica e paesaggistica (dolly e carrellate abbondano in questo caso) "Noah"cambi passò proprio quando decide di abbandonare lo spazio esterno rifugiandosi nella stiva dell'arca che sta portando in salvo il protagonista e i suo equipaggio. Coinvolto in un’operazione a grosso budget e preparato a cimentarsi con le forme di un cinema apparentemente lontano dalle sue corde, Darren Aronofsky imita il collega Steve McQueen lavorando sul format di genere con un'autorialita'' riconoscibile non tanto nella qualità delle immagini, convenzionali quel tanto che basta per assicurare la riconoscibilità del prodotto, quanto nella struttura drammaturgica imperniata come sempre accade nei film di Aronofsky su una coazione a ripetere che diventa follia. In questo caso l'esasperazione esistenziale scaturisce dal rigore di "Noah" intenzionato a servire il suo Dio anche a costo di sacrificare le persone che ama. Una dissoluzione famigliare a cui eravamo abituati (da The Fountain a The Wrestler) e qui assunta con toni da teatro shakespeariano quando il protagonista decide di disfarsi della sua progenie, contaminata a suo dire dalla stoltezza del mondo. Una frantumazione dell'io che Arnofosky costruisce in modo endogeno, meno evidente di precedenti come "P greco- Il teorema del delirio" e "Il cigno nero", ma assolutamente efficace nel ripercorrere il paradigma di un'agiografia dolorosa e cupa. Come Giona che visse nella balena così Noah nel ventre dell'Arca combatte i suoi demoni proiettandoli in un ambiente che diventa proiezione dell'anima, ed in cui ogni figura è il puzzle, positivo o negativo di questa battaglia interiore. Cosi a rimanere non sono tanto i rimandi alla contemporaneità, trasposta nell'istinto di morte dell'essere umano, e nel dettame ecologista presente nella versione salvifica di Aronofsky che spinge soprattutto verso la salvaguardia dell'eco sistema più che dei discendenti che hanno contiribuito a distruggerlo, ma piuttosto la rappresentazione di un'eresia moderna, che diventa tanto più grande quanto maestosa e potente è l'integrità di Noah, alla pari dei profeti nostrani, acceccato dall'assoluto delle verità che professa.
Pur concedendo qualcosa alla convezionalità del prodotto, come accade nella progressione che porterà al quadretto finale contrassegnato da un happy end incorniciato da una messainscena patinata e tronfia (su tutti la messa in piega di Russel Crowe, ritornato improvvisamente capelluto dopo lo scalpo da marine sfoggiato per buona parte della storia), "Noah" fa segnare un passo in avanti in termini di consapevolezza registica, testimoniata dalla sicurezza con cui il regista spinge ai limiti della sopportazione l'oltranzismo del protagonista, e confermata al termine della visione dalla capacità di trasferire sullo spettatore il senso di prostrazione che ne deriva. Dopo il sabotaggio di "The Fountain" e le incomprensioni produttive che ne derivarono, "Noah" nella ritrovata sintonia con i grandi apparati produttivi potrebbe dare nuova linfa ai progetti del regista americano. 
nickoftime
  Presupponendo che in tal caso far cenno alla trama sia superfluo, andremo di seguito ad analizzare il “Noah” di Aronofsky, regista dalla filmografia altalenante e controversa. Il tentativo di questo procedimento, forse anche nobile negli intenti, ha come difficoltà prima quella di sviluppare un film mainstream, lungo più di due ore, dagli striminziti cenni biblici e dalla formazione di scuola ebraica del regista e del suo sceneggiatore.
Il primo rischio era quindi proprio quello della fase di scrittura, che si perde in vaneggiamenti e si affida troppo sulle larghe spalle di Russel Crowe, destinate comunque a cedere il passo ad una sceneggiatura che (s)tenta di riprendere le fila del discorso in un finale vago. Ma fin qui, per un’operazione commerciale del genere, non c’è nulla di troppo scandaloso; la cosa che stupisce (negativamente) e che fa rabbia, è che in un film con una produzione ed un cast del genere, ci siano pecche tecniche che vanno a disintegrare ciò che di buono si poteva fare dal punto di vista visivo. In primis il 3D è tra i più inutili nella storia del cinema; la resa dei giganti di pietra è assolutamente mal riuscita, e l’orrore visivo qui va a coincidere con quello dello script, che poteva assolutamente fare a meno della loro presenza; più in generale tutti gli effetti visivi non vanno ad integrarsi per nulla con le riprese, il risultato è un’immagine fastidiosa che accompagna un film noioso (sempre sia lodato Peter Jackson, checché se ne dica rimane il sommo maestro nell’amalgamare gli effetti speciali alle dinamiche filmiche). Tutte le tematiche forti e di molteplici sfaccettature sono banalizzate negli atteggiamenti di un Noè che, oltre ad essere il prescelto per la salvaguardia della vita sulla terra, diventa anche un combattente investito della carica di giustiziere dall’”Altissimo” in persona, trasformando il discorso sul libero arbitrio (di cristiana e kantiana memoria) in una suspense dalla dubbia riuscita.
Il risultato di tutti questi errori di valutazione è un film che esula da ogni genere e non arriva nemmeno lontanamente agli obbiettivi che si prefissa; e nel tentativo di far riaffiorare la maestosità dell’elemento mitologico e simbolico, prerogativa pregnante dell’Antico testamento, si dirada in magie di bassezza “potteriana”, come nel caso dell’incontro tra Anthony Hopkins ed Emma Watson (le cui recitazioni sono le uniche note positive del film). Aronofski si conferma dunque un autore contraddittorio, andando a firmare con quest’ultima pellicola il più grande passo falso di una carriera che, ne siamo certi, è comunque in agguato per tornare a sorprenderci in futuro.
Antonio Romagnoli

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