Non aprite quel libro: L’incolore Murakami Haruki

Creato il 17 settembre 2014 da Wsf

“Se si fosse tanto superficiali da fermarsi alla sola trama del libro, si potrebbe commettere l’imperdonabile errore di non leggerlo…”

Questa è una frase estrapolata da una delle tante recensioni entusiaste che si trovano in rete sull’ultimo libro di Murakami ; L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio.
Inutile aggiungere che ho letto questo romanzo e l’ho trovato brutto al limite dell’indecenza e in più mi ha dato uno spunto per riflettere sulla capacità critica di molti pseudo recensori.

Ma partiamo dall’inizio. L’opera racconta la vita di Tazaki Tsukuru, dapprima soffermandosi sulla giovinezza, in cui il protagonista fa parte di un gruppo di ragazzi che vivono il sentimento dell’amicizia in simbiosi, come fossero un’unica entità. Tutti hanno il cognome che rimanda ad un colore specifico, a parte Tazaki, che per questo motivo sente una sorta di diversità dal resto dei suoi compagni. Il tempo trascorre fino al giorno in cui Tsukuru viene estromesso inspiegabilmente dagli amici senza un motivo apparante, cosa che lo porterà a pensare persino al suicidio.
Questo distacco forzato e mai veramente risolto lo perseguita anche nell’età adulta, creando una frattura emotiva che gli rende l’esistenza difficile e mai veramente vissuta appieno, fino a quando l’incolore Tazuki conosce una donna che lo aiuta a confrontarsi con il passato per risolvere il presente.

Come suggerito dall’affermazione iniziale non voglio indugiare troppo sulla trama che comunque trovo poco convincente e assai tediosa.
Ho letto quasi tutta l’opera di Murakami. Da Norvegian Wood a 1Q84, passando a L’uccello che girava le viti del mondo fino a Kafka sulla spiaggia. In tutti questi libri ho trovato, inventiva, stile nella scrittura e quel surrealismo onirico che tanto ha portato fortuna allo scrittore giapponese.
In questo ultimo romanzo non c’è niente o quasi di tutto questo. Una volta terminato, si ha la sensazione di aver letto il nulla, accompagnato da una prosopopea che rasenta il ridicolo nel voler trattare psicologia e inconscio, sentimento e passione senza dare al lettore una via di comprensione o immaginazione che solo una buon romanzo può dare.
Ovvio che Murakami è di per se un artista iper produttivo, come è ovvio che finché la popolarità lo accompagnerà e lo premierà nelle vendite, scriverà ancora opere senza il necessario periodo di stasi che tanto ha fatto bene a molti suoi colleghi.
Secondo la mia opinione L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio non è un libro da prendere in considerazione nel panorama letterario. Non è profondo come si vuol far credere, non lascia al lettore nessuna interpretazione e soprattutto ha il punto di maggior debolezza nella descrizione dei personaggi che ruotano attorno al protagonista, poco caratterizzati e scialbi in modo esponenziale.

Devo però ammettere che questa opera mi ha fatto riflettere sulla capacità critica di questi tempi.Troppe volte nella letteratura moderna si grida al capolavoro, senza che questo ne abbia i requisiti, anzi nemmeno le fondamenta. A volte sembra che il recensore non abbia nemmeno letto l’opera in questione. Il nome dell’artista come garanzia di eccezione può essere rimandato ai grandi della scrittura ma non certo ad un Murakami qualsiasi.
Un peto rimane un peto, inutile girarci intorno e non mi interessano gare al copia incolla finto buonista che tanto amano i critici internauti. La letteratura non è moda, non si può ridurre a vergognose pubblicazioni stile cinquanta sfumature di grigio come non si può reggere su recensioni fatte senza il minimo sforzo cognitivo se non quello di trovare profondità lì dove c’è solo superficie. Anche perché si rischia di perdere quella dignità analitica che contraddistingue chi di mestiere dovrebbe saper comunicare al lettore la propria verità su un’opera. Questo appiattimento è sicuramente figlio di un’epoca troppo veloce per la riflessione, dove tutto sembra livellato al ribasso, scontato come un prodotto contraffatto che si vuole far passare per originale.

In conclusione, consiglio ai moderni critici di andarci piano con le parole. Asserire che è da superficiali pensare che un romanzo sia quello che in verità non rispecchia, è un modo come un altro di passare un dogma per una forma di pensiero libero. Lascio volentieri la massificazione critica a chi cerca il consenso a tutti i costi scoprendosi talent scout o peggio recensore navigato.
Termini come straordinario, infinito, maestoso sono da riservare a libri degni di tali epiteti non certo a romanzi degni di una Bignardi qualsiasi.
Sarà forse che c’è una precisa strategia per spingere l’opera in questione, oppure soltanto mera e semplice ignoranza letteraria ?

A voi la risposta.


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