Non ci resta che piangere di Roberto Benigni e Massimo Troisi

Creato il 13 marzo 2012 da Spaceoddity
Non ci resta che piangere (1985), scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi, è una di quelle commedie che riconciliano con il tuo tempo quando ce n'è bisogno. Nel viaggio di un maestro (Saverio, come dire: Severio) e di un bidello, Mario, nel più fulgido Umanesimo italiano, si ritrova un dissacratorio e benefico umorismo. Accompagnati da attori di tutto rispetto (Amanda Sandrelli, Elisabetta Pozzi, Carlo Monni, Livia Venturini, Iris Peynado e Paolo Bonacelli), quasi tutti relegati in tempi da cammeo, i due comici ci portano in un altro tempo, rubandolo alle nostre ansie e regalandoci quasi due ore di spasso
Come sempre, quando c'è Benigni di mezzo, il film è una storia sull'amore (più ancora che una storia d'amore). La delusione di una sorella inconsolabile per l'abbandono da parte di un fidanzato egoista e americano quant'altri mai, il legame emotivo di un maestro con i suoi alunni, la ricerca di una ragazza da amare, la paura delle donne da sfuggire. E l'irrefrenabile empatia napoletana di un uomo che si adatta a ogni tempo, seduce le donne, ma stenta a capire l'impatto che il tempo ha sulle persone, perché Mario ama col cuore, ghermisce con l'anima.
Non ci resta che piangere è un film progettato a tavolino per commuovere, divertire, divertirsi a danno delle più viete consuetudini, che diventano assurde necessità vitali e comunicative. Mattatore da par suo, Benigni ritaglia il suo spazio per parlare del tardo Novecento, divertendosi a citare miti moderni e criticare vezzi e interpretazioni sconclusionate. Come in una sbrigliata parabasi (lo spazio che l'autore della commedia ateniese antica si riservava all'interno della propria opera per i suoi manifesti politici ed estetici), il comico toscano non risparmia niente e nessuno.
Non ci resta che piangere non seduce tanto perché sia un film in costume: in quanto tale le soluzioni sono anzi comicamente alla buona, non inadeguate, ma sempre pronte a mostrare il fianco a pedanterie filologiche. Il punto è che in questo 1492 di cartapesta, colmo di macchiette e di fondali da teatro di prosa, non si fa che affrontare lo spaesamento culturale e linguistica della modernità. E, rispetto agli altri titoli, anche successivi di Benigni, qui è Massimo Troisi a fare la differenza: con la sua cordiale, mediterranea intemperanza, l'attore aggancia lo spettatore all'urgenza del momento e dei sentimenti, ritagliandosi uno spazio insostituibile nella vicenda, da assoluto e incontrastato protagonista nel cuore di chi lo ricorda con affetto e devozione.

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