Il lavoro a tempo indeterminato ha vita breve. Colpa della politica? La politica non c'entra, è l'economia a decidere se il lavoro a tempo indeterminato ha ancora senso di esistere o meno. La legge può fare ogni sforzo, ma è il mercato a fare le scelte. Nel 1970 la politica italiana aveva compiuto un gesto radicale: fare di tutto per dare all'economia di mercato una regola sul lavoro. Quella regola era il contratto di lavoro a tempo indeterminato, tutelato dalla protezione di ferro dell'articolo 18. Nessuna impresa (sopra i 15 dipendenti) poteva assumere del personale senza l'ipotesi che questo sarebbe potuto rimanere in azienda dal giorno dell'assunzione fino a quello del pensionamento.
Oggi non è solo il contratto di lavoro a tempo indeterminato ad essere messo in discussione, ma l'idea stessa di lavoro dipendente, di lavoro subordinato. Le nuove economie digitali, AirBnB, BlaBlaCar, Uber e i social network non sono forti perché hanno più dipendenti. Sono forti perché hanno utenti, ovvero, collaboratori quasi imprenditori (nei fatti, lavoratori autonomi) on-demand, pronti a mettere a disposizione i propri mezzi per competere sulla piattaforma. Le briciole guadagnate da loro sono la ricchezza di chi ha avuto per primo l'idea. Per approfondire questo scenario quasi post-apocalittico, consiglio un illuminante articolo del Corriere Economia.
Ma la legge non interviene sui cambiamenti epocali della Grande Crisi (meno soldi in giro) e della Ondata Digitale (tutto gratis, anche il lavoro) e si limita a dare qualche puntello ad un mondo del lavoro che è sempre meno di oggi e sempre più di ieri. Con un welfare statale in piena crisi (e un welfare aziendale ancora agli inizi), i provvedimenti attuali non sembrano sufficienti a dirigere il cambiamento in atto.
Eppure, bisogna prenderli in seria considerazione e conoscerli a fondo, perché sono questi gli strumenti legali con cui l'oggi si prepara ad affrontare il domani.
Simone Caroli