Noi terra d’approdo, da Il Paese Nuovo, 2011-12-21 (con un reportage di Danilo Calogiuri)
C’è Lecce e la sua provincia. Lo spazio attorno. Di solito, lungo le strade che collegano paesi e città lo sguardo si perde, distrae affonda, su macchie rosse di terreno, tinteggiate da verdi argenti e selvaggi pannelli solari. C’è Lecce, che in questi giorni, si cambia d’abito la sera. C’è il kitsch invasivo delle luci. La pelle mutata per coprire rughe a imbellettare, nelle intenzioni – forse, la vista. E poi c’è lo spazio attorno, man mano che si esce, ci si allontana e ci sono ancora luci, diverse, che si confondono mentre albeggia il giorno e lo spazio si sveste della notte, di quella notte – o quel lasso di tempo della svestizione, che fra l’ancorarsi e salutarsi, della notte e le prime luci, si confonde e s’accende d’altre luci. Diverse. Riparate. Timide. Necessarie soprattutto. C’è un gommone in questo lasso di tempo. Sono le prime ore del mattino, di lunedì 19 dicembre. C’è un gommone e sono in 37, quelli rintracciati dai Carabinieri, ad arrivare sulle coste del Salento, nella marina leccese, presso l’Oasi delle Cesine (San Cataldo). C’è un gommone e le prime notizie che parlano di circa cento immigrati. Le forze dell’ordine ne troveranno circa 37, dei quali, all’incirca 35 sono afghani. Ci sono gli echi delle guerre, delle “occupazioni” occidentali, in questi nuovi sbarchi. C’è sempre la speranza e ci sono i fuochi, luci della necessità. I fuochi e la malinconia avrebbe scritto il poeta cileno Martin Andrade. Di quella malinconia che segna la scia di un percorso di fuga, di sradicamento. Ne sono stati trovati 37 nell’oasi protetta de “Le Cesine”. La Croce Rossa ha provveduto a scaldarli con coperte termiche mentre i Carabinieri procedevano alle prime identificazioni. Mentre i fuochi, accanto, accesi diminuivano nel procedere delle ore, si stagliavano su di uno spaccato vissuto poche ore prima e inchiostrato sulla necessità. Terminate verso le 9:00 del mattino le operazioni di identificazione, e scortati gli immigrati presso il centro di prima accoglienza Don Tonino Bello di Otranto, resta “l’altro” che cerca l’incontro, nei fuochi le luci della necessità; poco distante quando arriva la sera, la pervasività kitsch cambia abito alle malinconie di una città ammainata nel tempo di sé stessa.
Francesco Aprile
2011-12-19
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