Sta di fatto che finalmente mia madre iniziò per qualche sera a leggermele lei le favole. Poi, forse stufa o forse affascinata anche lei dalla modernità, accattò una favoletta-da-disco, infilò il disco nel giradischi e mi lassò ad ascoltare. La voce non era delle peggiori, ma straniera, grossa e barbuta, così me la immaginavo. La odiavo. Non ne so il motivo, ma al ricordo mi viene ancora il mal di pancia.
Nei libri leggo che il racconto è per i bambini un momento fantastico, di crescita, in cui un adulto-guida-amorevole ti racconta cosa accade e ti aiuta a elaborarlo e a prepararti alle difficoltà della vita.
Io non ho conosciuto tutto questo.
Io credo di aver conosciuto la prima crisi della fiaba: quel momento tipico della post-modernità in cui raccontare ad un bambino, da un sacrosanto momento relazionale, diviene azione solitaria e immodificabile, magari visione di un palinsesto televisivo, quello automatico del canale dei cartoni sul digitale.
Prima c’è stato il passaggio dalla fiaba raccontata a quella letta, poi a quella già disegnata e a quella come la mia, letta dalla stessa voce semi-mono-corde che esce dai mangianastri, e infine a quella vista alla televisione: VHS, DVD, Bim bum bam, digitale; ciò implica un salto qualitativo nella narrazione, che non si adatta alle esigenze emotive del qui ed ora del bambino, non si basa più sull’incontro amorevole tra chi racconta e chi ascolta e porta il piccino a interiorizzare l’assenza, la non disponibilità emotiva del genitore …ed a rimpiazzarlo con modalità relazionali inautentiche come quelle televisive, che rendono l’immaginario adesivo, passivo, identico per tutti. L’immaginazione subordinata all’immagine precostituita.
Leggo che bisogna iniziare da piccoli, che raccontare fiabe/favole ai bambini sarebbe un buon antidoto alla tendenza della civiltà dell’immagine a massificare e spersonalizzare, ma soprattutto che sarebbe un buon modo per contrastare il rischio di perdere la capacità immaginativa; quella originale, creativa, intendo.
Storielle versus Lobotomia, insomma.
Mi chiedo quanti della nostra generazione abbiano mai “raccontato” come atto relazionale.
Io almeno scrivo, tantissimi altri che conosco neanche questo; forse è difficile.
Per questo ringrazio il mal di pancia che mi viene sui fratelli Grimm e su Andersen, sulla morte della piccola fiammiferaia e di non ricordo quanti altri personaggi, perché almeno, anche se non me le hanno esattamente raccontate e (anche) per questo sono un fascio di ansie-da-abbandono-favolistico, al contempo i miei criceti cerebrali camminano e ripudiano con tutte le loro viscere gli stravisti bombardamenti di immagini mediatiche. Telecomando lontano, digitale spento: so ancora crearle da me, le mie immagini.