Si tratta di un libro che comprende liriche scritte nell’arco di circa trent’anni le quali costituiscono, pertanto, testimonianze di momenti diversi dell’esistenza, eppure talmente legate tra loro da rendere il discorso poetico fortemente coerente ed unitario.
Ciò che dà unità alla raccolta non è tanto la soggettività, la persistenza dell’io lirico che si declina nelle comuni esperienze di vita (la gioia, il dolore, l’amore, la perdita, i luoghi e i tempi costituiscono, naturalmente, il materiale anche di questo libro di versi), quanto la domanda di senso, il bisogno di radicare l’esistenza, il qui ed ora, su di un terreno che lo trascenda e lo giustifichi. Ecco quindi il titolo, Noemátia, che chiama in causa la riflessione, la speculazione nel senso etimologico e filosofico del termine. Attraverso il linguaggio poetico, infatti, l’oggetto, vale a dire l’esperienza, si sdoppia, prende in qualche modo le distanze da sé e si universalizza, come in questi versi che evocano una incarnazione quasi platonica dell’idea stessa dell’amore materno: La madre che amavo/ non è finita per sempre/ se in altra io scorgo/ uguale tremito nel volto/ all’eco della gioia/ o del dolore. O, ancora: Ho guardato nei vostri occhi figli/ho visto in trasparenza/profili evanescenti/di volti già noti/sorrisi irradiati/di mistica luce/un coro/di candide mani/intrecciarsi in un’unica danza e tutto ampliarsi in concentriche onde, versi che auspicano una sopravvivenza che sembra andare ben oltre la dimensione familiare o genetica.
Tuttavia c’è da dire che l’operazione, messa in atto dall’Autrice, di collegare l’esperienza concreta ad un piano altro, metafisico, presenta un carattere di assoluta reciprocità, poiché se il vissuto viene redento dalla fragilità e dalla caducità attraverso il richiamo ad una diversa dimensione, quest’ultima trova una sua concretezza proprio nell’unicità ed irripetibilità in cui si incarna: Non è somma di assiomi/la Vita,/bensì Teofania.
La poesia di Adriana Pedicini è pertanto una poesia tutt’altro che astratta ( non a caso il libro si avvale dei bei disegni della pittrice Anna Perrone, i quali interpretano e danno concretezza visiva alle parole) anche se non imprigionata nella asfittica dimensione lirica ed autobiografica. Una poesia in cui il tempo, grande interlocutore, si propone come memoria collettiva di una generazione e di un ambiente culturale rappresentati con estrema pregnanza: Labbra spaccate/ maciullano di pane/grossi pezzi conditi/con l’ansia del domani , e ancora: Brulicano nella sera di festa/ciottoli levigati dalla vita /i semplici delle sagre/lungo i sentieri/delle luminarie. Un tempo/spazio, dunque, non contenitore astratto ma territorio sostanziato da una dimensione sociale, dall’alternarsi ciclico delle stagioni (a cui, detto per inciso, è dedicato il pirotecnico finale di brevissimi componimenti) e dal declinarsi lineare e transeunte della vita. A proposito di quest’ultimo elemento, emergono in modo assai singolare le due principali componenti della formazione culturale dell’Autrice, quella classica e quella cristiana, che una matura saggezza armonizza in una visone della vita serena ed antidogmatica. La malinconica percezione pagana, e moderna, del “tempus fugit” (L’ora scorre fugace/mentre sul ciglio della pena andiamo meditando il rimedio) trova infatti ascolto ed accoglienza all’interno della raccolta, mentre la fede si presenta con i caratteri modesti e tenaci della pascaliana scommessa.
Un libro per pensare, dunque, ma anche per emozionarsi, perché i pensieri che l’Autrice ci propone sono, lei ci dice, “piccoli” : non perché banali o scontati, ma in quanto legati alla concretezza, semplicità e preziosità degli affetti e della vita.