Non c’è come non farla per acuire le capacità cerebrali. Da quasi due ore guidavo, sabato mattina, tra le campagne vestite d’autunno del mantovano e del veronese, diretta a Isola della Scala e alla sua Fiera del Riso, e da almeno una mi scappava la pipì. Ma proprio tanto tanto. Ora, per quanto l’ambiente fosse circondato da campi e stradine che lungo essi si inoltravano, è questa la stagione dell’anno meno opportuna per trovarsi un angolino e acquattarsi. Tutti gli angoli sono, infatti, a vista. Tutto raccolto, tutto a terra, tutto sfoltito. E parecchi contadini all’opera a dare una mano alla caducità naturale.
La sosta sul ponte visconteo di Valeggio, con tutta quell’acqua che scorre sotto, ha fatto precipitare le cose. Da qualche parte della memoria è spuntato un lontano ricordo: c’era mica un bagno nel parcheggio di Borghetto? Provvidenziale. Tra l’umido del cielo e della terra e la canzone del fiume, ero pronta a tutto, in caso mi fossi sbagliata. A Isola la fiera era arrivata al suo ultimo fine settimana, dopo un mese di quintali di vialone nano cotti e serviti a folle in attesa: mi sono cavata la curiosità, ho scoperto un paese in cui il risotto viene cucinato a meraviglia e in abbondanza, ho fatto provviste per l’inverno, ho imparato un paio di cose sulla coltivazione in risaia e sono tornata a casa così stanca, ma rilassata, nel tardo pomeriggio, che per la prima volta da settimane, sono crollata in un pisolo tardivo, dimentico di ogni umana tribolazione.
Per tornare al tema del titolo, una che conosco mi ha suggerito tempo fa un’idea fantastica per ovviare all’inconveniente, tipicamente femminile – poiché uomini in piedi a gambe larghe davanti al nulla e col culo rivolto alla sede stradale ne vedo ovunque – di volerla tanto fare, ma di non sapere dove. L’ho ascoltata, perché l’idea era buona, ma chissà mai quando mi capita di averne bisogno. Adesso la metterò in pratica. E non vi dico quale è, perché sai mai che la ragazza in questione ci abbia fatto su una pensata e intenda brevettarla.
Qui piove, per parlar di acqua ancora, ma in una maniera così convinta e insistente, che c’è da chiedersi se ci starà, sotto di noi, tutta questa acqua, o il suolo si ribellerà, gonfio, e la risputerà fuori. E’ iniziata una nuova settimana di lavoro in una maniera direi balzana. Alle 6.30 mi sono avviata a piedi verso la stazione. Il paese la mattina è silenzioso, avvolto ancora dalle luci della notte. Qualche cane porta il padrone a fare slalom tra alberi e aiuole, nei laboratori di panetteria la luce è accesa, dai bar si sprigiona profumo di caffè. I ragazzi camminano curvi sotto il peso degli zaini, ma nel buio si vedono solo quando si passa loro vicino. E’ arrivato il treno più veloce, quello che ci impiega un’ora e dieci per fare 60 km, in scusabile ritardo di due minuti e ho trovato un angolino per leggere in santa pace. Un quarto d’ora dopo eravamo ancora lì, immobili sulle rotaie. Il treno partito mezz’ora prima, quello lento che fa tutte le fermate e ci impiega un’ora e quaranta, era rotto, fermo una stazione più in là, in un punto a binario unico. Un tappo. Non si andava più su e giù per la Valcamonica.
Sesto giorno da pendolare sui mezzi pubblici: ho chiuso il libro, sono scesa, ho ritrotterellato verso casa e sono ripartita in auto. Dopo aver fatto la pipì, già che c’ero. Sai mai che gli ingorghi raggiungano intollerabili estensioni.