Almeno una volta quelli che si erano fatti da soli, una volta diventati capitani d’industria, si facevano fare i ritratti dai pittori delle regine, magari con improbabili decorazioni sul petto e seduti su una poltrona del settecento veneziano prodotta proprio per loro a Cerea. Di uno ricordo che era preoccupato che il suo accento veneto tradisse origini ruspanti così metteva le doppie a sproposito e trasformava ss in zeta così Ca’ Rossa, località nella quale aveva inalzato una sontuosa magione , diventata carrozza, il Colussi dei baicoli Coluzzi, che faceva più fino. E l’artita che lo aveva immortalato era quello che aveva ritratto Elisabetta II e lui lo chiamava spericolatamente Arrigoni, congome che gli era più familiare di Annigoni.
Peccati veniali rispetto ai vizi di nuovi tycoon arricchitisi col gioco d’azzardo della finanza, col casinò di fondi e derivati, senza aver mai prodotto niente, inventato niente, che non fosse speculazione, che non fosse fottere i poveracci caduti nelle loro maglie, che non fosse sfruttamento del lavoro altrui per appagare gli appetiti voraci di azionariati indolenti. O di sceicchi assatanati che vogliono trasformare i loro grattacieli nel deserto in piccoli Ermitage come quel Saud Al-Thani del Qatar che investì più di 1 miliardo di dollari in opere, con l’intento dichiarato di trasformare il Qatar in un centro culturale di fama mondiale, ma probabilmente, come farebbe sospettare la sua morte avvolta nel mistero come la sua controversa eredità, invece, determinato a condurre una formidabile operazione speculativa, gonfiando i prezzi di mercato. O di tycoon orientali presenti a tutte le più importanti aste per aggiudicarsi capolavori messi sul mercato con procedure non sempre trasparenti. E che sono poi i principali promotori e sponsor non disinteressati dei quei grandi eventi per infoltire i quali le nostre opere d’arte solcano perigliosamente i cieli, come se il nostro patrimonio artistico e culturale avesse bisogno di questa scriteriata pubblicità. È che anche questo, lo hanno dichiarato apertamente ministri e sindaci di importanti città d’arte, trasformatisi in piazzisti con tanto di valigetta e campionario, per “valorizzare” il Paese, per promuovere il brand Italia, un business Verybello come recita la campagna di comunicazione delll’apposito dicastero, per attrarre sponsor che si sostituiscano allo Stato e per convertire i beni comuni in merci a diposizione esclusiva di pochi privilegiati che se lo possono permettere: spendono quindi pretendono. Lo fanno con le coste, con le isole, con il mare, con sedi prestigiose, con pezzi di Venezia, di Roma, di Firenze.
Anche se la letteratura, soprattutto quella delle soap, ci fa sapere che piangono, non ho nessuna comprensione e nessuna indulgenza per i ricchi afflitti da quel morbo turpe che si rinnova, cresce inarrestabile e si sviluppa incontrastato e inguaribile, dilaga nelle loro menti e nel loro immaginario con metastasi e bubboni, che se chiama avidità e che si esprime col possesso. Non mi fanno pena se li immagino nei loro sotterranei o in visita in quelli delle loro banche, anticipatori di sepolcri e piramidi, mentre contemplano in solitudine, come in una specie di onanismo sterile, i loro Van Gogh, i loro Rembrandt, i loro Canaletto. Non ho nessuna clemenza per un godimento esclusivo della bellezza, “commesso” escludendo i più, alienando un bene che dovrebbe sere dei cittadini del mondo, per una contemplazione individualistica ed elitaria, magari vissuta come premio per soprusi, sfruttamento, sopraffazione, disprezzo per gli altri, o come rassicurazione, riscatto, compensazione per antiche frustrazioni e umiliazioni. Che poi si sa è un meccanismo che riguarda la bellezza tutta, compresa quella dei corpi, delle menti, delle anime che gli stessi mecenati comprano anche grazie alla complicità di chi ha definitivamente sotterrato radiose visioni di affrancamento e libertà.
E non ne ho nemmeno per chi questa smania di possesso la vuol consumare non avendone i mezzi. I cultori della cultura che albergano tra le pagine rosee del Sole 24 Ore o sui supplementi patinati dei quotidiani più autorevoli ci hanno fatto sapere che da qualche tempo vanno di moda e si stanno diffondendo le “artoteche” utile circuito per chi vuol “testare” una tela, una scultura, una incisione o un’acquaforte, magari in previsione di un investimento. Pare esistano cataloghi, proprio come per il vecchio PostalMarket, o siti per il noleggio online. L’intento sarebbe nobile: promuovere la circolazione della produzione artistica, farla conoscere con un’azione di divulgazione sia pure a carattere commerciale, come Mozart che fa da jingle al cognac, come i film che diventano motori di grandi eventi con l’orecchino di perla. E magari, ma vorrei vederli all’opera, favorire la produzione creativa di giovani artisti che non riescono a entrare nel circuito di sussiegose gallerie. Non molto di diverod alla proposta che, si direbbe a Roma, riciccia di continuo, di affittare le opere di grandi artisti che giacciono delle cantine dei musei, abbandonate in palazzi storici, a banche, aziende, privati magari in lunghi comodati, con la solita motivazione: meglio sul muro dei Paschi di Siena o di Unicredit, che in magazzino.
Ma invece non sarebbe meglio in biblioteche, istituzioni aperte al pubblico? Ma invece non sarebbe meglio nei loro luoghi di elezione: musei e istituzioni artistiche. Ma invece non sarebbe meglio far pagare biglietti per le grandi istituzioni, peraltro meno costosi dell’ingresso a una partita o dell’abbonamento a Sky, mentre per quanto riguarda piccoli gioielli sparsi sul territorio, renderli gratuiti, visto il successo del passato di quelle domeniche al museo che ha fatto capire che contesti locali hanno una grande attrattività ? Ma invece non sarebbe meglio destinare alla tutela e all’offerta del nostro patrimonio culturale e artistico i quattrini investiti nella realizzazione o nella promessa di Grandi opere inutili, o i proventi del gioco d’azzardo statale?
Macché, adesso per lo sfruttamento del nostro petrolio va di moda l’ artoteca, come quella di Roma, Artotheque de Rome (e mica vorrete chiamarla in italiano, no?) che funziona come un vero e proprio servizio di abbonamento: si paga una quota associativa e si sceglie un’opera, che sarà sostituita con un’altra ogni tre mesi. Pensate come sarebbe bello farlo anche con certi leader, con certi premier, con certi presidenti: lasci il loro ritratto appeso al muro in casa e negli uffici pubblici per tre mesi e una volta “testata” l’incapacità, la bruttezza, l’inadeguatezza a adornare il paese a a rappresentarne la bellezza, via. Giù dal chiodo.