Non ci resta che piangere è un film progettato a tavolino per commuovere, divertire, divertirsi a danno delle più viete consuetudini, che diventano assurde necessità vitali e comunicative. Mattatore da par suo, Benigni ritaglia il suo spazio per parlare del tardo Novecento, divertendosi a citare miti moderni e criticare vezzi e interpretazioni sconclusionate. Come in una sbrigliata parabasi (lo spazio che l'autore della commedia ateniese antica si riservava all'interno della propria opera per i suoi manifesti politici ed estetici), il comico toscano non risparmia niente e nessuno.
Non ci resta che piangere non seduce tanto perché sia un film in costume: in quanto tale le soluzioni sono anzi comicamente alla buona, non inadeguate, ma sempre pronte a mostrare il fianco a pedanterie filologiche. Il punto è che in questo 1492 di cartapesta, colmo di macchiette e di fondali da teatro di prosa, non si fa che affrontare lo spaesamento culturale e linguistica della modernità. E, rispetto agli altri titoli, anche successivi di Benigni, qui è Massimo Troisi a fare la differenza: con la sua cordiale, mediterranea intemperanza, l'attore aggancia lo spettatore all'urgenza del momento e dei sentimenti, ritagliandosi uno spazio insostituibile nella vicenda, da assoluto e incontrastato protagonista nel cuore di chi lo ricorda con affetto e devozione.